Diamanti
Amari
Anne M. G. Lauwaert
Questo libro è ispirato a fatti storici realmente avvenuti. Tuttavia, ogni
riferimento a persone esistenti, là dove non esplicitamente precisato, nel loro
affettuoso ricordo, è puramente casuale.
Dedico questo racconto alla Valle Onsernone per il suo silenzio e l’energia
emanata dalle sue montagne.
Chiedo che mi venga perdonato qualche leggero
anacronismo.
Prefazione
Quando Anna Lauwaert mi chiese se poteva sottopormi il suo libro, che
allora non aveva ancora un titolo, rimasi sconcertato dal compito. Non mi era
mai capitato di dover esprimere un parere su di uno scritto ancora inedito.
Inoltre, era un periodo in cui avevo perduto la salutare abitudine di leggere
buoni libri, accontentandomi perlopiù della lettura, molto meno impegnativa,
della stampa. Perciò, cortesemente, accettai l’incarico col pensiero già
confezionato di mettere il dattiloscritto in cima alla mia cattiva coscienza,
cioè a quella catasta di libri non letti che stanno, ormai coperti dalla patina
dell’inedia, dietro al mio cuscino - in attesa di una lettura prevista, magari,
in una prossima vita. Ma avevo fatto male i conti: quello che avevo depositato
vicino al mio giaciglio non era un libro stampato; era carta vergine non ancora
letta. Qualcosa mi invitava inconsciamente ad accarezzarne almeno la copertina,
per arrivare a sbirciare, pur senza entusiasmo, ma con quella curiosità che
spinge l’uomo verso la cosa nuova, a sollevare con pudore le prime pagine. Non
ricordo quante pagine avevo ormai letto con avidità prima d’accorgermi d’essere
assorto nel testo come ai vecchi tempi.
Ammetto ora che mi sono lasciato trasportare dal turbinio d’azione che
marchia l’inizio della storia, ma poi, quando tutto si calma e s’inizia a
chiedere il perché delle cose e a cercare il filo del raziocinio, il libro
diventa storia raccontata. Ci si accorge d’esser stati presi e condotti per
mano in luoghi sconosciuti, ma che colpiscono per il calore e l’amorevole
tenerezza usati dall’autrice. Con amore e severità, Anna Lauwaert dipinge i
luoghi in cui tutto nasce, dove gli interpreti del romanzo calcano la dura
roccia e i luminosi fili d’erba della montagna. È con un amore quasi protettivo
che porta poi la protagonista al di là del mare per emigrare verso l’America,
senza mai tagliare il sottile filo che la lega indissolubilmente a Vergeletto,
un anonimo villaggio in disuso ai confini del Ticino. A New York, la
protagonista rinasce a nuova vita mescolando la dura educazione cattolica
ticinese alle libere ed elastiche tradizioni americano-giudaiche.
Mi son lasciato trasportare dal racconto come da un fiume, a volte calmo, a
volte rovinoso, e ho portato queste pagine con me, approfittando d’ogni
occasione per arrivare alla conclusione, non per terminarlo al più presto, ma
per capire una storia troppo vera per esser solo frutto della fantasia.
Alla parola Fine si arriva trafelati, senza la perfetta coscienza d’aver
letto un buon libro o visto un buon film.
Elio Bollag,
della Comunità Ebraica di Lugano
Diamanti
Amari
Nel 1980, Antonio, un abitante delle Centovalli, mi raccontò che durante la
guerra ‘40 - ‘45 erano successe “delle cose”. Tra queste, vi era anche la
storia di un orologio d’oro…
1. Wilbur
1945
Nora uscì dalla casa. Faceva freddo ed era già buio. Se non fosse stato per
la mucca, Nora sarebbe rimasta seduta davanti al camino ad ascoltare la nonna
recitare il rosario. Rocco sarebbe forse venuto a farle la corte. Pensavano al
matrimonio per maggio.
La neve calpestata era gelata e scivolosa. Nora
aprì la stalla e depositò la lanterna su di un secchio rovesciato. La mucca era
sdraiata e ruminava tranquillamente. Il gatto dormiva sul mucchietto di fieno.
Nora, per non disturbarlo, salì nel fienile per buttare altro fieno di sotto.
Arrivò in cima alla scala. Il pavimento, fatto da esili tronchi di larice,
oscillò sotto i suoi passi. Quando si girò per chinarsi e prendere il fieno in
braccio, vide l’uomo seduto nella penombra. La lanterna era rimasta di sotto,
ma la poca luce bastò a farle riconoscere l’uomo intravisto quella mattina.
L’aveva visto alto, magro, coi capelli neri e
ricci. I suoi occhi erano intensi. Era giovane e vestiva di verde scuro, come
un contrabbandiere o un militare. Portava uno zaino e sotto il lungo cappotto
nascondeva probabilmente un fucile. L’uomo stava immobile tra due cataste di
legna. Non aveva fatto segno né di voler fuggire, né di volersi avvicinare. Non
si era mosso. Nora aveva fatto finta di non vederlo. Aveva preso tre pezzi di
legna ed era ritornata in paese.
Adesso, l’uomo stava seduto davanti a lei nel
fienile. Aveva steso il cappotto sul fieno e ci si era sdraiato sopra. Non
disse niente. Nora sapeva che lì egli stava al sicuro e al caldo, ma di notte,
la temperatura sarebbe scesa. Senza riflettere, lei si avvicinò, si tolse il
grande scialle di lana pesante come una coperta e lo tese all’uomo che non si
mosse.
«Prendete», disse Nora. «Questa notte farà
freddo.»
L’uomo rimase immobile. Lei pensò che avesse paura
o che non capisse la lingua, quindi si avvicinò per dargli lo scialle. Quando
fu vicina, l’uomo alzò la mano, prese lo scialle e il braccio di Nora.
Gentilmente, la fece sedere vicino a lui. Se
avesse voluto, Nora avrebbe potuto resistere e andar via. Lui non la forzava,
anzi, si muoveva lentamente e dolcemente, come per invitarla, come per chiedere
il suo consenso. Lei non fece niente per resistere. Si sedette vicino all’uomo
che non disse niente. Egli si limitò a cingerle le spalle col braccio destro.
Con la mano sinistra, seguì il braccio di Nora, nudo nella larga manica.
La mano salì fin quando l’ascella impedì di
proseguire. Poi, le accarezzò ancora il braccio nudo e abbassò la manica. Senza
fretta, tranquillamente, depositò la mano sinistra sulla parte interna della
caviglia sinistra di Nora, per poi risalire lungo la calza di lana e
abbassarla.
Strinse leggermente la sottile caviglia nuda nella
sua grande mano. Lentamente risalì lungo la gamba nuda, l’incavo di pelle
tenera dietro al ginocchio, poi l’interno della coscia. Quando infine sfiorò il
vello morbido e umido, non ebbe né sorpresa né esitazione. Allora, le donne
portavano le gonne lunghe, ma non le mutande.
Senza nemmeno un fremito, strinse a piena mano la
zolla calda e untuosa come un panetto di burro. Nora si era lasciata andare
indietro mentre arcuava il fondoschiena e tendeva con tutta forza i muscoli
delle gambe divaricate, come per spingere in avanti e verso l’alto il vortice
infuocato che aveva invaso tutto il suo corpo.
L’uomo non aveva fretta, proseguiva lentamente,
con determinazione e destrezza, una mossa dopo l’altra, logicamente, inesorabilmente,
come il prestinaio che lavora la pasta fin quando sente sotto le sue mani il
lievito impaziente di lasciar esplodere l’eccesso d’energia accumulata.
Il corpo della ragazza era nudo nella perfezione
dei suoi quindici anni. L’uomo strinse la vita sottile tra le sue mani enormi e
scivolò lungo l’arco dei glutei induriti, poi risalì lentamente lungo la
schiena e appena sfiorate le scapole allentò la stretta per richiuderla sui
seni piccoli ma sodi ed eretti come melograni aggressivi. Quando sentì tra le
labbra la durezza dei capezzoli, raggiunse il colmo del proprio turgore e, in
un movimento solo, afferrò il bacino della ragazza e la penetrò d’un colpo
esperto e potente.
Nora tese le braccia in alto e si arcuò seguendo
il movimento dell’uomo per offrirgli tutta la sua recettività e, quando sentì
il flusso caldo inondarla, si lasciò crollare con un sospiro di profonda
soddisfazione. Capì che era proprio questo che aveva bramato giorno dopo
giorno. Né Rocco né alcun altro ragazzo del paese aveva osato, anzi, si erano
trincerati dietro scuse ridicole di peccato, preti, matrimonio, età… Ma Nora
sapeva come andavano le cose quando la gatta o la mucca o altre femmine erano
in calore…
«Thank you», sospirò l’uomo esausto prima
di addormentarsi.
Quando Nora riprese conoscenza, la lanterna si era
spenta. A tentoni, cercò i suoi vestiti e si coprì alla bell’e meglio prima di
tornare in casa. La nonna sonnecchiava col rosario tra le mani davanti al
camino quasi spento. Nora entrò senza far rumore, si sdraiò sul suo giaciglio e
si addormentò, completamente soddisfatta.
Alla mattina seguente, tornò nella stalla per la mucca. Non cercò l’uomo,
perché sapeva che non c’era più. Certamente, anche lui era partito per il fondo
della valle. In seguito, malgrado la neve, sarebbe salito sulla montagna e
sull’altro versante avrebbe varcato il confine e trovato la libertà o avrebbe
raggiunto i partigiani. Era la fine della guerra: si parlava regolarmente di
capitolazioni, di conferenze e trattati e poi si riparlava di altri bombardamenti.
Nessuno ci capiva qualcosa e l’unica cosa certa era che qui sul confine
continuava ad andare e venire gente strana.
La vita proseguì come prima. Niente era cambiato. Rocco veniva, si sedeva
sulla panchina. Non parlava. Non c’era niente da dire. In maggio si sarebbero
sposati perché Nora era orfana e così si sarebbe sistemata. Lui sarebbe
ripartito a fare il gessatore a Berna. Avrebbe mandato qualche soldo e il
bucato sporco da lavare. Nora sarebbe andata avanti col fieno e la vecchia
nonna e la Zia Celestina. La mucca sarebbe andata all’alpe fino a settembre. Si
sarebbero raccolte le patate e le castagne. Sarebbe andato avanti così,
uggiosamente, come andava avanti da sempre.
1946
Passò Natale e Capodanno e la guerra era davvero finita. A gennaio nevicò
abbondantemente. Poi venne un gran freddo e l’acqua gelò nella fontana. Il 24,
precisamente come ogni anno, il primo raggio di sole colpì la cima del
campanile. Il peggio dell’inverno era passato, Da quel momento in poi, il
giorno si sarebbe allungato. Il sole si sarebbe alzato e, progressivamente,
sarebbe tornato a riscaldare e a far sciogliere la neve fino al fondo della
valle, che durante tutti questi mesi era rimasta nel buio.
Alla fine di febbraio fu la terza volta che a Nora
non erano venute le sue cose. Una sera, Rocco si sedette davanti al camino.
«Non devi stare qua», disse Nora. «Quando partono
gli altri, devi partire con loro.»
«Quest’anno non parto», rispose Rocco. «Partirò
dopo il matrimonio.»
«Non ci sarà matrimonio.»
«E perché?»
«Perché non ci sarà.»
Rocco si era alzato, era uscito e non sarebbe più
tornato.
«Perché non vuoi più sposarti?», chiese il prete.
«Perché non voglio più sposarmi», rispose Nora.
Rocco partì con gli altri emigranti ai primi di
marzo. Nora non ebbe nemmeno il sentimento di aver tradito la sua promessa. Era
capitato così. Era solo capitato.
Nora continuava con la mucca e la vecchia nonna. Sotto le sottane, la sua
pancia si arrotondava lentamente. Ormai, tutto il paese sapeva. Se n’era
parlato e le pettegole erano state felici di una così grande novità. Nora non
diceva niente. Non rispondeva alle domande. Volevano tutte sapere chi era
stato. Nora diceva che non lo sapeva. Avevano guardato Rocco di traverso e lui
si era arrabbiato perché, oltre a non aver fatto il danno, si prendeva la
beffa. I suoi amici l’avevano preso in giro e lui finì per non uscire più di
casa.
Poi tutto si era calmato. Il dubbio rimase e Nora non disse mai chi era
stato perché questi erano affari suoi.
La mucca partì per l’alpe. Nora andò tutte le
mattine a monte con le altre donne a tagliare il fieno. Alla sera scendevano
con enormi carichi che portavano direttamente nei fienili. Alla domenica
andavano a messa. Più durava a lungo, più avevano tempo per riposare. Quando il
primo fieno fu tagliato, si cominciò a tagliare il secondo: il rescidiü.
A metà agosto, dopo pranzo, Nora ebbe un paio di violenti crampi, poi si
ruppero le acque e si sedette nel prato all’ombra di un castagno. Le altre
donne continuarono a rastrellare. Poi, la Zia Celestina venne ad aiutare. Era
un maschietto, piccolo e magro. Aveva la pelle scura, i capelli neri e
strillava.
Quando le altre donne scesero in paese, Nora
riempì un po’ meno il suo gerlo, ci depositò il bambino avvolto nel suo
fazzoletto e scese anche lei.
Tutte le mattine, saliva a far fieno col bambino
sdraiato nel gerlo. L’importante era riempire il fienile per poter tenere la
mucca durante l’inverno.
Il bambino fu dichiarato in municipio e battezzato in chiesa.
«Donato, Wilbur, Antonio. Padre: sconosciuto»,
scrisse Nora con la sua calligrafia scolastica.
«Cosa vuol dire Wilbur?» chiese il prete.
«Non lo so», disse Nora. «Era scritto nel
cappotto.»
Lo chiamarono Donato perché non aveva padre e
Antonio perché Sant’Antonio era il santo che proteggeva gli animali e faceva
ritrovare le cose perse.
«Dovrai lavorare per mantenerlo», disse la Zia
Celestina, che non aveva rifiutato di essere la madrina.
«Lavorerò», disse Nora.
1947
Quando gli emigranti partirono, Nora partì per l’America come molti altri
avevano fatto prima di lei.
Donato rimase con la mucca, la nonna, la Zia
Celestina e le primule che cominciavano a sbocciare nei prati appena si
ritirava la neve.
Nora non scrisse mai. Non si seppe mai se era
arrivata, dov’era andata, né cosa faceva. In paese nessuno pensava più a lei.
Era come se non fosse mai esistita.
Una mattina, dopo diversi anni, il postino venne a bussare.
«Celestina, c’è un assegno per voi…»
L’assegno era sostanzioso. Non portava né firma né
nome del mittente; solo il timbro della posta: Saint Louis Obispo.
Da allora, puntualmente, ogni sei mesi, arrivava
un assegno, ogni volta più importante.
Celestina non era più in grado di lavorare come
prima, ma gestiva l’assegno con drastica parsimonia ed evidente piacere di
vedere l’ammontare del capitale sul libretto di risparmio salire lentamente ma
costantemente.
1953
Donato era diventato un ragazzetto sveglio che correva su e giù per i monti
con gli altri bambini e imparava i trucchi che si trasmettevano di generazione
in generazione. Così imparò a prendere le lepri nei lacci, a sparare ai merli
che rubavano le ciliege e a pescare le trote con le mani nei riali. Non era per
sport, né per divertimento, ma per fame.
A scuola, Donato non era tra i primi della classe.
Era una scuola piccola con un solo maestro per i cinque livelli. Quando i
ragazzi finivano il ciclo, sapevano leggere, scrivere, fare i calcoli e avevano
qualche nozione di storia e geografia. Dopodiché partivano anche loro per
imparare un mestiere ed entravano nella vita dell’emigrazione come i loro
genitori.
1957
Quando Donato stava finendo la scuola elementare, il parroco venne a
parlare con la Zia Celestina.
«Monsignor Vescovo ha ricevuto una richiesta
venuta dall’estero. I Padri di Don Bosco hanno riservato un posto per il
bambino nel loro collegio.»
Poi chiese al bambino quale mestiere avrebbe
voluto imparare.
«Andare in montagna», disse Donato.
«A far la fame», commentò Don Alberto. «Hai
l’occasione d’imparare un mestiere e andrai in collegio… È un ordine venuto
dall’alto.»
Quell’anno, grazie a un generoso donatore, si poté
imbiancare la chiesa.
Il primo di settembre, il prete venne a prendere Donato.
«Cerca di comportarti bene», disse Zia Celestina.
«E di farci onore.»
Scesero a Locarno con Pino, l’uomo della Camilla,
che faceva i trasporti col suo camion Ford verde e con Gregorio, che andava a
vendere il formaggio al mercato. Don Alberto si sedette vicino al Pino, mentre
Donato fu sistemato con la sua piccola borsa tra una cadola e due sacchi che
contenevano non si sapeva cosa. A lui non importava nemmeno di sapere cosa
c’era: si sentiva una forma di formaggio tra le altre, tutte destinate a essere
vendute e tagliate a pezzi prima di essere mangiate da quella gente di città
che aveva i denti lunghi e aguzzi e forse mangiava anche i bambini. Donato non
era mai andato a Locarno, né da nessun’altra parte.
L’estate era stata molto calda ed era piovuto
poco. Molti alberi iniziavano a diventare gialli e le foglie cominciavano a
cadere. I giorni si erano già accorciati; a breve, il sole non si sarebbe più
alzato abbastanza da poter superare la montagna e tutta la valle di Vergeletto
sarebbe rimasta nell’ombra fredda fino a metà gennaio dell’anno successivo.
Invece, il paese di Gresso, che stava molto più in
alto, riceveva il sole tutto l’anno. D’inverno, quando fa freddo, il sole è
importante. Chissà perché quelli di Vergeletto non avevano pensato al sole
quando avevano costruito il paese…
Pino e i suoi passeggeri passarono davanti alla
chiesa, poi all’osteria e di fronte a loro, sul monte dall’altra parte del
fiume, c’era gente che tagliava la legna. Era un primo segno dell’autunno: fare
una bella scorta di legna.
Anche la caccia segnava la fine dell’estate. A
metà settembre, si sentivano le schioppettate rimbombare nelle valli. Ogni
anno, Zia Celestina riceveva un pezzo di selvaggina che veniva cucinato in
umido e mangiato con la polenta. Era un pranzo da festa, particolarmente
lussuoso. Non si mangiava quasi mai carne; qualche volta un coniglio o una
gallina, ma non c’erano soldi per comperare la carne del macellaio. A
Vergeletto di macellai non ce n’erano nemmeno.
La valle era profonda e molto stretta. Sulla
sponda sinistra, bellissimi prati salivano verso Gresso, mentre sulla sponda
destra del Ribo, che era anche oviga[1]
e riceveva poco sole, la montagna era alta, ripida, piena di rocce e coperta da
foreste di faggio, da qualche abete e da tanti larici, belle piante, buona
legna. I faggi soprattutto davano la migliore legna da ardere e le loro foglie
secche servivano per riempire i materassi.
Tutte le foglie degli alberi servivano. Lo strame
veniva rastrellato meticolosamente e usato nelle stalle come lettiera per le
bestie. Serviva anche per il comad[2]
della gente: ogni giorno, si buttava un po’ di strame che copriva tutto,
toglieva l’odore e le mosche. In primavera, il tutto diventava un ricchissimo
letame da spandere su prati e orti. Gli alberi erano preziosi, senza parlare
dei noci e dei castagni! Non si poteva nemmeno immaginare la vita senza
castagne.
Arrivarono alla biforcazione che saliva verso Gresso. Di solito si andava a
Gresso in ottobre per la festa patronale di Sant’Orsola. Ogni paese festeggiava
il suo Santo protettore. Tutta la gente veniva dai villaggi vicini; si andava a
messa e poi c’era la festa in piazza con la maccheronata.
Erano belle feste, attese da tutti con impazienza.
I ragazzi ne approfittavano per guardare le ragazze. Le ragazze si facevano
belle per attirare gli sguardi dei ragazzi… Qualcuno suonava la fisarmonica e
si ballava. Si approfittava per stringersi e magari per rubare un bacetto: era
molto eccitante. Mentre gli adulti erano occupati a discutere, i bambini
sfuggivano alla sorveglianza e si scatenavano nelle birichinate più fantasiose.
A Vergeletto festeggiavano Sant’Anna e, per
quell’occasione, la Zia Celestina faceva sempre la torta di pane.
Al bivio per Gresso, Erna e Adelina aspettavano.
Vestivano tutte e due gonne larghe e lunghe e, sulla testa, un fazzoletto nero
con fiorellini bianchi e rossi. Pino fermò il camion per caricare una cesta che
conteneva due conigli vivi, anch’essi destinati al mercato. Ripartirono. Subito
la strada diventava terribile: scendeva in modo ripidissimo. Si doveva essere
capaci di controllare sia il camion sia la strada stessa. Il sedime di terra e
sassi poteva fare brutti scherzi e, con un salto nel vuoto, camion e passeggeri
sarebbero finiti in mille pezzi nel greto del fiume, trecento metri più in
basso…
Pino mise la prima marcia. Lentissimamente il
camion scese, una curva dopo l’altra, fino al ponte dove la strada riprendeva
una pendenza più cristiana. Passarono davanti alla segheria della Coletta. I
tronchi erano accatastati e aspettavano di essere tagliati per fare travi e
assi; tutta bella legna d’opera. La legna da ardere, ognuno se la tagliava a
seconda dei lotti che il forestale marcava nei boschi del patriziato.
Finalmente, la strada diventava quasi piana. A
destra, in alto sul monte di Pombino, si sentivano le campanelle delle capre;
anche dall’altra parte della valle, sul monte di Quiello, l’attività era
febbrile. Ormai le mucche erano già scese dagli alpeggi e davano un bel da
fare: si doveva lasciarle uscire alla mattina, controllare che avessero
abbastanza acqua, sorvegliare che non entrassero in qualche orto, mungere e
fare ancora qualche formaggella, farle pascolare in modo da risparmiare l’erba.
Il fieno era per l’inverno. Non c’era da
annoiarsi. Nemmeno fare l’alpigiano era facile. Quando ci sono cento mucche e
cinquanta capre da mungere, scaldare il latte, fare il formaggio, tenere tutto
pulito, rincorrere le bestie che andavano troppo lontano, far legna e così via…
Si ballava giorno e notte.
Le buone stagioni erano rare: o pioveva troppo e
faceva freddo e l’erba non cresceva, o faceva troppo caldo e secco e la poca
erba bruciava. Una buona stagione richiedeva il caldo, abbastanza pioggia,
niente malattie né incidenti e gente a sufficienza per poter far fronte agli
impegni. Raramente tutti gli elementi erano presenti; mancava sempre qualcosa…
Si tirava avanti come si poteva. L’autunno cominciava a settembre e tante volte
faceva freddo fino a maggio. Era una valle dura e gli uomini erano costretti a
cercare lavoro nella Svizzera interna.
Pino e i suoi passeggeri erano arrivati al Ponte
Oscuro, un ponte altissimo di sasso. In fondo ai dirupi, tra le pareti di
roccia, scorreva il fiume che ad ogni temporale si trasformava in un torrente
impietoso. A destra, la strada saliva verso Crana e verso la valle nella quale
nasceva il fiume Isorno. A sinistra, si saliva verso Russo.
Russo era quasi una città: tante case, tanta
gente, il prestinaio, la scuola, una bellissima campagna e il più bel
ristorante della valle. Si fermarono perché Gregorio doveva discutere dei suoi
affari con Vittorio e tutti si sedettero sulle panchine di granito, davanti ad
una tavola anch’essa di granito, sotto i portici che davano sulla piazza. I
balconi e le finestre erano abbondantemente fioriti, per lo più di gerani.
Gli uomini bevvero un bicchiere di Barbera e per
Donato ci fu una gazzosa, come in un giorno di festa. A Russo, la valle era più
larga; tutto sembrava più chiaro e in paese c’era un grande via vai.
Risalirono sul camion e scesero verso Mosogno. Non
si vedevano i monti sopra la strada, perché la montagna era ripidissima e poi
venivano subito le pareti rocciose del Pizzo della Croce. Erano pareti
verticali, talmente alte che facevano paura e spesso si sentiva il fracasso di
frane mostruose echeggiare in tutta la valle. Di fronte a Mosogno, si stendeva
il più bel monte dell’Onsernone: si chiamava Oviga, perché era all’oviga; era
forse l’unico posto un po’ pianeggiante con grandi terrazze e magnifici prati.
Nel centro di Mosogno, si passava a malapena
perché la strada era stretta tra le case e la chiesa. Il paese era lunghissimo
e finiva al Cioss, dove si trovava la
chiesetta di San Giacomo, quello di Compostela. Donato lo sapeva perché lì si
festeggiava il giorno prima di Sant’Anna. C’erano le mele di Sant’Anna e la
composta delle mele e San Giacomo ne faceva la compostella, il giorno prima di
Sant’Anna, ovviamente. Una volta era venuto alla festa con la Zia e avevano
mangiato le torte delle bisce: grandi torte ricoperte di confettura sulla quale
erano depositate strisce di pasta come un intreccio di bisce. Che buone!
Di Berzona non si vedeva niente perché il paese
era molto più in su, sulla sinistra della strada. Bisognava volerci andare
veramente, un po’ come a Gresso.
Passarono sopra il ponte del mulino ed entrarono a
Loco. Questo sì che era un bel paese; addirittura, la strada era pavimentata
coi dadi! Faceva molto più caldo che a Vergeletto e c’erano anche fichi e
pergolati con la vigna. Se non fosse stato per Loco, Donato non avrebbe mai
mangiato né un fico né un acino d’uva.
A Loco, facevano il vino! E durante l’inverno, si
rinchiudevano in una specie di cantina molto buia e accendevano il fuoco sotto
il lambic[3]
e distillavano la grappa, quella che si mette nel caffè o, quando si è malati,
nel latte bollente col miele. La chiesa, poi, era enorme e magnifica! Tutti gli
anni, la Zia veniva per la festa di Santo Crocefisso, la festa più importante
della valle, perché era un crocefisso miracoloso. Non si sapeva più perché, ma
sui miracoli non serve discutere. Veniva moltissima gente anche dalle Terre di
Pedemonte e dalle Centovalli. Donato era venuto fin qua, ma non aveva mai
superato Loco.
A Loco, c’erano addirittura una macelleria e una
bottega. Si fermarono davanti alla bottega. Ursula uscì, si piantò i pugni in
vita e disse scocciata: «Era ora che mi portavi il formaggio! Guarda che a
quest’ora le capre di Domenico non fanno più i formaggini. Cosa posso vendere
ai miei clienti se i fornitori sono tutti come te?»
«Eh, vabbè», borbottò Gregorio. «Quando vengo mi
vedi e quando non vengo…» Poi scaricò due enormi forme di formaggio dell’alpe
Categn e diverse formaggelle.
Attraversarono il paese; in alto, troneggiava la
Chiesa. Passarono sotto la casa anziani tenuta dalle Suore e poi scesero la
strada ripida fino al mulino dei Paolott. Il peggio della strada era passato;
da lì in avanti, non c’erano più discese pericolose. Passando davanti alla
chiesetta della Madonna delle Sponde, tutti fecero il segno della croce perché
questa Madonna faceva continuamente dei miracoli. Faceva arrivare i bambini
alle coppie che non erano capaci di farseli da soli. Poi, passarono Auressio.
Dall’altra parte della valle, c’erano tutte le case e le terrazze coi prati e i
campi delle Vose. Nell’angolo di un prato, stava un albero enorme: uno degli
ultimi superstiti dei murai, quegli alberi le cui foglie servivano a nutrire i bachi
da seta. In tempi remoti, li avevano allevati anche lì.
Ma la valle Onsernone era conosciuta soprattutto
per il lavoro della paglia. La paglia veniva intrecciata in lunghe bindelle che
poi servivano a fare delle scatole, delle ceste, dei sottopiatti e -
naturalmente - dei cappelli di paglia, che venivano venduti in tutto il Ticino,
in tutta l’Italia e in tutto il mondo.
Ora, anche per l’industria della paglia si
annunciavano tempi duri: le macchine rubavano progressivamente il lavoro alla
gente che senza lavoro non aveva denaro e ritornava alla povertà. Chissà poi se
la gente avrebbe continuato a portare i cappelli o se, peggio ancora, fosse
venuta la moda di cappelli fabbricati altrove.
La Valle era sempre stata povera. C’erano anche
state carestie, talmente terribili che la fame dell’Onsernone era diventata
proverbiale, tanto quanto l’altezza del campanile di Intragna. Nel secolo
precedente, un vulcano era esploso in Indonesia e le sue ceneri avevano
provocato in Europa “l’anno senza estate”, con un maltempo tale che in Ticino i
raccolti andarono male e la gente dovette addirittura mangiare l’erba, come le
bestie, e tanti morirono di fame.
La Valle Onsernone era senz’altro molto bella e
pittoresca per i visitatori che ci venivano in passeggiata, ma per la gente che
ci viveva, questa natura grandiosa e selvaggia era anche spietata, con valanghe
devastatrici, precipizi traditori, alluvioni micidiali che travolgevano ogni
cosa. La vita quotidiana era tutt’altro che poesia… L’unico ricorso era la
religione: implorare Dio, tutti i suoi Santi e tutte le Madonne per chiedere
tempi migliori e consolazione ad ogni nuova disgrazia.
Mentre Don Alberto era assorbito da quei pensieri,
scesero lentamente nel bosco fitto di castagni che erano carichi di ricci quasi
maturi, fino a Cavigliano. Qui terminava la Valle Onsernone e si entrava nel
vasto mondo sconosciuto che Donato aspettava con apprensione.
L’idea del viaggio gli faceva paura, quella della
città lo terrorizzava e quella del collegio lo faceva sentire come una pecora
che si va a sgozzare sull’altare di un qualche dio; esattamente come aveva
letto Don Alberto in quel grosso librone polveroso rilegato in vecchio cuoio,
che non aveva più doratura sul taglio consumato.
Pino fermò il camion sulla Piazza Grande di Locarno,
dove si teneva il mercato. Gregorio entrò al ristorante Verbano, dove aveva
appuntamento con Remo, che commerciava in formaggi. Don Alberto e Donato
continuarono a piedi verso la stazione. Sotto i portici, c’era tantissima
gente; loro camminarono in mezzo alla piazza. Donato aveva infilato la sua
manina in quella del prete e si teneva incollato alla larga sottana nera,
pronto a nascondersi al primo allarme.
Partirono in treno da Muralto per un lungo
viaggio. Per la prima volta, Donato salì su un treno. Le panchine erano di
legno. Fu anche la prima volta che vide il Lago Maggiore, che gli sembrò
grandissimo. Dovettero aspettare e cambiare treno. Donato si addormentò diverse
volte.
Poi, il paesaggio cominciò a cambiare. Le case
diventarono strane: molto alte, con tetti di tegole rosse. Soprattutto, non
c’erano più montagne, tutt’al più qualche collina coperta da lunghi filari
paralleli.
«Sono i vigneti», spiegò Don Alberto. «Qui
coltivano l’uva per fare il vino, non come a Loco. Qui lo fanno alla grande…»
Si vedeva così lontano che non si distingueva più
niente. Donato non avrebbe immaginato che esistesse un paese così strano,
uniforme, monotono senza neanche una montagna e così caldo.
Scesero dal treno. Donato era troppo sconvolto per
cogliere il nome del paese nella stazione e camminarono a lungo. Costeggiarono
un muro molto alto. I cancelli di ferro battuto erano chiusi e ugualmente alti.
Il prete tirò la maniglia appesa a una catena, la campana suonò. Il frate
portiere venne ad aprire e richiuse a chiave.
Entrarono in un parco perfettamente curato.
C’erano palme e altri alberi altissimi, con grandi foglie lucide come se
fossero state lucidate col lucido delle scarpe. Più tardi, Donato avrebbe
imparato che queste erano canfore. Un altro era pieno di fiorellini bianchi
piccolissimi, ma che davano un profumo inebriante. Più tardi, ne avrebbe saputo
il nome latino: Olea fragrans. Il viale di ghiaietta era appena stato
rastrellato e conduceva ad una grande costruzione di quattro piani; una scala
monumentale di granito saliva verso l’entrata. La metà destra della porta era
aperta. Entrarono…
Entrarono in una saletta. Si sedettero sulle sedie
ricoperte da velluto rosso.
«Il Padre Superiore vi aspetta nel suo ufficio»,
disse il frate.
Entrarono nell’ufficio del Padre Superiore.
«Reverendo, vi porto il ragazzo di cui Monsignor
Vescovo…»
«Sedete, sedete…»
Il Superiore consultò incarti vari.
«Donato?»
Il bambino era terrorizzato. Prima di partire, Zia
Celestina gli aveva tagliato i capelli cortissimi; le sue orecchie sembravano
enormi. Il vestito della domenica gli stava stretto e scomodo. Era chinato in
avanti, seduto sopra le sue mani, con le punte delle dita che si toccavano.
Sotto le sue cosce, seguiva con l’indice destro i peli fitti e dritti del
velluto che si piegavano e raddrizzavano e gli entravano sotto le unghie. I
piedi non toccavano per terra. Tra i pantaloni troppo corti e le calze di
grossa lana, apparivano le sue gambette magre che sembravano pallidissime.
Donato guardava con occhi spalancati e pieni di spavento e non aveva ancora
capito cosa gli stava succedendo.
Un altro frate entrò nella stanza.
«Vieni, Donato. Ti conduco nella tua nuova casa.»
Il bambino esitò a seguirlo e si girò diverse
volte verso il parroco, che era già immerso in una grande discussione col
Superiore.
«Vai, Donato. Vai e, mi raccomando, facci onore»,
disse ancora Don Alberto.
Donato strinse la sua borsa tra le braccia e seguì
il frate.
Entrarono in un’altra grande casa, salirono
diverse scale e infine fecero ingresso in una sala immensa. Lungo i muri,
stavano un letto, un armadio, un letto, un armadio… tantissimi…
«Ecco», disse il frate. «Questo è il tuo letto e
questo il tuo armadio. Adesso, togli i tuoi vestiti e indossa la nostra
uniforme.»
Vedendo il bambino perplesso, aggiunse: «I vestiti
appesi nell’armadio.»
Il frate aiutò il bambino, che si sentiva
totalmente perso. Per di più, i vestiti nuovi erano troppo grandi e così
strani!
Infine, scesero in un cortile, dove stavano
giocando altri bambini. Erano tutti vestiti nella stessa maniera. Si
assomigliavano tutti… e parlavano italiano.
«Questi sono i tuoi compagni. Puoi giocare con
loro. Quando suona la campana, vai con loro; ti faranno vedere come devi fare…»
«Come ti chiami?» chiese qualcuno.
«Donato…»
«Da dove vieni?»
«Da casa…»
«Non sei venuto con tua mamma?»
«Non ho la mamma. Ho la nonna e la Zia Celestina»,
disse Donato nel suo dialetto.
«Che lingua parla! È uno straniero! Non ha la
mamma, è un orfanello», esclamarono gli altri bambini.
Per la prima volta, Donato capì che c’era qualcosa
di strano. Lui non parlava italiano, ma il dialetto di un paesello che si
trovava lontano, tra le montagne. Non aveva mai pensato alla mamma; gli erano
sempre bastate la nonna e la Zia… E il suo papà? Chi sa se aveva anche lui un
papà? E dov’era la sua mamma? E adesso doveva stare qui? Come avrebbe potuto
chiedere alla Zia dov’era la sua mamma se doveva restare qui?
È così che Donato cominciò a pensare. Fino ad
allora, non aveva mai pensato; aveva giocato, aveva vissuto un giorno dopo
l’altro senza pensieri né domande ed era andato bene così. Dal confronto con
altri bambini, nascevano tante domande e lui rimaneva perplesso, perché non
sapeva rispondere e non c’era nessuno a cui chiedere; nessuno che potesse
rispondere.
Donato aveva seguito gli altri bambini nella
classe, nel refettorio, nel dormitorio, nella chiesa, di nuovo nella classe…
Seguiva automaticamente, senza sapere… seguiva…
Seguiva in tutto; l’unica cosa che era quasi come
a casa era la messa. Anche lì era in latino e non ci si capiva niente. Bastava
star seduto in silenzio, alzarsi quando gli altri si alzavano e borbottare con
gli altri le parole imparate a furia di sentirle, ma che nessuno aveva voglia
di capire davvero. Ogni sabato pomeriggio, una classe dopo l’altra andava nella
chiesa. Ci si sedeva in ginocchio sui banchi vicino al confessionale.
Il prete indossava il camicione di pizzo bianco e
la sciarpa ricamata e stava seduto nel suo sgabuzzino. Un bambino dopo l’altro
entrava dietro alla tenda di velluto nero e s’inginocchiava. La porticina
scivolava, appariva la faccia del prete, l’alito che sapeva di aglio e cipolla,
e si doveva confessare le bugie, la pigrizia, la golosità, qualche pugno e
tutti gli altri peccati in pensiero, in azione e per omissione… Immancabilmente,
seguivano la penitenza e i tanti Ave Maria da recitare. Alla domenica, tutti
andavano a comunione, come in paese.
Ogni mattina, ci si lavava la faccia nel
lavandino. I lavandini avevano due rubinetti: uno con acqua normale e l’altro
con acqua calda. Alla sera ci si lavava anche i piedi. A turno, un gruppo di
allievi in mutande e con l’asciugamano sulle spalle scendeva al pian terreno
per fare la doccia. Era senz’altro stata una veranda, ma adesso a destra e a
sinistra c’erano tre gabbiotti di metallo chiusi da una tenda. Si entrava nella
doccia, e quando tutti erano nudi, il frate gridava: «Apro!»
Allora, l’acqua fredda schizzava dal soffione col
fracasso di un acquazzone su di un tetto di lamiera. I bambini gridavano dalla
sorpresa e dal freddo, poi lentamente l’acqua diventava tiepida e piacevole. Ci
si bagnava completamente.
«Chiudo!» diceva il frate. Col grosso sapone di
Marsiglia, ci si insaponava dalla testa ai piedi fino a essere completamente
bianco di schiuma. Il sapone era straordinariamente morbido. Il frate apriva la
tenda e controllava che si era integralmente schiumeggianti, anche sotto le
braccia e anche tra le dita dei piedi.
«Sciacquare!» annunciava il frate, che riapriva i
rubinetti.
Allora cominciava la parte più bella. Con le mani,
si agitavano i cappelli per far uscire tutta la schiuma. L’acqua calda scorreva
lungo il corpo ed era sempre troppo presto quando il frate avvertiva:
«Attenzione, un minuto e chiudo.»
«No…» gridava il coro dei bambini. Poi, tutti
fuori con l’asciugamano intorno alla pancia e le mutande sporche nella cesta
del bucato. Poi in fila indiana e il frate pettinava i bambini uno dopo l’altro
prima di spedirli nel dormitorio. La doccia, per Donato, era davvero una grande
invenzione.
Anche durante i pasti, ci furono diverse novità. A
casa, Donato aveva imparato poche cerimonie. Invece, lì, si usava la scodella
per il caffellatte, la tazzina per il caffè, il bicchiere per l’acqua, la
fondina per il minestrone, il piatto normale per il pranzo e soprattutto si doveva
usare la forchetta nella mano sinistra e il coltello nella mano destra… Senza
appoggiare i gomiti sulla tavola, non parlando mai con la bocca piena, anzi, si
mangiava in silenzio mentre un frate, dal pulpito, leggeva ad alta voce la vita
dei santi.
Donato osservava gli altri e faceva come loro, ma
non era facile parlare come loro. In paese, lui aveva sempre sentito dire «Io e
mio fratello, Io e mia madre, Io e mia zia, Io e gli altri…» Invece, in
collegio, il maestro correggeva sempre: «Non si dice “io e gli altri”. Si dice prima l’altra persona, poi sé stessi; una
persona educata non si mette davanti agli altri. Si lasciano passare le altre
persone per rispetto e si dice “il mio amico Marco ed io”, o “mia mamma ed io”.
Addirittura “il mio cagnolino ed io”. Sono questi i piccoli accorgimenti che
faranno di voi persone educate e, il giorno in cui andrete a presentarvi per un
impiego, sarà importante far vedere che voi siete delle persone decenti.»
Donato approvava pienamente il senso del discorso,
ma era la forma - cioè l’accento - che gli riusciva difficile da imitare.
«Non dovete ridere», aveva detto il maestro in
classe. «Il vostro nuovo compagno viene da lontano. Anche lui imparerà a
parlare in italiano.»
Donato fece sforzi considerevoli. Una sera, il
maestro disse di accendere la luce. Donato si precipitò, girò l’interruttore e
annunciò molto fiero: «Maestro, l’ho accendiata», provocando un mormorio
ammirativo tra i suoi compagni e l’imbarazzo del maestro per dover correggere
uno sforzo linguistico così notevole.
Il giorno in cui il maestro aveva chiesto che cosa
volesse fare da grande, Donato aveva risposto senza esitazione: «Andare in
montagna», suscitando la perplessità generale.
«Non vuoi imparare un mestiere?»
«No.»
«Quale mestiere ti piace? Falegname? Muratore?
Idraulico?»
«Nessuno.»
«Ebbene», disse il maestro. «Sei molto giovane.
Ora cominciamo col ciclo di osservazione e in seguito l’orientatore
professionale saprà suscitare nuovi interessi ed evidenziare le tue doti.»
«Quando posso tornare a casa?» chiese Donato.
«Non ti hanno spiegato che adesso sei in
collegio?»
«No. Io voglio tornare a casa.»
Il maestro desolato guardò il bambino e lasciò
uscire gli altri, che corsero a giocare col pallone nel cortile.
«Vedi, Donato», disse il maestro. «Adesso tu hai
la fortuna di essere in collegio. Una persona importante paga tanti soldi
perché tu possa stare qua e imparare un mestiere. Questo durerà diversi anni.
La tua casa è lontana e là non c’è che la vecchia prozia… Starai qua tutto
l’anno, ma potrai tornare in paese per le vacanze d’estate. Dovrai abituarti a
vivere con noi… Avrai amici, imparerai cose belle e importanti…»
«Quanti anni?»
«Quattro, cinque, forse sei anni… Fin quando non
sarai diventato un giovanotto con un buon mestiere. Poi presterai il servizio
militare e allora sarai veramente un uomo…»
«Ma allora», disse Donato spaventato. «Io non sono
più un bambino…»
«No», disse il maestro. «Non sei più un bambino.
Non sei ancora diventato grande, ma non sei nemmeno più piccolo… Stai
diventando un ometto.»
Donato non si era aspettato una catastrofe così
grande. Era passato il tempo dell’infanzia ed era passato così velocemente! Da
allora, lui doveva diventare serio. Non avrebbe più potuto correre nei prati,
saltare nudo nei pozzi del fiume, arrampicarsi sul ciliegio… Non sarebbe mai
più stato a casa per vedere fiorire il ciliegio… Non avrebbe più fatto parte
della vita del paese. La nascita dei vitellini e dei capretti, la panna sul
secchio di latte, la torta di pane, i merli in umido, le serate davanti al
camino…
«E io?» chiese Donato. «Ce l’ho la mamma?»
«Certo», disse il maestro. «Tutti hanno la mamma.»
«Dov’è la mia mamma?»
«Non sai dov’è la tua mamma?»
«Non l’ho mai domandato…»
«Chiederò un incontro col Padre Superiore.»
Donato si sentì terribilmente solo e infelice,
come se tutte le montagne della sua valle gli fossero crollate addosso… Anzi,
fu molto peggio, perché se le montagne della sua valle gli fossero crollate
addosso, almeno sarebbe stato a casa sua. Qui, invece, era straniero in terra
completamente straniera… Prigioniero, esiliato, disperato… e anche ingannato.
Pochi giorni dopo, fu chiamato nell’ufficio del
Padre Superiore.
«Siediti», disse il Superiore. «Se hai delle
domande da fare, a me puoi chiedere tutto quello che vuoi.»
«Dov’è la mia mamma?»
«Quanti anni hai, Donato?»
«Undici», rispose il ragazzetto, che stava
raggomitolato sulla grande sedia come un gattino spaventato.
«Non sei più un bambino. L’anno prossimo farai la
grande comunione[4]…
Posso parlare con te da uomo a uomo… Voi siete gente molto povera. Quando sei
nato, tua mamma è andata via dal paese per lavorare e guadagnare abbastanza
soldi per poterti mettere in un collegio come il nostro: educarti, insegnarti
un mestiere dignitoso, perché mai più dovessi patire la fame.»
«Dov’è la mia mamma?»
«Tua mamma è in America.»
«Dov’è il mio papà?»
«Tuo padre… non si sa», disse il Superiore
pensieroso. «C’era la guerra. Anzi, era la fine della guerra e c’era una grande
confusione. Forse è morto… Non si è mai saputo… Non è tornato.»
«Mia mamma quando tornerà?»
«Non lo so, Donato. Posso solo dirti che lei
veglia su di te da lontano. Manda i soldi perché vuole che frequenti una buona
scuola. E io conto su di te per non deluderla. Ti chiedo di impegnarti ogni
giorno, a seconda delle tue capacità. Com’è scritto nel Santo Vangelo: “A
ciascun giorno basta la sua pena”. Se avrai delle difficoltà, non chiedere agli
altri bambini; chiedi al tuo maestro e ricorda che io sarò sempre qui per
risponderti…»
Donato capì di essere in trappola.
1958
Passarono i giorni, le settimane, i mesi, le feste
di Natale e Pasqua… Poi, un giorno vennero la fine dell’anno scolastico e la
distribuzione dei premi. Donato non era il primo della classe, ma ricevette il
primo premio per il disegno e per la disciplina.
«C’è qualcuno che ti cerca», gli disse un
compagno.
Donato si guardò in giro e vide con sorpresa Don
Alberto e Zia Celestina, che erano venuti a prenderlo per le vacanze.
Donato lasciò cadere i libri ricevuti in premio,
corse verso Zia Celestina, si gettò tra le sue braccia e pianse disperatamente
tutta la disperazione accumulata durante tutto l’anno.
«Non ti avevo riconosciuto», disse Don Alberto,
che aveva comperato un’automobile. «Sei cresciuto così tanto!»
«Non entro più nei miei vestiti», disse Donato
guardandosi nella divisa della scuola, alla quale si era ormai abituato.
«Per le vacanze, ti troveremo qualcosa di più
comodo», disse Zia Celestina, che era diventata vecchia.
Donato tornò a casa dopo quasi un anno. Era
cresciuto e cambiato. La casa gli sembrò piccola e strana. In collegio, aveva
imparato un’altra alimentazione, altri interessi, altri impegni. Si sentì a
disagio nella propria casa, che non aveva nemmeno l’acqua corrente: si doveva
andare alla fontana, al lavatoio o nel riale. Aveva dimenticato come le foglie
di faggio scricchiolassero nel materasso e, quando per colazione trovò la
scodella di latte con castagne, rimpianse pane, burro, confettura e caffellatte
che riceveva nel refettorio. In collegio, nei giorni di festa, i bambini
ricevevano addirittura la treccia, che aveva un delicato gusto di anice. C’era
anche il latte con cacao e tante volte c’era l’ovomaltina, che andava
direttamente al cervello e ti faceva fare i calcoli mentali più velocemente del
maestro.
«Vedi», disse la Zia. «Ho tenuto le castagne
specialmente per te, perché so quanto ti piacciono.»
Donato non osò dire che le castagne non gli
piacevano più e che avrebbe volentieri mangiato una michetta fresca, ancora
calda, con un bel po’ di burro e una grossa fetta di prosciutto!
Dell’ovomaltina non osò parlare, perché la Zia non sapeva nemmeno cosa fosse e
lui non voleva darle dispiacere. Donato sapeva quanto la Zia gli voleva bene.
Ma ovviamente, la Zia non era stata in collegio…
La cosa più difficile era vedere la nonna e la Zia
con altri occhi. Prima, erano state “normali”, ora, con quelle lunghe gonne
nere, sembravano fuori posto, come dei personaggi dei tempi antichi sbarcati
per sbaglio nel ventesimo secolo. In città, le uniche donne vestite così erano
quelle “in costume onsernonese” che accompagnavano i gruppi folcloristici per
attirare i turisti alla festa della vendemmia.
Prima, erano state loro a educare Donato. Adesso,
lui si sentiva terribilmente diverso e a disagio quando la nonna si sporcava
mentre mangiava o la zia soffiava sulla minestra troppo calda o succhiava
rumorosamente dal cucchiaio. Tutte e due parlavano con la bocca piena e si
vedevano i pezzettini di cibo schizzare in tutte le direzioni. Donato voleva
loro tanto bene, ma provava anche schifo e la contraddizione tra questi
sentimenti lo sconvolgeva.
In più, nella casa, c’era un odore acre. Non
capiva se sapesse di urina o solamente di vecchio - quell’odore delle persone
vecchie che non fanno mai la doccia e cambiano poco i vestiti. Anzi, sapeva del
sudore rancido che impregna la maglietta di lana portata giorno e notte durante
tutta la settimana. Né la nonna né la Zia erano mai andate sotto la doccia e,
quando Donato raccontò come stavano nudi sotto l’acqua calda e abbondante, le
due donne si guardarono incredule.
«Anche i cappelli?» chiese la nonna.
«Eh sì! Anche i cappelli. È quello il più bello!»
rispose Donato.
«Ogni settimana?»
«Io lo farei anche tutti i giorni», disse Donato.
«Gesù madre!» mormorò la nonna scuotendo la testa.
«Ti farà male…»
Donato cominciò a intuire l’enorme distanza che
ogni giorno si allargava tra il mondo del passato nel quale sopravviveva la
vecchia nonna e il mondo del futuro verso il quale si sentiva intensamente
attratto. Le due donne anziane si ritirarono in un prudente silenzio ed
evitarono gli argomenti che non potevano approvare e nemmeno influenzare.
Quella guerra aveva scombussolato tutto. Zia Celestina pensò con nostalgia ai
suoi quindici anni e alla grossa treccia di lunghissimi cappelli lucidi e sani
che non venivano lavati che una volta per trimestre e che, ciononostante, non
erano mai stati sporchi.
Donato non seppe se dovesse essere contento di
tornare a casa o se preferisse tornare in collegio.
In paese, la gente parlava in dialetto; in
collegio, lui aveva dovuto imparare l’italiano, che adesso gli veniva
naturalmente, ma che qui suonava falso. La gente gli rideva in faccia perché
sembrava che lui volesse fare “il Signorino”, il blagone[5]...
Diverse volte, sentì anche commenti cattivi, del tipo: «Per un bastardo che non
sa nemmeno chi è suo padre c’ha troppa puzza sotto il naso». E quando parlavano
di “quella troia”, gli sembrava che parlassero di sua madre. Una volta,
sicuramente, aveva sentito e capito una donna dire: «Faceva la puttana qua,
sarà andata a fare la puttana là. Altrimenti come fa a mandare soldi...»
Donato non sapeva cosa fosse una puttana, ma a
vedere l’espressione di quella donna, capì che non era una cosa bella e si
sentì triste perché sua mamma non se la ricordava e quando ci pensava la vedeva
come una di quelle Madonne… come la Madonna di Re, con un bimbo seduto sulle
ginocchia. Il bimbo era lui, Donato. Chissà se qualche volta era stato seduto
sulle ginocchia di sua mamma, prima che lei andasse via… E chissà poi perché
era andata via… Certo che se in paese la gente era stata così cattiva con lei,
aveva avuto ragione di partire.
Ma perché era andata via da sola? Perché non
l’aveva portato con sé? Loro due sarebbero stati bene insieme e se una donna
avesse detto qualcosa di cattivo, lui le avrebbe risposto male… Non era nemmeno
facile capire la propria mamma. Chissà dov’era e perché se n’era andata da
sola…
Quando lo chiese alla Zia Celestina, quella
rispose che l’avrebbe capito quando sarebbe diventato grande… Mah! Come se i
bambini che vanno in collegio non potessero capire le cose… Lui, l’ovomaltina
la capiva.
Dopo quei pochi mesi passati in collegio, Donato
era tornato in paese come uno straniero. Il fatto che andasse in collegio e che
il postino portasse l’assegno provocava gelosia e cattiveria. Gli altri bambini
si tenevano in disparte e, quando lui si avvicinava, parlavano sottovoce e si
giravano per evitarlo. Non c’era più nessuno per giocare come prima. Donato
finiva per sedersi da solo in un angolino nascosto a leggere dei libri, molti
libri, uno dopo l’altro.
«Non vai con gli altri a far fieno?» chiese Zia
Celestina, quasi con un tono di rimprovero.
«Devo fare i compiti per la scuola», disse Donato,
che del paese non faceva più parte.
1958, ancora.
Donato fu sollevato quando poté tornare nel convitto. Ritrovò i suoi
compagni, le sue abitudini, i suoi interessi e le comodità di una vita molto
più moderna.
«Quest’anno devi decidere», disse il Padre
Superiore. «Hai pensato a quale mestiere vuoi imparare?»
«Elettricista», disse Donato senza esitazione,
perché l’elettricità gli sembrò il colmo della modernità. Per lui, era il modo
categorico con cui voltare la schiena al passato, alle cose vecchie e al paese
di Vergeletto, dove tutti erano stati antiquati e cattivi.
Donato diventò sempre più indipendente e
autosufficiente, prima di tutto perché quando si è soli ci si deve arrangiare e
poi per far vedere che non aveva bisogno di nessuno. Lui se la sarebbe cavata,
malgrado tutto e tutti.
2. Nora
1947
Nora era partita, il viaggio fino a Genova era stato lungo e penoso. La
guerra, che era finita da appena due anni, aveva lasciato il segno. Mancavano
ponti, le strade erano interrotte, i villaggi erano in rovina e le persone
erano cambiate. Sembrava che mai più si sarebbe ripreso a ridere.
L’euforia della liberazione aveva presto lasciato
il posto alla valutazione della catastrofe. Né la gente né il mondo sarebbero
tornati come prima. I regolamenti di conti continuavano con vendette, crudeltà
e cattiverie. Si doveva ricominciare e ricostruire tutto, ma ciò richiedeva
anche tanto denaro e c’era gente alla quale non era rimasto niente. Altri erano
diventati ricchi sfruttando ogni traffico, ogni opportunità e spesso anche la
disperazione dei propri concittadini.
Nora seguì gli altri migranti, rinchiusa nel proprio silenzio, spaventata
dall’ignoto e aggressiva a causa della paura. Eppure, sarebbe andata avanti e
avrebbe proseguito a testa bassa. Non c’era nemmeno la possibilità di tornare
indietro.
Giunsero a Genova e aspettarono una nave che
tornava da Haifa. Alloggiarono in due piccoli alberghi. Nora che viaggiava da
sola ed era minorenne fu affidata alle Suore. Per pagare la sua permanenza,
dovette lavorare. Alle sei, il mattino cominciava con la messa, poi bisognava
preparare la colazione agli orfanelli, poi lavare i pavimenti e poi svolgere i
lavori in cucina. Alla sera, crollava sul suo letto senza più pensare né a casa
né all’America, nemmeno alla paura del viaggio sulla nave. Era esausta, un
ramoscello in balia della buzza. Sapeva da dove era partita, non ricordava da
dove era passata e non aveva nessuna idea di dove sarebbe andata a finire.
Tutto le era indifferente. Questa vita era troppo dura.
Una mattina, prima dell’alba, i migranti furono
radunati. Faceva freddo ed era umido. Andarono a piedi lungo le strade buie
fino al porto. Tutto a un tratto, eccolo lì: il bastimento, enorme, scuro,
dipinto di grigio con lunghe colate di ruggine. Lo scafo troppo alto
strapiombava sopra il molo e la prua sfidava gli sguardi intimoriti, come uno
sperone di roccia. Catene enormi uscivano dalle cubie e in grandi lettere tonde
era scritto “Zuiderkruis”, in
una lingua che nessuno capiva, ma che significava “la croce del sud”, quella
meravigliosa costellazione di cinque stelle che da sempre guida i viaggiatori.
La gente avanzava lentamente verso la passerella.
Ognuno portava il proprio misero fagotto. Nora aveva solo una borsa di
tappezzeria con due maniglie di cuoio. Non pesava niente perché non possedeva
niente: solo le carte per il viaggio, il passaporto, il certificato di buona
salute, un paio di calze di lana, il vestito della festa e il rosario della
nonna. Al collo, nascosto sotto i vestiti, portava una borsettina con qualche
soldo. Faceva freddo e Nora strinse il grosso scialle intorno alle spalle.
La lunga coda di persone passava tra le transenne
e saliva sulla passerella. In cima, gli ufficiali controllavano le carte e
indirizzavano ognuno verso il suo posto. La prima classe alloggiava al piano di
sopra. Nora dovette scendere una scala strettissima e poi ancora una, poi la
fecero entrare in una cabina. A destra come a sinistra, c’erano due cuccette a
castello con le sponde di legno e, nella parete di fronte, un oblò con diversi
spessori di vetro saldamente fissati in grossi cerchioni di ottone con enormi
viti di ferro. Appena sotto l’oblò, c’era l’acqua… il verde glauco e lugubre
degli abissi. Nora si avvicinò. Dunque, era lì che vivevano i mostri marini,
gli squali e le balene che il Maestro Guido aveva descritto con tanta
eloquenza.
Nora pensò ai laghetti nelle sue montagne - Salei,
Alzasca, Sfill - ai girini e alle trote, ai campanacci delle mucche, ai fiori
dei larici.
«Sarà meglio che non ci pensi, se no mi vien
male…»
«Tu sei giovane», disse una delle tre altre donne
con le quali condivideva la stanza. «Andrai sul letto in alto.»
Nora salì sulla scaletta e si sedette sul suo
lettino. C’era spazio appena per star seduta, ma qui almeno era il suo posto e
lo spazio bastava anche per la borsa. Da quel momento in poi, non c’era altro
che aspettare: non poteva più far nulla; era rinchiusa in questa scatola di
ferro galleggiante. Con la Grazia di Dio, e se non incontravano una mina
vagante superstite della guerra appena finita, sarebbero arrivati in America.
Dopo d’allora, chissà?
Si sdraiò, si addormentò e non sentì né il rombo
dei grossi motori né la sirena né gli addii gridati mentre la nave si staccava
dal molo. Così non fu nemmeno sconvolta dalla malinconia: era partita senza
rendersene conto. I rimorchiatori, nascosti dietro al loro enorme pennacchio di
fumo nero, trainarono la nave verso l’alto mare. La sirena fischiò ancora, i
motori diventarono assordanti e tutti cominciarono a soffrire il mal di mare.
Nora era abituata all’aria fine delle montagne,
agli odori freschi dei boschi e al profumo caldo e rassicurante delle bestie
nelle stalle. L’ambiente chiuso della cabina diventò presto insopportabile.
Quando una delle donne cominciò a vomitare, i suoi rantoli disgustosi e la
puzza provocarono la nausea anche a Nora, che uscì nel corridoio alla ricerca
di un angolino all’aperto.
Il primo ponte riservato ai passeggeri di prima
classe era vietato all’accesso. Nora dunque percorse il secondo ponte, poi il
terzo, e in poppa scoprì le gabbie nelle quali viaggiavano gli animali, per lo
più i cani dei signori della prima. Nora si sedette vicino alle gabbie e
ripensò ai cani che facevano parte della vita in paese. Piergiorgio,
l’alpigiano di Porcareccio, aveva due cani pastori bergamaschi: Ondo era grigio
chiaro e Miro era tutto nero. Da giugno a settembre, erano in montagna, ma per
il resto dell’anno scorrazzavano tra la stalla del Zardin e il paese. Nora
amava l’odore acido del loro pelo lungo e morbido e più che accarezzarli li
strigliava con le dita, come una spazzola meccanica.
Uno dei cani delle gabbie era piccolo, scuro e
tozzo. Aveva dei grandi occhioni neri e rotondi. Il suo pelo irsuto e corto era
nero sul corpo ma rosso e lungo sulla faccia, con dei baffoni smisurati e un
nasino schiacciato. Le sue orecchiette, invece, stavano dritte come le corna di
un diavoletto birichino. Doveva essere uno strano miscuglio: aveva il naso da
pechinese, la faccia da bulldog e il corpo sembrava di una razza totalmente
estranea, come se gli avessero incollato una testa sbagliata.
«Povero diavolo», gli disse Nora. «Sei proprio
brutto, anche se simpatico: tu ed io ci assomigliamo.»
Due volte al giorno, un marinaio portava ogni cane
a passeggio. Facevano i loro bisogni, che venivano lavati via con acqua e
abbondanti quantità di “creolina” per disinfettare e poi, a meno che i loro
proprietari non venissero a far loro visita, tornavano di nuovo nella loro
gabbia.
Il secondo giorno, si vide di nuovo la terra, poi la nave si avvicinò alla
costa.
«Siamo già arrivati?» chiese Nora.
«No», rispose qualcuno. «Quella è Gibilterra…»
«Gibilterra», ripeté Nora scuotendo la testa.
Dopo Gibilterra, cominciarono le cose serie, con
raffiche di vento e onde profonde. La nave piombava in avanti, poi s’impennava
come un cavallo rabbioso.
Più che mai, Nora cercava di star fuori per
sfuggire al vomito e all’odore fetido della stiva.
Una mattina, mentre stava accarezzando il brutto
cane, arrivò un giovane signore. I suoi capelli castani e ondulati gli cadevano
sulle spalle. Era abbronzato e i suoi occhi erano scuri. Indossava pantaloni di
tela bianca che tremavano nella brezza come una bandiera e portava un maglione
strano con righe orizzontali bianche e blu. Aveva i piedi piccoli rinchiusi in
scarpette di tela bianca, con le stringhe e la suola di gomma. Sicuramente,
quello era un signore elegante. Uno così, a Vergeletto, avrebbe fatto scalpore.
Nora si raddrizzò e fece qualche passo per
liberare il passaggio.
L’uomo aprì la gabbia del brutto cane e attaccò il
guinzaglio al collarino.
«Bonjour, Mademoiselle», disse l’uomo
sorridendo.
«Buongiorno», rispose Nora indietreggiando.
«Le piace il mio cane?» chiese l’uomo mentre
faceva uscire quest’ultimo per spazzolarlo.
«Lei parla Italiano», disse Nora sorpresa.
«Sì.»
«Come si chiama il cane?»
«Si chiama Chai.»
«Cosa vuol dire?»
«Significa “La Vita”. E gli sta bene, perché mi ha
davvero salvato la vita…»
«Mah», pensò Nora. «Strano nome per un cane…»
«Scusi», disse l’uomo. «Non mi sono presentato. Mi
chiamo Ariel Levi.»
«E io Nora. Nora Bietri.»
Nora si sentì fuori posto, come se fosse stata
sorpresa a rubare nell’orto dei vicini e timidamente propose: «Posso aiutarla?»
«Se vuole», disse il signore. «Ho visto che avete
già fatto amicizia. Magari, tenga il collarino. Lui pensa solo a giocare e qui
è tutto così scomodo e stretto…»
Il cagnolino spazzolato fece due passi, una pipì e
tornò nella sua gabbia. Nora si allontanò per educazione e il signore ringraziò
e se ne andò.
Tutto sarebbe finito così se, una mattina, Nora
non avesse trovato il cane sdraiato mezzo morto nella sua gabbia. Stentava a
respirare e il suo nasino scottava.
«Devo parlare col Signor Levi», gridò Nora al
primo ufficiale che incontrò sul ponte più alto.
«Signorina, qui è la plancia di comando. Lei non
deve essere qua.»
«Lo so, ma devo parlare col Signor Levi.»
«Ci sono mille persone su questa nave.»
«Ci sarà anche il suo nome.»
«Non posso disturbare a quest’ora.»
«Allora lo farò io.»
Alzando con la mano sinistra la sua lunga gonna
grigia fin sopra le ginocchia magre e pallide, Nora scese la ripidissima
scaletta a tutta velocità e bussò alla prima porta gridando: «Signor Levi!
Signor Levi!» Mentre l’ufficiale le correva dietro imbarazzato e gridava:
«Signorina! Signorina…»
«Cosa succede?» chiese un signore anziano
spalancando bruscamente la porta della sua cabina.
«Devo parlare col Signor Levi! Il suo cane sta
morendo!»
Ci fu confusione, gente in vestaglia e coi capelli
spettinati uscì dalle cabine, una signora gridò: «Mon Dieu, mon Dieu!»
Nel lungo corridoio, una dopo l’altra, le porte si
aprivano e finalmente apparve una cameriera che, senza esitare, corse a bussare
alla porta giusta.
Il Signor Levi arrivò. Portava il solito pantalone
bianco ed era a torso e piedi nudi, con un lungo asciugamano bianco intorno al
collo. Prima che egli potesse scusarsi per la tenuta inadeguata, Nora gli disse
seccamente: «Il suo cane sta morendo!»
Il Signor Levi scese di corsa, prese il cane in
braccio e si precipitò verso l’infermeria gridando all’ufficiale che seguiva:
«Il medico! Subito!»
Entrò nell’infermeria senza nemmeno bussare.
«Abbiamo un’urgenza?» chiese l’infermiera per far
notare che si poteva almeno bussare.
«Sì!» esclamò il Signor Levi. «Estrema urgenza. E
siccome dubito che ci sia un veterinario a bordo… Corro da lei!»
«Ma figuriamoci», fece l’infermiera scocciata.
«Guardi che noi abbiamo alle spalle, oltre agli anni di normale pratica medica,
cinque anni di guerra! Io, di animali, ne avrò forse curati di più della gente,
perché durante la guerra nessuno può permettersi il lusso di fare lo
schizzinoso. È sopravvivenza per tutti, anche per gli animali. E spesso, loro
sono più riconoscenti della gente. Mentre aspettiamo il dottore, le racconto
una delle storie che sono capitate a me. Nel ’42, facevo l’infermiera in un
quartiere povero di Bruxelles. Una mattina, io arrivo in una famiglia già
disastrata per tanti motivi. Il padre faceva il rigattiere e, per aiutarlo a
tirare il suo carretto, aveva un grande cane pastore, un Malinois. Ebbene, quella mattina, vi
fu un dramma totale, perché un pentolone di acqua bollente era caduto dalla
stufa in pieno sulla schiena del cane, che era atrocemente bruciato. Arrivo e
sento le urla sia del cane sia della gente. Non ho curato la gente, ma ho
curato il cane come ho potuto e poi sono successe altre cose… La vita era
quello che era… Sicché, diversi mesi dopo, passo nel quartiere per un’altra
faccenda e, tutto d’un tratto, vedo un enorme cane che parte da lontano e mi
carica come impazzito. Ho pensato che mi avrebbe sbranata, ma mi è saltato
addosso e mi ha buttata per terra. Ma, invece di aggredirmi, saltava dalla
gioia e mi ha leccata dappertutto, fin quando non è arrivato il suo
proprietario tutto entusiasta. “Ma non si ricorda Signorina? È Paddy! Il cane
bruciato che lei ha guarito!” Io non ci pensavo più, ma lui non mi aveva
dimenticata… Era guarito bene ed era più forte che mai. Invece, certa gente non
si ricorda che le ho salvato la vita rischiando la mia. Non è di certo grazie a
questi che ho ricevuto una decorazione. Anche il dottore, sapesse il bene che
ha fatto… La sofferenza è sofferenza, anche per gli animali…»
«Ah!» esclamò il medico che infilava il camice
bianco. «Ecco il paziente…»
Il cane, sdraiato sul lettino, non respirava quasi
più. Il medico ascoltò con lo stetoscopio.
«Temo sia grave», disse il dottore molto
preoccupato. «Broncopolmonite… Li conosco, questi. È una razza molto sensibile
all’umidità.»
«Lo curi come se fosse una persona», disse il
Signor Levi.
«Ma è un cane…»
«Lo curi con tutti i mezzi di cui dispone.»
«È questo che volevo sentire… Abbiamo una cosa
nuova che si chiama penicillina. Posso provare, ma c’è poca speranza.»
Il Dottore fece una puntura.
«Ogni quattro ore, un’altra. Se la febbre non si
normalizza entro stasera, non ci sarà più niente da fare. Dovrebbe bere molto.»
Un marinaio portò un materasso in un ripostiglio,
ci sdraiarono il cane. Nora si sedette vicino e, con una spugna, lasciò
sgocciolare dell’acqua nella bocca socchiusa dell’animale.
«Signor Levi, sono abituata con le bestie. Starò
qua io.»
«Mi chiami Ariel…»
Ogni quattro ore, Ariel scese con la siringa
preparata dal Dottore. Col fresco della notte, la febbre cominciò a scendere e
il cane tentò di muoversi.
«Se beve, è salvo», disse Nora. «Se no, si
bloccheranno i reni…»
Nora si addormentò sdraiata vicino al cane. Ogni
volta che lui si muoveva, lei provava a farlo bere, poi si riaddormentavano.
Alla mattina, Chai aveva vuotato tutta la scodella e, quando Ariel scese, lo
videro tentare di scodinzolare col suo codino mozzato.
«Lei non ha dormito», disse Ariel a Nora.
«Quando la mucca deve fare il vitello, si dorme
con lei.»
«Avrà altri vestiti?»
«I vestiti della domenica.»
Ariel fece salire Nora e l’affidò a una delle
cameriere della prima classe. Nora non aveva mai visto una sala da bagno come
quella, ma era partita da casa con la ferma risoluzione di cambiare vita e di
“riuscire” in America, quindi si lasciò guidare attraverso i complicati rituali
della toilette.
Un po’ intimidita, si lasciò spogliare e andò a
sedersi nell’enorme vasca da bagno che traboccava d’acqua calda e profumata.
Non disse niente quando la cameriera le versò l’acqua sui cappelli con una
brocca di porcellana e le insaponò diverse volte la testa, sciacquando i
capelli con acqua e aceto fin quando non furono come seta. Nora ne uscì
trasformata. Invece della camicia grigia con le righe scure, che ormai era
diventata ben sporca, e della lunga gonna grigia, che furono spedite in
lavanderia, ora portava un abito di cottone azzurro con fiorellini bianchi,
appena scollato, con maniche corte a sbuffo. La gonna larga le arrivava a metà
polpaccio e una cintura dello stesso tessuto evidenziava la sua vita stretta.
Nelle sue scarpette di cuoio marrone con le stringhe, portava dei calzini
bianchi. Aveva anche un golfino di lana blu marina semmai facesse più freddo.
La Zia Celestina aveva comperato il tutto da un venditore ambulante che veniva
direttamente con la nuova moda dall’Italia. Ma quello che la cambiava ancora di
più era la pettinatura: invece dei capelli grassi tirati indietro in una grossa
treccia rozzamente arrotolata in una crocchia, ora aveva i capelli pulitissimi,
lucidi e leggeri, legati sulla nuca con un lungo nastro blu come un mazzo di
fiori.
«Lei è qua da sola?» chiese Ariel con un sorriso
gentile che approvava il cambiamento.
«Sì.»
«Anch’io sono da solo. Dove andrà quando saremo
arrivati?»
«Non lo so. Seguirò quelli che vanno in
California. Quei Fiscalini delle Centovalli, che portavano le mucche sui nostri
alpeggi, sono andati a Saint Louis Obispo. Non so dov’è, ma da qualche parte devo
andare…»
«Io andrò da mio zio, vicino a New York. Se
volesse, potrei chiedere che trovi un impiego anche per lei.»
«Sì», disse Nora. «Preferirei non andare in
California. Non mi piace viaggiare.»
Da taciturna, Nora era diventata muta. Andava nella sua cabina solo per
dormire. Il resto del tempo, lo passava coi cani oppure guardando l’oceano,
appoggiata al bastingaggio: così grande, così sconfinato, così infinito… E
quando dall’orizzonte salivano i grandi nuvoloni bianchi, sognava le montagne
della sua Valle Onsernone, pensando: «Che magnifiche alpi, che magnifiche
montagne…»
Con la mente, vagava sui sentieri della Val
Camana, su per gli alpeggi di Ribbia, Categn e Doia, per poi scendere verso il
laghetto d’Alzasca. Poi pensava ai mirtilli e alla panna sui secchi di latte
ancora caldo, e al Marcolino che chiamava le capre, e al Totti che cantava e
suonava la fisarmonica e alla Doddi, sempre così buona…
Nora sentiva una qualche pesante maledizione
pesare su di lei: perché mai era dovuta partire? O forse era come diceva Don
Alberto: «Se il grano non muore, non produce frutto; ma se il grano muore,
allora germoglia e produce ricche spighe…»
Ariel veniva regolarmente a curare il suo cane e,
alla sera, quando gli altri passeggeri erano scesi nel salone, conduceva Nora -
che per l’occasione metteva i vestiti della domenica - sul ponte di poppa. Si
sedevano in silenzio e guardavano le stelle. A quell’ora, la nave era bella. Il
ponte superiore era poco illuminato e si notavano particolarmente i segnali
luminosi propri della navigazione. In mezzo al ponte, si drizzava un enorme
camino. Sulla prua, si trovava il posto di comando, nel quale stavano gli
ufficiali coi binocoli, i sestanti e la barra del timone, quella grande ruota
che un bel ragazzo in divisa bianca girava per guidare la nave. Sul ponte di
poppa, invece, intorno a una piccola piscina, si trovavano poltroncine e sedie
a sdraio, sulle quali i signori si sdraiavano per prendere il sole, mentre con
una lunga cannuccia succhiavano grandi bicchieri di spremute di limone. Nora e
Ariel non parlavano, come se sapessero che c’era troppo da dire.
Una sera, venne l’ufficiale di guardia.
«La Signorina è mia ospite», aveva detto Ariel e
questo era bastato, poi tutti si erano abituati a vederli seduti nel buio. Per
ore, stavano appoggiati al bastingaggio della poppa, vicino alla bandiera che
svolazzava nel vento. Osservavano per ore la scia di schiuma che la nave
lasciava dietro di sé e le onde che tracciavano sul mare una lunga V.
«I suoi genitori…» iniziò Ariel una sera.
«Sono morti», disse Nora. «La grippe…»
«Anche i miei», disse Ariel.
«Non ha nessuno?»
«Avevo una sorella, ma è scomparsa durante la
guerra. Mi è rimasto solo lo zio a New York…»
I giorni si susseguirono e con loro i pesci
volanti e i delfini e una volta una balena e, sempre nella scia schiumeggiante
della nave, le pinne degli squali.
Il tempo si mantenne bello, anche se fresco. Una
mattina, apparve una nube di gabbiani schiamazzanti, poi una linea scura si
alzò all’orizzonte: era l’America.
Tutti salirono sui ponti, guardarono l’America che
si avvicinava e finalmente entrarono nel porto sfilando davanti all’enorme
Statua della Libertà.
«Chissà», pensò Nora. «Chissà com’è la libertà…»
Lo sbarco fu lungo e complicato, perché c’era la quarantena e gli immigrati
dovevano riempire i formulari, passare le visite mediche, rispondere alle
domande e la lingua era un mistero a sé.
Ariel tenne parola e passò da un ufficio all’altro
per le sue carte, poi quelle del suo cane e poi quelle di Nora. Difatti, non
era migrante, ma un semplice viaggiatore. Anzi, andava a casa propria. I
portatori seguivano col bagaglio e tenevano il cane al guinzaglio.
«No», disse all’ufficiale. «La Signorina non cerca
lavoro. È già impiegata; garantisco io per lei…» Dovette firmare e pagare i
bolli e i portatori, ma alla fine uscirono dal porto.
Davanti a loro, si apriva l’America, con le sue
lunghe strade, le case altissime, la folla fantasiosa e tutta una colonna di
taxi… Ariel si sedette vicino all’autista, Nora prese posto dietro col cane. Il
loro bagaglio fu legato sul tetto della macchina e partirono per l’indirizzo
dello zio.
A vedere la confusione, il traffico e tutta quella
gente, Nora disse: «Sono contenta di non essere da sola».
«Qui non sarà mai più da sola», disse Ariel. «Qui
siamo tutti amici o parenti e uno dei nostri non è mai da solo.»
Il taxi si fermò davanti a una grande casa con balconi di ferro battuto,
una scala monumentale e tante finestre. Un servitore corse giù per prendere il
bagaglio e salirono fino a una vastissima hall.
Una signora di una quarantina di anni vestita elegantemente entrò e, aprendo le
braccia, gridò: «Ariel!»
«Zia!»
Si abbracciarono a lungo. Avevano lacrime agli
occhi. Non parlarono ma la zia fece di sì con la testa, come per dire che non
serviva dire cose che si sapevano. Poi, girandosi verso Nora che aspettava imbarazzata,
Ariel disse: «Zia, questa è Nora. Abbiamo fatto il viaggio insieme. Lei ha
salvato la vita del mio cane… Zia, ho pensato che avremmo trovato un lavoro per
lei nella nostra famiglia.»
«Portate il bagaglio della signorina al piano
mansardato; ci sono due stanze libere, scelga lei…» Nora seguì il domestico,
mentre la zia copriva il nipote di esclamazioni, interrogazioni, risposte,
pianti, benedizioni e preghiere…
«Che strana gente», pensò Nora. «Ma se bisogna
incominciare si può anche cominciare da qui, invece di attraversare tutta
l’America con un treno che non si sa nemmeno se arriverebbe.»
Nora si sedette sul suo letto. Il tavolo, la
sedia, il comodino, tutti i mobili erano di legno scuro e dello stesso stile.
Il guardaroba era alto quanto il muro, uno specchio copriva l’anta destra e tre
cassetti occupavano la parte inferiore. La finestra era un lucernario: la vista
spaziava su tutto il quartiere. Le case si assomigliavano tutte. Di fronte,
avevano gli stessi giardinetti separati da muretti e recinti di ferro battuto
e, sul retro, lo stesso tipo di giardinetti, ma con molti alberi. L’insieme
assumeva un aspetto ordinato e dignitoso.
I passanti erano vestiti con cura; soprattutto le
signore, che portavano gonne abbastanza lunghe, molto ampie e colorite, calze
di nylon, scarpe coi tacchi alti e cappelli enormi, alla moda di Parigi. Nora
era davvero in un altro mondo.
«Signorina, la signora vuole parlare con lei»,
disse la cameriera. «La aspetta in salotto».
Nora scese e andò verso la porta aperta, dalla
quale si sentiva parlare.
«Venga, Nora», disse Ariel. «Venga a sedersi con
noi.»
«Ecco», disse Zia Rachele. «Vorremmo sapere quali
sono i suoi progetti.»
«Non ho progetti», rispose Nora. «Devo lavorare
per mandare dei soldi a casa, tutto qui.»
«Che cosa è capace di fare?»
«Noi viviamo in montagna; abbiamo la mucca, il
fieno, i campi, le bestie… Per quello pensavo di andare in California, dove
vivono altri Ticinesi, nei ranch. Ma
il viaggio non mi piace, se potessi lavorare qui, per me sarebbe meglio.»
«Qui non abbiamo campagna, ma c’è da fare in casa.
Se vuole può aiutare la cameriera, così imparerà tutto quanto è necessario per
governare un’economia domestica. Le sarà anche utile per quando si sposerà.»
«Io non mi sposerò…»
«No, non adesso, ma col tempo… La vita va avanti…»
Poi, la signora chiamò la cameriera.
«Ruth, questa è Nora. Starà con noi. Conto su di
lei per insegnare l’andamento della nostra casa. Per cominciare, domani mattina
andrete dalla sarta a comperare dei vestiti decenti.»
«Il cane?» chiese Nora.
«Il cane ha la sua casetta nel giardino. Non
sempre può stare in casa: deve poter correre», disse Ariel, «ma se lei lo
desidera, potrà portarlo a spasso. A lui piace.»
«Anche a me piace.»
«Ancora una cosa importante», disse Zia Rachele.
«Lei è cattolica? Noi siamo ebrei. Non siamo particolarmente osservanti, ma
abbiamo i nostri riti; lei non è obbligata a partecipare. C’è una chiesa
cattolica qui vicino. Ruth sarà libera il venerdì sera e il sabato, lei sarà
libera il sabato sera e la domenica.»
Nora seguì Ruth nella cucina. Questa era una vita
tutta nuova, con gente diversa e abitudini estranee.
«Come mai parlano italiano?» chiese Nora.
«Siamo italiani», disse Ruth. «Siamo venuti qua
prima della guerra. Adesso, siamo americani e parliamo anche l’americano. Gli
ebrei parlano sempre tante lingue: l’ebraico per via delle preghiere, la lingua
del paese nel quale vivono, l’Inglese che è la lingua internazionale del
commercio, e spesso si ricordano pure la lingua del paese da cui provengono. Di
solito, si hanno parenti sparsi in tutto il mondo e ognuno parla un po’ tutte
le lingue. Faresti bene a cominciare subito a imparare anche tu; è la cosa più
importante per capire la gente e farti capire. Più lingue si conoscono, più si
ha possibilità di trovare un impiego. E poi, sei giovane… Guarda: il Signor
Josef parla anche il fiammingo, perché loro sono stati molti anni in Belgio…»
«Nel mio paese», disse Nora. «La gente si lamenta
perché i bambini devono imparare una seconda lingua a scuola…»
Si sentirono degli schiamazzi.
«È il Signor Josef che torna dall’ufficio», disse
Ruth. «Era molto inquieto per suo nipote e sarà felicissimo di vederlo».
Difatti, zio e nipote si abbracciarono
affettuosamente.
«Dov’è il cane?» chiese Zio Josef prima di chiedere
ad Ariel come stava. Quando il cagnolino entrò a grandi saltoni in salotto,
facendo le feste allo zio che non conosceva nemmeno, questo esclamò commosso:
«Piccolo amore! Piccolo amore!»
Il cane gli saltò in braccio e si diedero baci e
carezze a vicenda.
«Calma, calma», disse Zia Rachele. «Fai più festa
al cane che a tuo nipote…»
«Ariel è come me; anche lui ama i cani… È un bravo
ragazzo. Sono sollevato di vedervi qua con noi.»
Chai si era sdraiato sulle ginocchia dello zio,
che lo accarezzava gentilmente mentre iniziava a esaminare Ariel con occhi
sorridenti. Poi cominciò lo scambio di domande, risposte, silenzi e tanta
emozione difficile da reprimere. Molto tempo era passato, molte cose erano
successe. C’era tanto da dire, ma ci sarebbe voluto molto tempo prima di
riuscire a parlare.
Quando Nora ebbe indossato i vestiti nuovi, sembrò americana anche lei.
Ogni sera, prendeva il cane al guinzaglio e usciva
allargando progressivamente la sua esplorazione del quartiere. Scoprì la chiesa
cattolica e i corsi per gli stranieri organizzati la domenica pomeriggio dalla
parrocchia.
Cominciò a imparare la lingua, l’educazione
civica, il codice di comportamento e tutto quanto le sarebbe servito per poter
chiedere la cittadinanza.
«Vuoi chiedere la cittadinanza americana?» aveva
chiesto il prete.
«Non voglio tornare indietro», aveva detto
semplicemente Nora.
La casa aveva un andamento tranquillo. Ogni mattina, il Signor Josef
partiva per l’ufficio. A mezzogiorno, c’era solo un pasto leggero, mentre alla
sera tutti si vestivano bene per la cena, che durava a lungo. Poi andavano in
salotto; gli uomini bevevano un bicchiere di qualcosa di forte mentre parlavano
e le signore bevevano un bicchierino di Bols Cherry, che veniva dall’Olanda.
Qualche volta, si faceva una partita a scacchi o si giocava a bridge. C’erano poche visite ed erano
quasi sempre lo stesso genere di persone. Parlavano, indifferentemente,
Inglese, Italiano o la lingua degli ebrei. Il venerdì sera e il sabato erano
particolari: loro avevano la domenica al sabato: dicevano delle preghiere e gli
uomini mettevano sulla testa un piccolo cappellino rotondo.
Nora era partita da un paesello sperduto tra le montagne, dove le novità
arrivavano con cinquant’anni di ritardo. Di colpo, dopo il viaggio con la nave,
era arrivata in una famiglia moderna, nella città più moderna del paese più
moderno al mondo. Le nuove esperienze erano innumerevoli, eppure a lei tutto
sembrò normale, perché in America è tutto moderno ed è normale che sia così;
altrimenti, non sarebbe l’America.
I grattacieli erano enormi, i ponti lunghissimi,
le strade larghissime; a Vergeletto o in Ticino sarebbe stato strano, ma in
America non c’era da meravigliarsi poiché l’America era così. Nella casa di
Vergeletto, aveva pochi mobili, l’acqua si prendeva alla fontana e i pasti
semplicissimi si cucinavano sul fuoco nel camino. Nora scoprì la vita moderna
in pochi giorni e senza meravigliarsene. Le sembrò perfettamente normale che
l’acqua uscisse dai rubinetti, calda e fredda, che ad ogni piano della casa si
trovasse il telefono, che i panni sporchi andassero nella macchina da lavare e
poi venissero stirati col ferro da stiro elettrico a vapore. Non si meravigliò
né del frigorifero né della cucina elettrica né della radio e nemmeno della
televisione, perché in America tutto era possibile. E, quando imparò a cucinare
secondo la tradizione ebraica della famiglia Levi, si convinse che quella era
la moda americana e che tutti gli americani mangiassero in quella maniera.
Nora aveva la mente aperta e flessibile della
gioventù: le bastava vedere e riproduceva senza difficoltà. Tutto sommato, non
si meravigliò di quanto trovò nel nuovo mondo. Quando capì che non tutti gli
americani mangiavano nello stesso modo, ridimensionò le sue vedute pensando:
«Eh già, avrei dovuto saperlo. Con tutte le razze di persone che ci sono qua,
avranno tutti gusti diversi…»
A Vergeletto, la vita era stata molto monotona.
Qui, invece, s’incontravano anche negri e cinesi e si sentivano tutte quelle
lingue diverse! Questa era la cosa più divertente: anche se si parlavano le
lingue più strambe del mondo, tutti finivano per capire quello che diceva
l’altro. Dopo pochissimo tempo, Nora fu convinta di aver fatto bene a cambiare
vita e si integrò nella sua nuova casa e nella sua nuova famiglia con una
facilità sconcertante.
Una sera, ci fu una riunione importante. Gli uomini erano rimasti nel
salotto, mentre le signore si erano ritirate nel salottino. Nora aveva portato
il tè e il caffè, poi era rimasta seduta a disposizione nel corridoio, caso mai
avessero desiderato altro. Così, aveva ascoltato e tentato di capire le strane
cose che dicevano.
«Ariel è qua da diversi mesi», disse il Signor
Josef ai suoi ospiti. «Ho rimandato questo incontro perché il ragazzo è ancora
sconvolto da quanto è successo. Tuttavia, dobbiamo deciderci; aspettare non
cambia più niente. Anzi, prima siamo informati e prima prendiamo delle
decisioni, meglio sarà per tutti noi. Ariel, te la senti di rispondere alle
nostre domande?»
«Proverò a rispondere, ma eravamo in una situazione
strana. Non sapevamo tutto. Quando i tedeschi hanno invaso il Belgio, pensavamo
fosse finita. Invece, allora si sentivano delle voci. Portavano gli ebrei in
Germania per lavorare. Si parlava di campi di concentramento, di sterminio. Non
capivamo. Tutta la vita era scombussolata. Il lavoro, trovare cibo… Era una
lotta continua.»
«Ma già prima si capiva che Hitler stava
diventando pericoloso, in Germania. In Belgio, già nel ’36, Degrelle ebbe un
grande successo elettorale col suo Rexismo… Il movimento Rex era un facsimile
del fascismo in Italia!» disse un signore. «È ben per quello che siamo partiti.
Non capisco perché tuo padre non abbia voluto venire con noi».
«Mia sorella era fidanzata con David», rispose
Ariel. «Mio padre teneva ai legami con quella famiglia veneziana. Lea si è
sposata nel ‘39 ed è andata a vivere a Venezia. Poi, anche lì, sono successe
cose spaventose, ma non abbiamo mai pensato che la situazione si sarebbe
aggravata tanto.»
«Tuo padre era cocciuto», disse un altro. «“Mein Kampf” era lì da leggere già nel
‘25. Dopo l’invasione dell’Austria e della Polonia, ci si poteva ben aspettare
che non si sarebbe fermato. Tanto più che, anche in Italia, andava così;
Mussolini aveva pieno potere. E poi, l’asse Berlino-Roma…»
«Mio padre non voleva abbandonare la casa di
Anversa, l’atelier, i nostri operai e il macchinario nuovo… Avevamo
buoni contatti con un cugino da parte di mia madre che ci forniva dei diamanti
di qualità straordinaria. Sapete come mio padre fosse affascinato dai diamanti.
Quel Rosenbaum aveva un filone di diamanti azzurri. Erano meravigliosi, di una
limpidezza come non avevamo mai visto. Mio padre impazziva a ogni nuovo arrivo.
Tagliava lui stesso la pietra grezza; la sentiva, la vedeva ancora prima della
lavorazione e, quando l’ultima levigatura era finita, rimaneva per ore
rinchiuso nel suo studio a contemplare la sua opera, con un fascio di luce che
aveva adattato lui stesso e che dava alla pietra tutto il suo fuoco… Lo sapete
com’era. Non voleva nemmeno venderli. Se non fosse stato che riusciva a
comperarne di più belli, li avrebbe tenuti tutti in una vetrina… Zio, mio padre
era tuo fratello, lo sai com’era. Se fosse stato per lui, non avrebbe nemmeno
usato macchinari moderni e avrebbe fatto tutto a mano, come cinquecento anni
fa!»
«Sì», disse lo zio. «Di tutti noi, era l’unico a
fare questo mestiere per la passione della bellezza. Diceva che il fuoco del
diamante è come il fuoco di Dio che parlò a Mosè. Ma vedi, Ariel, noi non siamo
artisti; siamo commercianti. Però, noi abbiamo salvato la pelle e quella della
nostra famiglia. Tuo padre ha fatto il contrario…»
«Era troppo occupato per rendersi conto di quanto
succedeva fuori, o non voleva pensarci…» continuò Ariel. «Quando ha capito, era
troppo tardi. Eravamo in trappola. Poi abbiamo dovuto abbandonare la casa e
tutto il resto e nasconderci. Prima da conoscenti fiamminghi. Frans e la sua
famiglia non rischiavano niente; si vedeva da lontano che erano puri ariani,
tutti biondi con grandi occhi azzurri. Erano cattolici fanatici che pregavano a
tutti i momenti, anche prima e dopo i pasti. Venivano da loro delle suore e dei
preti e parlavano male degli ebrei; dicevano che ciò che succedeva era un
castigo di Dio poiché gli ebrei avevano ucciso Gesù. Possedevano una grande casa
e ci nascondevano nel loro solaio: riuscivano a ingannare addirittura le SS e i
collaborazionisti che denunciavano i loro compatrioti. Non potevamo uscire, né
andare vicino ai lucernari, né accendere la luce di sera o di notte. Solo papà
scendeva qualche volta a parlare con loro. Venivano altri uomini e discutevano.
Per la loro vecchia nonna veniva un’infermiera. Lei era protestante. Qualche
volta, dopo il coprifuoco, era scortata da soldati tedeschi. Poi, un giorno, la
casa è stata circondata. I tedeschi hanno fatto uscire tutti, li hanno portati
via… Papà ci ha fatto scappare: il solaio comunicava con quello
dell’autorimessa, poi con i giardini, che confinavano con un canale. In
seguito, siamo rimasti nascosti in una barca nel porto».
«Cos’era successo?» chiese un signore che era
rimasto silenzioso.
«L’infermiera era una partigiana. Col suo
mestiere, poteva circolare facilmente a tutte le ore. Portava i documenti per
quelli della resistenza e per far scappare gli ebrei; è andato tutto bene fin
quando lei stessa è stata tradita: un uomo che lei non voleva l’ha denunciata
alla Gestapo per gelosia… È stata seguita, ma non hanno potuto fermare tutta la
rete, perché quando lei ha capito ha potuto ancora avvisare qualcuno, che ha
dato l’allarme…»
«Sono stati deportati?» chiese lo zio.
«No. Fucilati, tutti… Anche la vecchia nonna…»
«E tuo padre?»
«Papà era in contatto coi partigiani. Quando Frans
e la sua famiglia sono stati massacrati, papà ha voluto ripagare quello che
loro avevano fatto per noi…»
Seguì un silenzio pesante. Era una storia banale
che si era ripetuta all’infinito durante tutta la guerra in tutta Europa. Le
stesse disgrazie avevano colpito tutte le famiglie: ebrei, partigiani,
innocenti, uomini politici, artisti… Nessuno era stato risparmiato. Ma quando
si trattava di amici o parenti, era ancora più terribile.
«Se permetti, Ariel», disse uno dei signori che
era seduto in disparte e non aveva ancora detto niente. «Adesso che tutto è
passato, possiamo parlarne. Forse ti aiuterà ad accettare quanto è successo…
Tuo padre era in contatto con una rete d’informazione dell’armata segreta
belga. Durante la Prima Guerra Mondiale aveva fatto parte della “Dame
Blanche” e, quando si è visto come evolvevano le cose, non ha voluto
fuggire dal Belgio perché il suo dovere era di rimanere al suo posto… Tuo padre
era un tassello dell’organizzazione “Clarence”, uno dei servizi segreti
più importanti e più efficaci.»
«Come?» esclamò lo Zio Josef. «Quel sognatore era
un partigiano? Non dire sciocchezze… Mio fratello Simon non ha mai fatto una
cosa seria. Era totalmente irrazionale, fantasioso, sbadato. Anzi, era uno
svampito totale: un artista!»
Si guardarono stupefatti, perché avevano il
ricordo di un giovinastro spensierato sempre pronto allo scherzo; la testa fra
le nuvole e i piedi raramente per terra. Simon aveva fatto la parte dello
scapestrato in quella famiglia severa e dignitosa.
«Mio padre era un partigiano dall’inizio?», disse
Ariel pensieroso, anzi, incredulo.
«Anche prima dell’inizio», disse quel signore, che
adesso si era alzato e camminava lentamente parlando come a sé stesso, mentre
le immagini del passato scorrevano nella sua memoria. «Lui era una delle
persone più coscienti della realtà della situazione… Ha fatto il suo dovere. Si
è sacrificato. È stato molto bravo a camuffare la sua attività, fin quando è
stato scovato anche lui.»
«Ha anche sacrificato la mamma…» mormorò Ariel.
«Tua madre lo sapeva. Anche lei aveva il suo
ruolo… Le persone dall’apparenza più banale erano le più utili… I partigiani hanno
fatto l’impossibile per salvaguardare Anversa, che era molto importante perché
porto di mare. Tuo padre aveva una posizione privilegiata: il commercio dei
diamanti era la copertura ideale per viaggiare e ricevere i viaggiatori che
trasportavano non solo diamanti, ma anche documenti e preziose informazioni.»
«Allora è per questo che sono stati internati in
Belgio, nel campo di Breendonk, come i prigionieri politici e non sono stati
mandati nei campi tedeschi come gli altri ebrei?» intervenne Ariel come se
avesse intravvisto un inizio di chiarificazione.
«Per quanto ne ho potuto sapere… Sì. Ma non so
tutto nemmeno io…»
Si guardarono silenziosi.
«Io non ho più saputo niente», mormorò Ariel. «Non
ho più rivisto né la mamma né il papà…»
Quel signore che sembrava più informato degli
altri continuò: «I prigionieri venivano torturati per estorcere loro
informazioni e per poter arrestare altri militi… Spesso, morivano sotto tortura
o venivano abbattuti… Certo, non se ne parla molto, ma anche il Belgio ha
qualche scheletro nascosto nell’armadio… Si parla di Auschwitz o Dachau, ma c’è
anche stato Breendonk. Nell’orrore, non c’è graduatoria: orrore è sempre
orrore… Un piccolo campo di concentramento o un grande campo di concentramento
rimane sempre un campo di concentramento… Tu quanti anni avevi?»
«Nel ’44, avevo 22 anni. Non volevo pensare a
queste cose. Mi rinchiudevo nella cantina di un amico col mio violoncello e le
mie partiture. Alla mattina, studiavo Bach, intensamente, ma la mia vera
preoccupazione era di suonare la musica di Glenn Miller. Alla sera, suonavamo
un po’ di classico, poi facevamo le jam
sessions. Avremmo fatto qualunque cosa pur di sfuggire al mondo che si
scatenava sopra le nostre teste. Per me, quel mondo poteva crollare… Ma lei,
come sa queste cose?»
«Ero in contatto con tuo padre. Poi, dopo la
liberazione, abbiamo saputo il resto dagli archivi e dai sopravvissuti…»
«E Lea e David e il loro bambino Joshua… Non
abbiamo più saputo nulla», insistette Ariel.
«Sappiamo che sono fuggiti da Venezia. Volevano
rifugiarsi in Svizzera, ma era difficile perché tutta la fascia di frontiera
era occupata da gruppi di partigiani, di fascisti, di tedeschi. Alla fine,
c’era una confusione totale… Le tracce di tua sorella si perdono a Stresa, in
Piemonte…» continuò lo stesso signore che decisamente ne sapeva di più di
quanto lasciava apparire.
«E me, chi mi ha fatto fuggire?»
«Noi ti siamo sempre stati vicini. Discretamente,
perché sarebbe bastato uno sguardo per tradirci e farci arrestare. Eri rimasto
solo, la casa e tutti beni erano stati confiscati, rubati o distrutti. C’è
anche stato un incendio… Bombardamenti… Sei una forza giovane con già tanta
esperienza e buone ragioni per aderire al nostro progetto. Abbiamo bisogno di
giovani come te per costruirci una patria: un paese nel quale vivere, trovare
la sicurezza. Mai più pogrom o ghetti; mai più matricole bruciate nella nostra
pelle, né stella di Davide stampata sui nostri vestiti come simbolo di
vergogna… Per noi, la stella di Davide è quella di un nuovo mattino, del nuovo
Israele. Per quello e per riconoscenza verso tuo padre, ti abbiamo aiutato a
raggiungere la Palestina…»
«Io non so cosa devo pensare, cosa devo fare… Non
riesco a dormire. Ogni notte, sono gli stessi incubi: nascosti in quella
piccola barca a vela, le retate delle SS, la mamma… L’avranno torturata… Non ho
potuto fare niente. Non c’ero nemmeno quando sono stati arrestati. Lea… Dov’è
mia sorella? Non me ne frega niente d’Israele. Voglio solo ritrovare Lea…»
«Adesso basta», mormorò Zio Josef. «Basta per
ognuno di noi. Il ragazzo è esausto. Non è il momento di parlare di politica.
L’unica cosa che gli è rimasta è il suo cane… Ha perso tutto, perfino il
violoncello. Se mio fratello avesse almeno mandato via suo figlio… Poteva fare
l’eroe, ma almeno mettere i suoi figli in salvo…»
«Andrete avanti ancora alla lunga?» chiese Zia
Rachele quando il tono delle voci si era alzato.
«No cara, metto un termine a questa discussione
alquanto penosa. Per ora, Ariel resterà con noi e, quando il tempo sarà maturo,
anche lui saprà discernere il suo dovere… Gradirei un tè, se qualcuno in questa
casa è ancora sveglio per prepararlo.»
Mentre raggiungevano le signore nel salottino, un signore che durante tutta
la serata era rimasto pensierosamente silenzioso disse a mo' di conclusione:
«Eh sì… Adesso è facile dire che i pessimisti sono venuti in America mentre gli
ottimisti sono finiti ad Auschwitz… Adesso è tutto facile, all’epoca non lo
era…»
Nora scese in cucina. Mentre aspettava che l’acqua bollisse, tentò di
ricapitolare le cose straordinarie che aveva sentito. Tutti erano seduti in
salotto, lo Zio e la Zia e altre cinque coppie… Dodici persone in tutto, perché
bastarono le dodici tazzine del servizio di porcellana blu. Ariel era uscito;
aveva preso il cane ed era andato via dicendo semplicemente: «Buonanotte,
Nora…»
«Buonanotte…»
«Mia cara Susanna», disse lo Zio Josef con un po’ d’enfasi. «Dopo il
ricordo dell’orrore, ci canti qualcosa che possa lenire le nostre sofferenze?»
Zia Rachele si sedette al pianoforte e fece un
paio di andare e venire con le mani sui tasti. Nora rimaneva sempre interdetta
davanti alla velocità delle dita e ai suoni che producevano. Suonare il
pianoforte; questo le sarebbe piaciuto e decise di chiedere alla Signora. Poi,
all’improvviso, la voce di Susanna si alzò nel salotto, si espanse nel
silenzio, invase gli animi e Nora sentì la pelle di gallina prima sul collo,
poi lungo le spalle. Anche se non capiva le parole, pianse dall’emozione.
«È bellissimo», pensò Nora mentre si sedeva lentamente
sulla scala, appoggiando la testa contro la balaustra di ferro battuto. Si
lasciò trasportare dalla voce luminosa di Susanna, che riprese una volta
ancora: «Shir hama’alot[6]…» … «Alzo
il mio sguardo verso la montagna…»
Nora rimase sconcertata e si convinse
progressivamente di non aver capito l’argomento.
Col passare del tempo, la sua posizione nella casa era diventata bizzarra.
Da una parte, era solo una cameriera, come Ruth e suo marito; dall’altra, si
sentiva vicina ad Ariel e credeva di poter capire le sue preoccupazioni, perché
erano tutti e due estranei in quel
ambiente che non era il loro mondo.
Una sera, Ariel venne a prendere il cane per la
solita passeggiata.
«Vengo anch’io… Se permette…» disse Nora.
«Certo…»
Camminarono in silenzio lungo il marciapiede.
Arrivati al giardino pubblico, che a quell’ora era deserto, Ariel lasciò
correre il cane senza guinzaglio ed entrambi si sedettero su una panchina.
«Il cane», disse Nora. «Perché le ha salvato la
vita?»
«Da solo, sarei stato sospetto, invece con lui ho
fatto la parte del barbone imbecille e in due abbiamo attraversato il
territorio occupato fino alla salvezza in un porto del sud della Francia. Ogni
volta che rimanevo paralizzato dal terrore, lui mi guidava, mi proteggeva.
Piccolo com’è, è stato davvero eroico. Poi con la sua faccia un po’ buffa
faceva ridere. Faceva addirittura le capriole; sviava i sospetti… Quando si è
accompagnati da un cane, la gente è subito più gentile, ben disposta…»
«Ma è così brutto…»
«Brutto? È una razza così. Anzi, è di pura razza.
È un griffone belga, una razza antica, che è stata addirittura raffigurata dai
grandi maestri fiamminghi del quindicesimo secolo. Van Eyck, Rembrandt… Il
cagnolino che abbaia contro il tamburo nella Ronda di notte è un
griffone di Bruxelles.»
Ma Nora non conosceva i grandi pittori fiamminghi
e nemmeno sapeva dove fosse Bruxelles.
«L’altra sera», disse Nora cambiando bruscamente
argomento. «Non avrei dovuto ascoltare, ma ormai l’ho fatto… Non ho capito cosa
dicessero… Volevo dire che mi dispiace che lei stia male… Se posso…»
Ariel alzò lo sguardo. Non aveva mai veramente
guardato Nora, ma adesso vide che non era più una ragazzina ed era anzi
diventata una giovane donna, con occhi scuri e profondi. La forma quadrata del
suo viso le dava un’espressione seria e decisa.
«Diamoci del tu», disse Ariel. «È vero: sono in
una situazione difficile e non so nemmeno con chi parlarne. I miei genitori
sono morti, mia sorella è scomparsa. Non ho più niente né nessuno. I miei zii
mi ospitano per spirito di carità. Si aspettano molte cose da me e io non sono
in grado di farle. Mi sento un parassita e non ho il coraggio di andar via. Non
mi sento la forza per affrontare la vita. Sono un vigliacco…»
«Il tuo paese dov’è?»
«Anversa, in Belgio.»
«Perché non torni là?»
«E tu, torneresti nel tuo paese?»
«No.»
«Allora, anche tu hai delle cose difficili da dire
e da ricordare…»
«Sì…»
«Vuoi parlarne?»
«No.»
«Per me è lo stesso. Forse col tempo riuscirò a
chiarire le mie idee.»
«Come mai eri sulla nave? Non veniva dal Belgio?»
«Veniva dalla Palestina. Sono stato là, ma non ce
l’ho fatta. Sono andato via per venire qui, perché non saprei dove altro
andare.»
«Perché la Palestina?»
«Migliaia di anni fa, gli ebrei abitavano in
Palestina, ora è una colonia inglese. Gli ebrei sono un popolo strano; abitano
in tutto il mondo, con delle cittadinanze diverse, ma hanno la stessa
religione. Anzi, sono ebrei prima di essere cittadini. Da sempre hanno fatto
cose importanti e da sempre hanno subito persecuzioni. Nel secolo scorso, molti
ebrei russi sono fuggiti per ritornare in Palestina. Negli anni Trenta, in
Europa, la situazione è diventata grave e molti sono andati via, come mio zio
Josef, che è venuto qui in America. Altri hanno deciso di ritornare in
Palestina, da dove erano venuti.»
«Mi sembra giusto», disse Nora.
«Non è facile da capire.»
«Ma se è il loro paese…»
«Anch’io pensavo così. Quando i miei genitori sono
stati uccisi, i partigiani mi hanno aiutato a fuggire nel paese che sembrava il
più logico: in Palestina…»
«È bello laggiù?»
«Sì, è molto bello, ma non era un paese vuoto. In
Palestina, vivono altre persone: i Palestinesi, che per la maggior parte sono
arabi e di religione musulmana.»
«Hanno occupato il vostro posto?»
«No, vivono lì da sempre anche loro… Il paese è
sempre stato occupato da potenze straniere. Una volta i Romani, una volta i
Turchi, adesso gli Inglesi… Anche i Palestinesi vogliono essere indipendenti,
avere il loro paese per se stessi… Adesso che gli Inglesi stanno per andare via,
arrivano gli Ebrei… Sono altri colonizzatori.»
«Perché non fanno come noi in America? Gli
americani sono contenti che veniamo a lavorare qua.»
«Nora, non è lo stesso; gli Ebrei che vanno in
Palestina non vogliono diventare palestinesi sotto un governo palestinese.
Vogliono ritornare nel loro paese da dove sono partiti duemila anni fa,
praticare la loro religione, parlare la loro lingua. Vogliono possedere la
terra, mandar via gli Arabi… In più, questi Arabi non sono una nazione
coerente, ma un insieme di tribù che addirittura si combattono tra di loro.»
«Perché questi Ebrei sono così cattivi?»
«Non sono cattivi. Hanno paura… Hanno sofferto
troppo e adesso vogliono un posto, dove sentirsi a casa propria, dove avere un
esercito per difendersi e dove poter prosperare. Hanno molti scienziati e
artisti, sono esperti commercianti… Vogliono lavorare, ma non più per altri. Il
frutto del loro lavoro, lo vogliono per se stessi e per il loro popolo.»
«Non ti sembra giusto?»
«Sì, da una parte è giusto. Guardami: non ho più
niente, non ho nemmeno un paese dove vivere… D’altra parte, i Palestinesi non
possiamo semplicemente mandarli via. Noi Ebrei vogliamo fare coi Palestinesi
quanto gli altri hanno fatto con noi. È complesso. Questo è il fondo del mio
problema. Sono stato lì e non ce la faccio. Ho paura. Ci sono già stati
violenti scontri. Ci saranno guerre, altra violenza…»
«Perché non rimani in America?»
«Non lo so. Prima della guerra ero ancora un
bambino. Adesso devo decidere di cose che non sono in grado di gestire. Forse
sono ancora troppo giovane…»
«Quanti anni hai?»
«Ho venticinque anni. Alla mia età, mio padre,
anche se era stravagante, dirigeva un’impresa… Spesso penso di essere un
fallito, che non realizzerò mai niente.»
«Io ho diciassette anni… Neanch’io so cosa fare,
ma di una cosa sono certa: non voglio essere una fallita, voglio riuscire nella
mia vita. Sai, da noi, troppe volte ho mangiato patate e cipolle o castagne…
Polenta e latte, mai più… Io non so molte cose, come te. Sono andata a scuola
solo in paese… So contare, leggere e scrivere, ho una bella calligrafia. Tutto
qui… Ma ti assicuro che non lascerò passare nessuna occasione: io farò
qualcosa!»
Ariel guardò Nora con sorpresa.
«Come sei decisa. Non avrei mai pensato che tu
fossi così forte… Allora è per questo che non vuoi sposarti.»
«Per questo e per altro…»
1947, seguito.
«Zio Josef», disse Ariel una sera dopo cena. «Avrei una richiesta da
farti».
«Sentiamo…»
«Si tratta di Nora. È una ragazza intelligente; si
merita di meglio che fare semplicemente i nostri letti e servire a tavola.»
«Non ha diplomi, qui almeno può imparare a
comportarsi in società.»
«Non ha diplomi, però è volonterosa, lavora tutta
la settimana e la domenica va a scuola… È anche ambiziosa. Perché non possiamo
trovarle un impiego nella nostra azienda, magari come segretaria? Sono certo
che seguirebbe i corsi serali.»
«Come mai t’interessa tanto questa ragazza?»
«Mi fa impressione perché è l’opposto di me. Non è
educata, ma è piena di energia e di speranza. Io mi sento così fiacco.»
«Fin quando non ti imporrai una disciplina,
liberamente consentita ma rigida, non farai niente della tua vita. Comincia a
sforzarti di andare ogni mattina in ufficio e a interessarti di quanto succede.
Vedrai che ti lascerai prendere dall’ambiente e tornerai a sentirti partecipe e
utile.»
«Non è possibile affidarci un compito nel quale
Nora ed io potremmo lavorare insieme?»
«Non sono il solo a decidere; ne parlerò al
prossimo consiglio d’amministrazione.»
L’anno stava finendo. Ovunque apparivano decorazioni natalizie. Nelle
strade, altoparlanti diffondevano canti e ad ogni angolo risuonava Jingle
Bells.
Faceva freddo, quando non pioveva c’era nebbia e
poi una mattina tutto era bianco di neve. Più brutto era il tempo fuori, più in
casa l’atmosfera diventava calorosa e piena del via vai degli amici di Sara e
Jona, i figli degli zii che erano tornati dal collegio per le vacanze.
«Non festeggiamo Natale come voi», disse Zia
Rachele a Nora. «Noi festeggiamo Chanukkah, la Festa delle Luci. Ti
starai sentendo sola e triste… Volevo proporti di festeggiare con noi. Sarai la
nostra ospite.»
«Non voglio disturbarvi.»
«Non disturbi, anzi. Sei ormai diventata parte
della nostra famiglia… D’altronde, la nostra religione ci prescrive di
accogliere gli stranieri perché anche noi tante volte siamo stati stranieri.
Sara, potresti spiegare a Nora cosa simboleggia la festa di Chanukkah?»
«Euuu», cominciò Sara. «È una festa molto
importante, perché Ruth prepara i biscotti al sesamo, le mele nel miele e le gretchenes
latkess e Papà beve anche il vino…»
«Che confusione», la interruppe Jona. «Non
ascoltarla. Questa vive solo per il suo stomaco, anzi è uno stomaco parlante… Chanukkah
è quando gli Ebrei si sono ribellati, hanno fatto fuggire i cattivi e hanno
riaperto il Tempio. Ma quelli avevano usato tutto l’olio, non sarebbe bastato
che per un giorno. Allora, l’olio ha fatto un miracolo, perché invece di durare
solo un giorno è durato otto giorni. Per questo noi facciamo festa per otto
giorni…»
«È ben quello che dicevo», interruppe Sara. «Per
otto giorni, Ruth cucina i biscotti nell’olio.»
«Sarei felice di poter mangiare i biscotti con
voi», disse Nora iniziando a osservare le belle e strane tradizioni che non
conosceva. Le piaceva soprattutto il rituale della channukkiyah, il
candelabro a nove bracci. Una candela stava indietro e dava la luce per
accendere le altre, una la prima sera, due la seconda e così via. Poi, il
candelabro veniva depositato sul davanzale della finestra per far partecipare
alla festa tutte le persone che passavano per strada.
Una sera, dopo cena, tutti andarono in salotto, dove trovarono un grande
pacco avvolto da carta variopinta con un nastro e un enorme fiocco.
«Ecco», disse la Zia Rachele a Nora. «Noi non facciamo
regali come si usa adesso. Gli Ebrei scambiano i regali alla festa di Purim,
che è un po’ come il vostro carnevale. Tuttavia, per ricordarti le feste nel
tuo paese, abbiamo due piccole sorprese: Ariel, questo è per te!»
Il pacco per Ariel era alto un metro e mezzo,
largo un metro, profondo un altro metro.
«Grazie dei cioccolatini», disse Ariel, che voleva
fare lo spiritoso.
«Non sono cioccolatini… Provate a indovinare.»
Tutti vennero a guardare, gridando le proposte più
fantasiose: «Un’automobile tascabile», disse subito Sara.
«Arnesi da giardinaggio per tornare in un kibbùtz»,
disse Jona con un sorriso provocatorio.
«Una penna da direttore per andare in ufficio»,
replicò Sara, scherzando.
«Non prendete in giro vostro cugino», intervenne
finalmente Zio Josef. «Provate a dimostrare un po’ di amore fraterno,
specialmente oggi!»
Ariel tagliò il nastro, poi strappò la carta, poi
un angolino del cartone ed esclamò: «Questa è la custodia di uno strumento…» E,
incredulo, mentre alzava gli occhi pieni di speranza verso Zio Josef, aggiunse
sottovoce: «Sarà un violoncello?»
Lo guardarono in silenzio ed era davvero una
grande custodia nera coi fermagli d’ottone. Quando Ariel la aprì, apparve un
violoncello nuovo fiammante che troneggiava nella fodera di satino bianco,
sulla quale era stampato in caratteri dorati il nome di un artigiano di
Cremona.
«Ooooh!» esclamò la famiglia in coro. Sara, con
sguardi d’invidia non poté reprimere un: «Un regalo così bello!» Al quale
subito Jona aggiunse: «Non serve essere invidiosa, perché tu non hai la
costanza per imparare… L’unica cosa che sarai mai capace di suonare è lo
squillo del telefono… Diventerai una ragazza squillo!»
«Psssst!» fece Ruth stringendo le sopracciglia e
mettendo l’indice sulle labbra mentre Sara cacciava fuori la lingua a suo
fratello. La Zia sospirò e lo Zio alzò gli occhi al cielo.
«Solo chi ha dei figli può capire che Abramo
voleva sacrificare il suo invece di una bella pecora», pensò lo Zio Josef.
«Oddio, aiutami a sopportare questi due scalmanati… Ma se sono tremendi, è
colpa mia; voglio loro troppo bene, li vizio troppo…» Poi sorrise, perché era
felice di vedere la sua famiglia così vivace ma anche generosa.
Ariel rimase in ammirazione, poi guardò i suoi zii col viso illuminato
dalla gioia, incapace di dire una parola… Era semplicemente troppo.
«Ero stufo di vederti sempre depresso», disse Zio
Josef. «Rachele, mi raccomando, i duetti col pianoforte…»
Ariel si sedette sul bordo di una poltroncina,
prese lo strumento tra le braccia e iniziò ad accordarlo. Sentiti i primi suoni
sgraziati e cacofonici, Jona e Sara gridarono:
«No, no, basta! Un boogie-woogie! Un
fox-trot, un charleston…»
«Che selvaggi!» disse Zio Josef. «Spendo un
capitale per metterli in collegio ed ecco il risultato!»
Ariel, intanto, si ricordò le prime note di un’étude di Bach e Zia Rachele andò a
frugare nelle sue partiture.
«Cosa preferite?» chiese la zia. «Una sonata di
Debussy, una Fantasia di Schumann o Il
Cigno di Camille Saint-Saëns?»
«Il Cigno»,
disse Ariel commosso perché evidentemente i suoi zii avevano anche pensato a
comperare le partiture, tra le quali il suo prediletto Cigno di Saint Saëns. «Credo di ricordarlo a memoria».
Seguì il
Cigno, romanticissimo, armonioso e talmente sentimentale. Era ovvio che
anche la Zia l’aveva studiato, appositamente e di nascosto; il suo
accompagnamento al pianoforte fu senza alcuna esitazione.
«Ho un regalo anche per te», disse Zio Josef a Nora dopo gli applausi. «Perché tu possa
sentirti di più nel Natale della tua tradizione. Ma devi ringraziare Ariel. Lui
l’ha chiesto ed io posso dartelo. Tuttavia, sei libera di rifiutarlo se non ti
piace».
Intimidita, nella sua camicetta a fronzoli e nella
sua gonna in tessuto scozzese, Nora si raddrizzò sulla sedia e tutti la
guardarono mentre lo Zio Josef le disse con benevolenza: «Ariel ha chiesto per
te un posto di lavoro nella nostra società. Visto che non hai nessuna
qualifica, abbiamo deciso di farti venire in ufficio. Per cominciare starai un
mese in ogni dipartimento. Intanto seguirai dei corsi intensivi d’inglese, di
dattilografia e stenografia. In seguito, vedremo dove potrai essere più utile.»
Nora, tutta confusa, si alzò come per rispondere,
fece qualche gesto con le mani e poi, senza poter parlare, si lasciò cadere
sulla sedia.
«No, no, no», disse Zio Josef. «Non ringraziare.
Noi, con te, facciamo un investimento. Adesso, ti diamo una formazione; dopo,
dovrai far fruttare il capitale che noi abbiamo investito. È una specie di
mercato. Perciò, non rispondere adesso; hai il tempo di pensarci. Hai il
diritto di rifiutare e di continuare il servizio qui in casa. Se invece
accetti, saremo esigenti e pretenderemo il meglio… Quindi non è né beneficenza,
né è gratuito…»
«Dopotutto», aggiunse ridendo. «Noi siamo Ebrei…»
E tutti batterono le mani, ridendo di buon cuore.
Poi, lo Zio continuò: «Se sei d’accordo, Ariel ti
condurrà e comincerai il due di gennaio alle ore otto nel mio ufficio, con la
firma del contratto che ci vincolerà a vicenda.»
«Io non ho niente per contraccambiare. E poi, a
casa mia, noi eravamo talmente poveri che di regali non ce n’erano… Io, di
regali non ne ho mai ricevuti», disse Nora, imbarazzata e commossa. «In più,
sono stata ben poco a scuola. Dovrei imparare tutto…»
«Se riesci a portare mio nipote in ufficio ogni mattina,
sarà più di un regalo… Per quanto riguarda la scuola, noi sappiamo che segui
già la scuola della domenica e che sei volonterosa. Evidentemente, non
comincerai con cose complicate: è meglio cominciare dal basso e salire
progressivamente, come d’altronde abbiamo fatto tutti noi.»
Sara, che era la più estroversa della famiglia,
corse da Nora, le gettò le braccia attorno al collo e la baciò sfrenatamente
col suo solito flusso di parole iperboliche: «Tu sei un regalo per me ed io
sono un regalo per te! Non sono io la più carina delle sorelline?»
Così, Chanukkah diventò veramente una festa
gioiosa, piena di luce e di speranza. Nora cominciò a intravedere un futuro:
l’impiego di segretaria era un buon inizio.
Tornata in cucina, riprese il suo lavoro abituale.
«Sono contenta per te», disse Ruth. «Sei giovane,
impari velocemente. Diventerai una bella donna. Hai tutte le carte in mano. Se
sei capace di gestire tutto quanto, farai carriera. Questa famiglia è generosa,
purché non la si deluda».
«Faccio conto di non deluderla.»
1948
Passarono tutte le feste, Chanukkah, Natale e Capodanno e il 2 di
gennaio, alle ore 08.00, Ariel introduceva Nora nell’ufficio dello Zio Josef,
Chairman della Diamond Board.
«Ecco, signorina Bietri», disse Zio Josef con tono
rigorosamente professionale. «Questo è il suo contratto. Legga, ci pensi,
faccia le sue obiezioni e firmi.»
Nora prese il documento. Mentre cominciava a
leggere attentamente, sedeva con la naturalezza dell’ingenuità sulla poltrona
Mies van den Rohe, che continuava a oscillare seguendo l’elasticità della sua
struttura d’acciaio.
«Che cosa intende con segreto professionale?»
chiese Nora.
Lo Zio assunse un’espressione austera: «La nostra
è una compagnia di commercio del diamante. Abbiamo fornitori e clienti. Tra le
nostre mani, transitano grandi quantitativi di merce e capitali. Il primo
fondamento sul quale riposa la fiducia delle persone che lavorano con noi è il
silenzio. “Sentire, vedere e tacere”. Ognuno di noi sottostà a questa legge,
anche dopo aver lasciato il proprio incarico nella nostra compagnia. Abbiamo
anche un tipo di sorveglianza per assicurarci che il nostro personale non
contravvenga a questa regola, non frequenti ambienti pericolosi che potrebbero
provocare fughe d’informazioni, ricatti e così via… Come vede, siamo
organizzati. Prima di entrare, lei deve sapere che entra in una grande casa
molto esigente. In compenso, la controparte è cospicua, non tanto per lo
stipendio quanto per lo spirito di coesione, di fratellanza.»
«E se voglio dare le dimissioni?»
«Sarà sempre possibile, a condizione di rispettare
gli accordi presi. Lei comincia al livello più basso; se le sue capacità si
dimostreranno all’altezza, la sua posizione migliorerà, ma anche le sue
responsabilità aumenteranno. Se raggiungerà posti importanti, sarà poco
probabile che desidererà lasciarci, quindi è un’eventualità ipotetica: è
possibile, ma poco probabile…»
«Lo credo anch’io», disse Nora firmando in fondo
alla pagina.
«Anche il luogo e la data… Bene. Questo è il suo
esemplare, questo è il nostro. Benvenuta nella Blue Star!» disse lo Zio Josef
mentre tendeva la mano chinandosi sopra la larga scrivania.
«Grazie», disse Nora ricambiando l’energica
stretta di mano.
«Signora Feldman, le presento Nora, la nostra
nuova stagiaire. Per cominciare,
provveda a un vestiario dignitoso», aggiunse lo Zio mentre immaginava quanto un
vestito elegante avrebbe trasformato la ragazzina in giovane “donna in
carriera”.
«Tailleur
Chanel?» chiese la Signora Feldman.
«Per l’ufficio, Chanel. Per la sera, qualcosa di
più seducente. Quel New Look di Dior mi pare adatto. “Vitino di vespa”, gonne
allungate, linea arrotondata alle spalle… Alla sua età, può permettersela.
Approfittiamo fin quando si può.»
«La nostra casa ha un’immagine da difendere»,
disse la Signora Feldman mentre si avviavano nel dedalo di scale, uffici e
salotti. «Le public relations sono
capitali. In più, è uno scambio di buoni procedimenti: noi siamo clienti presso
i nostri clienti che spesso sono anche amici o parenti. Faremo una visitina dalla
parte della 5th Avenue.
Mi chiami Nadia; sono certa che lavoreremo bene insieme…»
Sembrava tutto così semplice, ma non lo era affatto. Ogni mattina, Nora era
in ufficio alle 08.00 precise. Il pomeriggio lo passava a scuola e di sera
nella sua camera faceva i compiti, studiava le lezioni e si esercitava con una
piccola macchina per scrivere. Progressivamente, adottò il ritmo della famiglia
Levi, sia in ufficio sia in casa, partecipando ai pasti, all’osservanza del
Sabbath, alla celebrazione delle feste e a tutti gli altri avvenimenti. Finì
addirittura per trascurare la chiesa cattolica e la scuola della domenica. Non
che avesse l’intenzione di cambiare religione, ma si era semplicemente
integrata. Non aveva mai avuto una famiglia come quella.
Una sera, la famiglia era seduta a tavola per la cena. Gli uomini portavano
la Kippah, la menorah splendeva, lo Zio aveva detto le preghiere,
le donne avevano disposto i cibi sui piatti in modo veramente artistico, ma
Nora pareva assente e, invece di mangiare col suo solito appetito, piluccava in
modo distratto.
«Nora, un penny per i suoi pensieri!» disse
la Zia Rachele.
Nora arrossì, poi mormorò: «Non so se posso
permettermi una domanda impertinente…»
«Sentiamo…» disse lo Zio, interessato e divertito.
«Ecco: prima di vivere con voi, io non sapevo
nemmeno che esistessero gli Ebrei. Adesso, mi vengono tante domande…»
«Meno male», disse la Zia Rachele. «Questo
significa che vivi davvero con noi. Non è scritto nel vostro Nuovo Testamento
“Chiedi e ti verrà risposto?”»
«Non lo so tanto bene, ma credo di sì…»
«Allora, non aver paura; chiedi e se possiamo
rispondere…»
A questo punto, Nora era al centro dell’attenzione
e rifletté intensamente per formulare la sua domanda il più chiaramente
possibile, poi, in un sol soffio, disse: «Come mai tutti gli Ebrei sono
diamantari?»
Prima ci fu un silenzio allibito e poi tutti
scoppiarono a ridere, mentre Nora si nascondeva dietro al suo tovagliolo perché
pensava di aver detto uno sproposito.
«Cara Nora», disse finalmente Zio Josef. «Lei è
veramente una cara ragazza. La sua spontaneità e la sua semplicità sono prova
di un’onestà che oggi s’incontra di rado… La risposta è semplice. Un nostro
amico, un ottimo violinista che si chiama Jehudi Menuhin, quando gli si chiede
perché ha scelto di suonare il violino risponde: “Provate voi, da Ebrei, a
scappare per tutta l’Europa con un pianoforte sotto il braccio!” Per i
diamanti, il principio è lo stesso. Per molti secoli, agli Ebrei è stato
vietato di esercitare la maggior parte delle professioni. Perdipiù, venivano
perseguitati e quindi dovevano sempre essere pronti a scappare. I diamanti sono
piccoli; pesano poco, ma valgono tanto. Non potevano scappare con un condominio
in tasca, ma potevano scappare coi diamanti in saccoccia…»
«Non capisco. Perché erano perseguitati?»
«Se vuole una risposta laica, direi: la politica
vuole sempre un nemico o un capro espiatorio. Se accetta una risposta
filosofica e anche teologica, direi che gli Ebrei sono un popolo presuntuoso,
vanitoso e ne pagano il prezzo.»
«Perché vanitoso?» chiese Nora meravigliata.
Difatti, nella famiglia Levi, tutti erano semplici e vestiti normalissimamente.
«Il popolo ebraico si chiama anche popolo d’Israel
e sa che cosa significa “Israel”? È qui che giace il nocciolo di tutta la
nostra storia! “Israel” significa “quello che combatte contro Dio”. Allora,
capisce, ci vuole un bel coraggio per combattere contro Dio… Ogni tanto Dio le
prende, ma dopo le dà indietro e alla sua misura… Perciò, quando le prendiamo,
fa molto male… Ma forse, il mio discorso è un po’ arido per una “gentile”…»
«Nora», intervenne Zia Rachele. «Se le interessa,
le racconterò la storia di Rachele, di Lea e di Giacobbe. Almeno avrà una
versione onesta: i maschi riescono sempre a presentare le cose a loro favore.
Invece non è così. L’importante sono le donne…»
Scoppiarono proteste maschili e approvazioni
femminili.
«Non capisco», insistette Nora. «Perché gli Ebrei
sono perseguitati?»
«Perché…», disse lo Zio. «Già, perché? Senz’altro
anche perché i cristiani accusano gli Ebrei di aver ucciso Gesù… Ma non è vero:
quelli che hanno ucciso Gesù, non sono gli Ebrei, ma i soldati romani.»
Per Nora, era troppo, non aveva mai sentito, né
pensato a queste strane controversie, ma fu così che cominciò a imparare le
belle storie raccontate nella Torah.
Quando i figli della casa erano in vacanza, Nora li accompagnava al cinema
e discutevano le sceneggiature, i significati e i simboli. Nora imparò a
difendere le sue idee davanti a Jona e soprattutto Sara, che era senza pietà. Ogni
tanto, erano invitati ai balli e Nora imparò a ballare. Ariel seguiva i
concerti e Nora lo accompagnava e scoprì chi fossero Bach, Brahms, Beethoven e
tutti gli altri. Poi diventarono habitués
di un locale alternativo nel quale s’incontravano tutte le razze e tutti i
colori che suonavano jazz di avanguardia. Erano notti impegnative; la musica
trasportava l’anima, il consumo di sigarette era eccessivo e l’alcol
abbondante. Alla mattina seguente, si aveva la tosse e il mal di testa, ma che
esperienze!
1948, prosegue.
Poi arrivò la primavera, il bel tempo, le passeggiate col cane e i picnic
in campagna.
Durante le cene, si parlava delle notizie lette
nei giornali o ascoltate alla radio e dei servizi diffusi dalla televisione. Si
parlava anche di politica e si discuteva a lungo la risoluzione dell’Assemblea
Generale dell’ONU sulla Palestina. Il 14 maggio 1948, arrivò la grande notizia:
Israele fu creato ufficialmente e David Ben-Gurion dirigeva il governo
provvisorio. Ci si rallegrò con misura perché, appena nato, il giovane stato fu
attaccato dai suoi vicini arabi. Di nuovo, la guerra e le discussioni: Ariel
coi suoi scrupoli di coscienza, i veterani con le loro proposte di costruire le
basi militari e allargare il territorio del paese che avevano sognato per
decenni. Dei giovani esaltati partivano per combattere o arruolarsi nell’Irgun,
che raggruppava “i terroristi ebrei”, o nella Haganah, l’organizzazione
militare che si opponeva al terrorismo arabo.
«Non ci sarà mai pace», ripeteva Ariel.
«Non ci sarà pace fin quando non otterremo confini
naturali sicuri e difendibili… Quando saremo saldamente ancorati ci sarà pace
senza dubbio, perché saremo irremovibili e le nostre capacità faranno di noi
una potenza economica di primo piano», rispondevano gli altri.
«Ma la violenza…» diceva Ariel come in un lamento.
«Il problema non è la violenza», rispose lo zio
Josef «Bensì quanto capita a coloro che praticano la non violenza… Quanti
milioni di Ebrei sono finiti nello sterminio? E il grandissimo Mahatma Gandhi,
dopo tutto quello che ha fatto per l’India e per il mondo… È morto assassinato
da un suo connazionale il 30 gennaio scorso. Il dramma è l’essere umano stesso
che negli ultimi 10.000 anni non ha cambiato uno iota del suo comportamento: è
rimasto al livello della legge del taglione e del si vis pacem para bellum…[7]»
«Ma c’è altro», intervenne uno degli ospiti.
«L’odio tra Arabi e Giudei è una storia vecchia…»
«Sentiamo», disse Jona e tutti fecero silenzio.
«Ecco: Abramo era sposato con Sara, ma Sara non poteva
avere figli, allora diede la sua serva egiziana Agar ad Abramo perché potesse
avere un erede. Agar rimase incinta. Allora Dio intervenne perché quando gli
dèi vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere… Sara aveva tanto pregato
per avere un figlio che adesso… Beh, rimase incinta pure lei… Prima fu felice,
ma poi le vennero i dubbi. E vide che tra i due fratellastri sarebbero nati
gelosie e conflitti. Quindi chiese ad Abramo di allontanare Agar e suo figlio
Ismaele, i quali furono esiliati, lontano, nella penisola arabica. Cioè, il
diritto del primogenito Ismaele fu calpestato a favore del secondogenito,
Isacco… Ismaele diventò il padre degli Arabi, mentre Isacco diventò Israele, il
padre dei Giudei, e tra i due uomini e i loro popoli nacque un rancore
insanabile… Difatti, Ismaele fu derubato dal suo diritto di primogenitura.»
«Ma no!» esclamò Jona. «Non faremo mica delle
guerre per una questione di adulterio di cinque mille anni fa…»
«Ci fu anche l’ultima guerra, durante la quale gli
Arabi si sono schierati dalla parte di Hitler formando l’asse
Berlino-Roma-Gerusalemme-Tokyo» continuò l’esperto di storia. «Speravano che
quest’alleanza avrebbe spazzato via gli Ebrei. Invece, gli Ebrei della
Palestina si sono arruolati nell’ottava armata inglese, formando la Jewish
Brigade, nella quale hanno imparato le basi del Tsahal, il loro
attuale esercito… In più, visto che gli Arabi fanno parte dei “perdenti”, il
loro territorio è bottino di guerra… Esattamente come l’Alsazia e la Lorena in
Francia o i “Cantoni Riscattati” sul confine tra Germania e Belgio.»
Seguirono il silenzio e la consapevolezza che la
soluzione non era affatto a portata di mano.
1950
Il 2 gennaio 1950, fu una data importante per Nora. Dopo due anni di scuola
e di apprendistato, aveva ottenuto i suoi primi diplomi. Scriveva a macchina,
prendeva nota in stenografia, aveva assimilato l’inglese e maneggiava le due
lingue senza batter ciglio.
«Avevi ragione», disse lo Zio Josef ad Ariel.
«Questa ragazza è molto sveglia e intelligente. È un buon acquisto; tra poco
potrà esserci veramente utile.»
Quel 2 di gennaio, Nora entrò a far parte
pienamente del personale della Blue Star e, alle 08.00, prese possesso del suo
ufficio. Non era grande, ma era suo e completo di telefono, macchina da
scrivere, scrivania moderna e armadi pieni di archivi e incarti che aveva
imparato a maneggiare senza esitazione.
Ora assisteva a riunioni importanti, prendeva
appunti e redigeva verbali e rapporti. Era anche capace di camminare coi tacchi
alti, utilizzare tutte le posate a tavola e ballare il valzer. Nora aveva
vent’anni, era pronta a entrare nel grande gioco della vita e iniziò a
percepire uno stipendio dignitoso.
«Devo mandare dei soldi», disse Nora al contabile.
«In modo anonimo e non da New York, ma dalla California.»
«Da quale città?»
«Saint Luis Obispo.»
Un giorno, decise di chiedere la cittadinanza americana.
«Ci ho pensato anch’io», disse Zio Josef. «Ma
forse sarebbe un peccato perdere il tuo passaporto svizzero. Ariel ha ancora il
suo passaporto belga, io ho quello americano. Non si sa mai, forse è più
prudente mantenere diverse possibilità. Se per te non è importante, ti
chiederei di rimandare…»
Non era importante e Nora rimandò. Sì, era vero;
non si poteva sapere come le cose sarebbero evolute. Il Presidente Truman aveva
mandato l’esercito in Corea e le guerre proseguivano, anche in Indocina e la
Cina stava per invadere il Tibet.
«Perché c’è sempre la guerra?» chiese Nora.
«Ah!» disse Zio Josef con un sospiro. «È un
cerchio infernale: esistono le fabbriche che producono armi, quindi si devono
vendere e ci vogliono guerre… Non si può chiudere quelle fabbriche perché
decine di migliaia di persone perderebbero il posto di lavoro e, oltre al
commercio delle armi ufficiale, c’è quello di contrabbando, e più ci sono
mercati neri, più ci sono trafficanti e guadagni, ecc. Poi questi soldi sporchi
vengono re-investiti in altri affari torbidi e così non si arriva mai a fermare
le guerre… Il mondo della malavita è senza limiti…»
«E tutto sempre per i soldi», disse Nora
pensierosamente.
«Sì, tutto per i soldi, cioè il potere… Sarebbe
così semplice se gli esseri umani potessero vivere in pace. In Israele, gli
Ebrei potrebbero portare la loro organizzazione, la loro tecnologia. Gli Arabi
potrebbero collaborare e beneficiarne, e invece no… Spendono la maggior parte
delle energie a combattersi a vicenda.»
«Un giorno», disse Ariel. «Un giorno, saranno
obbligati ad andare d’accordo!»
«È sempre il cittadino normale che paga», disse
Nora.
«Figli miei!» disse lo Zio Josef rivolgendosi a
tutti i presenti con un sospiro. «È importante che voi capiate come funziona il
sistema. I “cittadini normali” sono un branco di pecore. Non è un gruppo di
individui intelligenti e colti che ragionano con la propria testa; è un branco
che ascolta chi grida più forte, senza nessun senso critico. La stampa scritta,
la radio, la televisione sono strumenti del potere per imporre la sua volontà.
Chi governa? I presidenti e i re non sono niente; sono dei burattini che fanno public relations per i gruppi di
pressione che hanno il potere in mano: le lobby. Lobby dei trasportatori, delle
telecomunicazioni, delle miniere, dei pozzi di petrolio, dell’energia nucleare,
dei costruttori di automobili… Se una di queste lobby ferma la sua attività, il
paese è in ginocchio, quindi loro dettano le loro esigenze. Il branco di pecore
segue e il presidente balla a seconda della musica che fischiano gli altri… E
se non la capisce con le buone, la capirà con le cattive e, alla peggio, con
una pallottola ben piazzata, come successe al povero Lincoln.»
«Ma la democrazia?»
«Purtroppo, la democrazia è un’utopia nata,
vissuta e morta sull’Areopago di Atene nel tempo della sua gloria classica. In
pratica, il governo del popolo è un’illusione. Il popolo è ignorante e non è in
grado di governare. È triste, ma è così. Il popolo dà il suo voto al politico
più furbo, quello che ha il look più seducente, non al miglior tecnico o
alla persona più onesta. La persona onesta non può entrare in politica, perché
in partenza dipende da compromessi, mercati, accordi. Ogni giorno vengono
denunciate corruzioni, ma ciò è parte della lotta per il potere».
«È troppo deludente», disse Ariel.
«Sì, è deludente ed è per questo che si diventa
cinici. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo combattere ad armi pari. Meglio
ancora se abbiamo armi superiori. È anche per questo che invecchiando ci si
ritira dalla mischia. Si diventa disgustati. Si cerca la consolazione nella
buona vecchia Torah, nella quale cinquemila anni fa avevano già capito tutto,
scritto tutto, spiegato tutto, e si va incontro alla morte come a un sollievo…
Quando si è giovani, è giusto lottare per difendere gli ideali, altrimenti la
vita non avrebbe nessun senso… Ma per ognuno di noi, viene il giorno in cui si
capisce che tutto è illusione.»
«Anche per te, Zio?»
«Certo. Anche per me. È per questo che la mia
unica preoccupazione non è la ricchezza, o il potere, o la politica; è solo e
unicamente la felicità della mia famiglia e del mio popolo.»
«Israele?»
«Israele…»
3. Ariel
1953
Ariel passava il più del suo tempo col violoncello. Una sera, durante la
cena, ammise che non aveva il senso degli affari e chiese di poter allentare i
suoi rapporti con la Blue Star.
«Un artista in famiglia è una benedizione», disse
Zia Rachele sorridendo con indulgenza. «Davide da pastorello è diventato
cantautore; suonava l’arpa… Eppure, anche lui ha fatto una carriera
interessante visto che è diventato il più grande Re della Storia».
«Non ci sono mestieri stolti, c’è solo gente
stolta», sentenziò Zio Josef alzando l’indice. «Tuttavia, la tua andatura
amatoriale non mi piace. O t’impegni in ufficio, o t’impegni seriamente con la
musica.»
Ariel cominciò a frequentare assiduamente un
maestro di musica privato. Iniziò a seguire le lezioni all’accademia di musica
e cominciò a suonare da professionista in un’orchestra sinfonica. Poi
arrivarono gli inviti a suonare come solista nei concerti organizzati da amici,
conoscenti, comunità ebraiche sparse un po’ ovunque per gli Stati Uniti. Il più
delle volte, i concerti erano organizzati a scopo di beneficenza: le raccolte
di fondi erano destinate alla costruzione di scuole, di ospedali e di altre
opere sociali in Israele, principalmente nei kibbùtz.
Nora lo accompagnava, si occupava dell’aspetto
burocratico degli spostamenti: prenotazioni dei biglietti aerei, pernottamento
negli alberghi, ripetizioni e concerti. Ogni sera, redigeva un fedele resoconto
per lo Zio Josef, che seguiva l’evolversi della situazione con molta attenzione.
1954
A New York, l’America-Israel Public Affairs Committee, la lobby
ebraica ufficiale, era diventata molto attiva.
Così arrivò l’invito per un ciclo di concerti nei kibbùtz
in Israele.
«Non posso», disse Ariel. «Sono già stato in
Israele. Non ce la faccio…»
«Nessuno ti chiede di rimanere o di arruolarti
nell’Irgun o nella Haganah… La musica è il messaggio di pace e di
bellezza per eccellenza. Credo che sia il minimo che tu possa fare per il tuo
popolo e per ricambiare il fatto che ti tratto come un figlio», disse Zio Josef
strizzando le sopracciglia. «Forse tu non lo vedi, ma io sono fiero di te e
sono fiero che tu sia invitato in Israele. Poi, Nora andrà con te, quindi sarà
come una vacanza.»
«Io non ho “un popolo”…»
«Ah, tu non avresti “un popolo”? Devo ricordarti
che la famiglia Levi esiste da cinquemila anni? I nobilucci europei sono
orgogliosi quando hanno un antenato che ha partecipato alle crociate. Il tuo
antenato, invece, era nipotino d’Abramo e bisnonno di Mosè… Perché Mosè di
parentela si chiamava Levi, come te… Non ti sembra di fare un po’ lo
schizzinoso? Se credi di non aver un popolo, almeno la famiglia non puoi
rinnegarla, perché chi sono i Levi lo sanno anche i paracarri… Insomma, mi
domando cosa vorresti di più…»
«E poi, Zio, un ciclo di concerti non è uno
scherzo. Ci vuole una preparazione…»
«Ma come? Non è quello che stai facendo da anni? E
poi non si tratta di cose complicate; non servono concerti con orchestre
sinfoniche di centocinquanta musicisti, ci vogliono delle cosette semplici,
quelle piccole sonate di Schubert o Schumann, con un banale accompagnamento del
pianoforte. Non dimenticare, che farai una tournée in campagna, che suonerai
nelle scuole, nei refettori, così, alla buona…»
«Ma Zio», esclamò Ariel disperato. «Quelle non
sono ‘”banali, semplici, piccole cosette”, quelle sono opere tra le più
difficili del repertorio, soprattutto perché se suoni da solo con un solo
accompagnatore, se non sei assolutamente perfetto, sei osceno. Non c’è
alternativa, non hai nessun mezzo per nascondere o camuffare le imperfezioni…
Sono i pezzi più esigenti.»
«Allora», disse Zio Josef alzando la mano per far
intendere che il discorso era chiuso. «Cerca di essere perfetto. Non saprei
cosa dirti di più. Sai cosa devi fare: arrangiati… So che negli ultimi sei mesi
ti sei accanito su queste fantasie di Schumann. Non vedo perché non dovresti
essere capace di suonarle in pubblico. O fai solo finta di studiare?»
«Ma non ho nemmeno un accompagnatore. Ci vuole un
pianista che conosca queste partiture, con cui io vada d’accordo, con cui abbia
feeling. Zio, questa è arte, non
traffico da bottega. Fosse pure di diamanti…»
«Tieni presente che comunque la bottega dei diamanti
paga il pane che mangiano gli artisti che se lo meritano, ma non paga un solo shekel
per i lazzaroni… Per quanto riguarda l’accompagnatore, credi proprio che in
Israele non ci siano musicisti?»
E qui il discorso si chiuse, con un grande sospiro
da ambedue le parti.
1955
Ariel e Nora partirono per Israele.
A Tel Aviv, furono accolti e condotti al loro
albergo da un signore che sicuramente conosceva bene lo Zio Josef, perché
subito chiese ad Ariel: «Come sta la vecchia volpe?»
Appena istallati nelle loro camere, furono
chiamati nella hall.
«Hallo, Arielevi!» esclamò una specie di gnomo,
che si precipitò verso Ariel. «Sono Samuel Pinkerstern. Mi chiami pure Pinki!
Sono il suo pianista…»
Ariel prese un colpo; questo era il colmo del
contrattempo… Non questo nanerottolo, no! Nora guardò lo gnomo, sorpresa, e
balbettò un maldestro “piacere” mentre tendeva una mano incerta. Di piacere
sicuramente non ce n’era; anzi, l’incontro sapeva di catastrofe… Chissà da dove
era saltata fuori questa disgrazia della natura…
Samuel Pinkerstern misurava un metro e cinquanta,
aveva la testa grossa e portava una kippah troppo piccola, di color rosa
come le bretelle dalle quali pendevano dei jeans troppo larghi e completamente
sfilacciati. Su quella testa mostruosa penzolavano occhialini piccolissimi, con
lenti spesse come fondi di bottiglia, dietro alle quali non sembrava nemmeno ci
fossero degli occhi. Sicuramente non si era rasato da parecchi giorni e aveva
enormi mani pelose, come zampe di tarantola… Dai sandali rudimentali, uscivano
piedi sporchi tanto tra le dita che sotto le unghie.
«Santo Cielo!» pensò Ariel. «Questo è sabotaggio!
Chi mi fa questo brutto scherzo? Queste gambette da girino non arrivano nemmeno
ai pedali del pianoforte…»
Imbarazzati, invitarono il loro “pianista” a
sedersi sulla terrazza sotto gli ombrelloni e le altissime palme. Un cameriere
portò un vassoio. Pinki diede un’occhiata e subito insistette: «Avevo chiesto i
dolci alla crema di pistacchio. Mai il tè senza il pistacchio!» E, rivolgendosi
a Nora, aggiunse: «Se non c’è il pistacchio, vado in ipoglicemia e allora non
capisco più niente.»
Bevvero il tè. Pinki era volubile ed entusiasta,
mentre Ariel e Nora non sapevano come comportarsi. Finalmente, presero
appuntamento per iniziare le prove.
«Perfetto», disse Pinki. «Dopodomani cominciamo la
tournée; domani abbiamo tutto il tempo per provare. In giornata fa troppo
caldo. Diciamo… Domani mattina, dalle quattro alle dieci. Poi possiamo fare
colazione, un tuffo in piscina… Non siete qua in visita turistica, quindi
niente musei. Una piccola siesta e si riprende alle 16.00 fino a quando
vogliamo, anche tutta la notte… Di notte, si lavora meglio: fa meno caldo, c’è
meno rumore, e poi soffia lo Spirito… Sì, ci troviamo qua. Nello scantinato c’è
una saletta…»
Ariel e Nora erano costernati e non riuscirono
nemmeno a protestare.
«Devo parlare col Direttore!» disse Ariel alla reception.
«Eccomi», rispose un signore dall’apparenza
assolutamente francese.
«Signor Direttore, lei conosce un pianista dal
nome Samuel Pinkerstern?» e spiegò le sue inquietudini.
«Di musica non m’intendo molto, ma è un nome che
si sente… E so che la saletta è stata riservata per domattina alle ore 3:45… Se
ci fossero problemi, non esiti a contattarmi. Siamo a sua disposizione…»
«Se questo è uno scherzo dello Zio», disse Ariel a
Nora. «Non metterò mai più un piede a New York».
Anche Nora era imbarazzata.
Alle tre 03.00 della mattina seguente, il telefono squillò nella camera di
Ariel: «Ciao, Arielevi, sono Pinki. Dormi ancora? Con questa bellissima
giornata? Non hai ancora aperto le finestre, dai, vieni giù che ci tuffiamo in
piscina invece di fare la doccia. L’acqua è deliziosamente ghiacciata.»
Ariel si arrese. Per lui, l’acqua ghiacciata non
era mai nemmeno stata concepibile! Ma qui non aveva via di scampo e si lasciò
trascinare sul bordo della piscina. Le alte palme fremevano nella brezza. Il
cielo era stellato come lapislazzuli. Un usignolo canticchiava per conto suo.
La somma degli odori della notte - fiori, piante, prato verde bagnato dalla
girandola e terra umida - si mescolava al soffio che veniva dal mare, con una
sensualità corposa e inebriante.
Pinki, in slip da bagno rosa, aveva veramente un
fisico da girino. Povero diavolo, faceva pietà.
«È un momento magico», disse Ariel per avviare
gentilmente la conversazione.
«Lo sapevo, io, che voi poveri topi metropolitani
vi perdete la parte più bella della vita in quei letti troppo caldi, in quelle
camere troppo chiuse… La Vita è a quest’ora… La Vita è così poca! Ci è dato
così poco tempo da vivere! Quel tempo è così prezioso… Ariel, lo senti quanto
quel tempo che ci è dato è breve e non rimpiazzabile, così straordinario ed
effimero… Non vorrei mai dormire, perché è tutto tempo perso…»
Pinki si tuffò e Ariel lo seguì. Lo shock fu
brutale... L’acqua era fredda come lo spurgo del frigorifero. Non restava che
dibattersi freneticamente: una lunghezza di vasca dopo l’altra. Poi, di
sorpresa, Ariel sentì che Pinki aveva ragione: l’acqua era deliziosa. Si lasciò
cullare e sentì con immenso piacere le onde scorrere lungo le sue spalle, lungo
i suoi fianchi, lungo il suo corpo completamente rilassato, e allora cominciò a
sentirsi bene. Anzi, felice…
«Rendez-vous nella saletta tra due minuti!» gridò
Pinki mentre correva verso gli spogliatoi avvolto in un enorme asciugamano a
fiori hawaiani...
Le finestre della saletta si aprivano su un prato
verde dal quale saliva un intenso profumo di frangipani. Al centro, troneggiava
un pianoforte a coda Steinway, con il coperchio già alzato.
«Sul vassoio, c’è il termos di caffè e i cornetti alla francese…» disse Pinki.
Ariel stava accordando il violoncello e Pinki si
sedette sullo sgabello davanti al piano.
«Se non mangi, con che cosa cominciamo?» chiese
Pinki.
«Io avevo preparato le Sonate per Arpeggione
di Schubert…»
«Com’era già che cominciava?» chiese Pinki, mentre
iniziava a suonare la Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven.
Ariel,invece, iniziò l’Allegro moderato in
La minore.
«Ah già! Adesso mi ricordo…» disse Pinki.
«Ma la partitura, non ce l’hai?»
«No. Sai, con gli occhi che mi ritrovo, le
partiture mi stancano. Dopo mi viene il mal di testa…»
Quando Nora scese, sentì la musica dall’inizio del corridoio e si fermò
davanti alla porta per non interrompere. Poi le venne il dubbio che quei due
fossero scappati e avessero lasciato un disco. Non sembrava una prova; era un
lavoro fluido, senza esitazioni, che scorreva meravigliosamente.
Alla fine dell’Adagio,
la musica si fermò e Ariel gridò: «Dai che ci meritiamo un caffè!»
Nora capì che tutto era perfetto ed entrò. Pinki e
Ariel erano seduti sul davanzale della finestra con, in mano, le tazzine
fumanti e i cornetti.
«Porta il tuo violoncello sulla spiaggia», disse Pinki dopo la cena.
«Ma il piano?»
«M’arrangio…»
Ariel estrasse il violoncello dalla custodia mentre Pinki arrivava con la
fisarmonica appesa al collo.
«Ma non vorrai mica suonare Schumann con la
fisarmonica!» esclamò Ariel indignato.
«E perché no? Vuoi ben vedere che per le dita è la
migliore ginnastica… E non puoi pretendere che ti porti un piano a coda sulla
spiaggia…»
Quando Pinki ebbe accompagnato Ariel con la
fisarmonica nella Sonate in Re minore
di Debussy, non ci furono più dubbi: questo Pinki era davvero un fenomeno.
Partire con lui in tournée sarebbe stata una bella avventura!
«Toglimi una curiosità», chiese Nora. «Come mai
quei comportamenti stravaganti?»
«Non sono stravaganze», replicò Pinki fingendosi
offeso. «Piano o fisarmonica: è lo stesso strumento. La musica è la stessa».
Poi aggiunse con un tocco di amarezza e inclinando la sua testa da pipistrello,
grottesca sotto la kippah arancione: «Col fisico che mi ritrovo, nessuna donna
mi vuole… La fisarmonica me la stringo tra le braccia, la bacio, me la godo e
lei mi ripaga con orgasmi divini… Non le donne, ma la Musica! La mia Eumolpa… La mia fisarmonica si chiama
Eumolpa, che in greco significa “che canta bene”.»
«E non segui mai le partiture?»
«Sì, certo, quando studio per forza, ma una volta
che conosco i brani… Le partiture, con tutte quelle pagine da girare, non fanno
altro che imbrogliare. La musica non deve uscire da un quaderno; deve nascere
dall’anima.»
Pinki non suonava musica; la respirava, la
digeriva, la viveva come una normale funzione fisiologica.
Più tardi, il terzetto si sdraiò sulla sabbia ancora calda. La notte
silenziosa e la tranquilla risacca delle onde infondevano una pace propizia
alle confidenze.
«Sono sconvolto», disse Pinki in un mormorio, come
se stesse pensando a bassa voce. «Mi sconvolge… Noi stiamo lavorando
impegnandoci a tirare fuori il meglio di noi stessi e della nostra arte. Subito
dopo il concerto, c’è il silenzio: è tutto finito… È tutto effimero.
L’“impermanenza”… Non appena moriamo, veniamo cancellati, scompariamo
completamente. E questo da centinaia di secoli: gli uomini si succedono, gli
artisti si succedono e poi scompaiono nel nulla; non ne rimane più nessuna
traccia… Forse, qui su questa spiaggia, altri musicisti hanno suonato, cantato,
ballato. Amanti hanno fatto l’amore ed è scomparso tutto. Più nessun ricordo. Ariel,
domani anche noi moriremo e dopodomani saremo caduti nel nulla. Che senso ha?
Oggi, la mia musica è divina. Domani non c’è più niente. Che senso ha? La mia
vita che senso ha? Avrò provato a dare il meglio e comunque sarà inutile. È
tutto così assurdo. Combattiamo guerre che sono perse in anticipo, eppure
combattiamo ostinatamente. Se non fosse per la paura di danneggiare le mie
capacità tecniche, berrei litri di alcol, mi drogherei… Non so cosa farei per
non pensare all’assurdo della vita… Ariel, come fai tu a vivere?»
«Io», disse Ariel imbarazzato. «Io… non sono in
grado di rispondere. Ho visto la guerra, ho visto morire tanta gente
inutilmente… non so cosa dirti. La musica è il mio rifugio. La bellezza è la
forza che mi tiene in vita. Non c’è nient’altro. L’arte per l’arte, la bellezza
per la bellezza… Il resto è tutta illusione… Mio padre cercava Dio nella
bellezza dei diamanti. Forse anch’io cerco Dio nella bellezza della mia musica.
Non so, Pinki. So solo che noi non siamo felici perché, ovunque guardiamo,
vediamo solo tristezza e delusione. L’unica consolazione è nella bellezza di un
fiore, del tramonto, della musica. Ma anche nell’intensità di ore come queste.
Forse valeva la pena di vivere perché ci sei tu, e Nora, ed io… Come diceva il
poeta: “Parce que c’était lui, parce que c’était moi.[8]”
E poi basta. Tu leggi troppo Omar Khayyam…»
Il viaggio in Israele fu una grande rivelazione; soprattutto, lo fu la
scoperta dei kibbùtz.
Da quel pomeriggio in cui Ben-Gurion aveva fatto
la famosa dichiarazione: “Alla luce della legge naturale e della storia del
popolo ebraico, e in accordo con la risoluzione delle Nazioni Unite proclamiamo
la fondazione dello Stato ebraico in Palestina, che d’ora in poi si chiamerà
Medinat Yisrael.” erano trascorsi solo sette anni, ma i cambiamenti erano stati
sorprendenti.
Da tempo, era iniziata l’Aliya, cioè “la
raccolta degli esuli ebrei” di ogni tradizione e di ogni cultura che affluivano
in Israele da ogni parte del mondo con lo stesso scopo: tornare nella terra
degli antenati. Contava già più di un milione di persone con due principali
esigenze: nutrire e difendere la patria.
Quindi i rimpatriati si buttarono nell’agricoltura
intensiva, nell’organizzazione di un esercito più moderno ed efficiente e in
ogni attività in grado di produrre denaro per poter aumentare gli armamenti.
Ariel rimase stupito dall’energia, dall’entusiasmo
di questo popolo di contadini guerrieri: erano allegri, esaltati, razionali e
così efficaci… Qui vide applicato il moto dei libri di calcolo che aveva
seguito nella scuola elementare: vite et bien.
La vita nei kibbùtz
era entusiasmante: tutto si svolgeva in comunità. I bambini vivevano nella
scuola e nell’area a loro riservata, mentre i genitori svolgevano tutte le
attività a turno nella totale assenza della proprietà privata. La biancheria
veniva lavata, stirata e rammendata nella lavanderia comune. I pasti erano
preparati, serviti e consumati nella mensa comune. I malati erano curati
nell’infermeria. Tutti senza distinzione - uomini e donne - erano addestrati
sia alla coltura dei campi, sia alla difesa del territorio contro le incursioni
dei Palestinesi che continuavano a ribellarsi agli invasori.
Da millenni, la Palestina era rimasta uguale, ma
negli ultimi anni i coloni avevano trasformato tutto: le paludi venivano
prosciugate, il deserto veniva irrigato, dappertutto fiorivano gli alberi da
frutta e maturavano i campi di cereali. L’energia della disperazione
trasformava il paese in una verdeggiante fonte di vita e di speranza.
Alla sera, dopo il giorno estenuante, la pelle
ancora scottante dal sole e profumata dall’essenza delle arance raccolte, i chaverim, i compagni, si riunivano.
Mentre le guardie di turno perlustravano i confini con l’arma a tracolla, gli
altri cantavano e ballavano. Uomini e donne facevano cerchi attorno a un falò;
si tenevano stretti, le braccia appoggiate sulle spalle dei vicini. Lentamente,
eseguivano il passo della danza, vecchia come questa terra, e cantavano le
antiche ballate che si erano trasmesse di generazione in generazione, da
millenni e in tutti i punti più remoti della Diaspora.
Ora, erano ritornati alla Fonte. Riprendevano la
loro vita dopo una lunga parentesi di fatti gloriosi e drammi che nessuno
avrebbe dimenticato per impedire che ricominciassero. Tutti cantavano, tutti
suonavano gli strumenti più svariati e i giovani accompagnavano ogni attività
con le chitarre, che erano più numerose degli aratri.
Era l’ambiente che Gilbert Bécaud celebrava nella
sua canzone: “Le jour où la pluie viendra, nous serons toi et moi les
plus riches du monde. Les arbres pleurant de joie offriront dans leurs bras,
les plus beaux fruits du monde [9].” E Charles Aznavour, sulla musica di
Hava Nagila: “Dansons car dans les granges, le blé se range c’est le dernier jour des
moissons, dansons sans plus penser au mal qu’on s’est donné, dansons [10].”
Quando le famiglie si riunivano per la notte,
riposavano fiduciosamente, perché il domani sarebbe stato un nuovo giorno, duro
e importante come quello precedente, e perché sapevano che mentre loro
dormivano, i loro compagni vegliavano come avrebbero fatto loro stessi il
giorno seguente. Ognuno poteva contare su tutti gli altri.
«È impressionante», disse Nora ad Ariel una sera
dopo un concerto. «Non avrei mai immaginato che fosse così intenso. Anche nel
mio villaggio eravamo una comunità agricola, ma non era come qui. Credo che qui
tutto sia così forte perché è una questione di vita o di morte… È una vita al
limite.»
«Sì, è affascinante», rispose Ariel. «Se non ci
fossero i Palestinesi depredati dalla loro terra… Qui, sotto questo kibbùtz,
c’era un villaggio con famiglie che vivevano, con bambini che giocavano,
animali e campi… Noi siamo arrivati, abbiamo annientato tutto e ricostruito
sulle loro macerie la nostra prosperità… È sconvolgente, ma ammetto che questi
coloni sono straordinari. Anch’io sono entusiasta».
«Però», disse Nora. «Capisco che i Palestinesi
siano sconvolti dall’arrivo degli Ebrei. Se loro hanno continuato a vivere
nelle loro tribù come avevano fatto per millenni, saranno rimasti scioccati. È
come se fossero stati invasi da extraterrestri coi loro comportamenti e le
tecnologie moderne. Prova a immaginare: le donne che erano vestite e rinchiuse
nelle loro tradizioni musulmane e arabe, che bruscamente si scontrano con donne
emancipatissime che guidano i trattori, sono soldatesse, medici, insegnanti, si
vestono alla moda europea, addirittura con le gambe nude! Dev’essere stato
difficile da accettare. Se poi certe donne arabe avessero voluto modernizzarsi,
chissà quanti drammi e quanti scontri sarebbero scoppiati in queste famiglie
confrontate con un balzo così enorme nella storia.
Noi, nelle nostre valli ticinesi, abbiamo vissuto
qualcosa di simile. Le donne nel mio paese si vestivano ancora con gonne
lunghe, maniche lunghe, fazzoletto nero sulla testa… Poi sono arrivati i
forestieri che giravano in paese coi pantaloncini corti, le donne con
scollature e magari la schiena nuda… Per noi era scandaloso. Facevano il bagno
nel fiume e qualche volta anche nudi, uomini e donne insieme… Prendevano il
sole sdraiati nudi nel prato… Era semplicemente inconcepibile. Da noi, la gente
era molto povera e molte case sono state vendute agli svizzeri tedeschi, che
sono arrivati con dei mezzi e una mentalità che non avremmo mai immaginato. Ciò
ha provocato ostilità e gelosia. Loro erano i signori, con professioni
importanti e tanti soldi; noi eravamo cinquant’anni indietro. Facevamo da
servi: giardiniere, donna delle pulizie, operaio per riattare le case… Ci
comportavamo con deferenza, anzi, in modo servile. Mi ricordo una vicina di
casa che faceva il bucato e stirava per una famiglia. Quando parlava alla
signora, si chinava, dava del “voi”, la chiamava “Madame”. “Madame, ha dormito
bene?”, “Madame, ha bisogno di altro?”, “Se Madame ha bisogno, basta
chiamare…”. Era umiliante. Da noi, allora, non si chiedeva ai bambini quali
studi volessero fare, ma quale mestiere volessero imparare e le ragazze stavano
a casa a fare le casalinghe… Capisco i Palestinesi. Noi siamo stati un po’ come
loro.»
Ariel ripensò alla vita in Belgio prima della
guerra e rispose: «Anche da noi nelle campagne, la mentalità era antiquata,
mentre in città no. Certo che l’agricoltura importata qui dai coloni è una vera
rivoluzione, ma rischia di sconvolgere e distruggere gli equilibri ambientali,
i paesaggi, le bellezze naturali. Sarebbe drammatico. Se da una parte asciugare
le paludi è un efficace lotta contro le zanzare e le malattie, per non parlare
del recupero di terre fertili; dall’altra, le paludi sono biotopi
straordinariamente ricchi… Speriamo che riescano a rispettare un equilibrio. Lo
sai che le cicogne che nidificano in Alsazia fanno tappa qua durante le loro
migrazioni?»
Salvaguardare la bellezza della natura era un
compito importante e difficile.
Nel 1867, Marc Twain aveva scritto che la
Palestina era «un paese di desolazione, il cui suolo era comunque
sufficientemente ricco, ma completamente abbandonato ai rovi; una immensa
distesa triste e silenziosa…»
I concerti di Ariel diventarono di volta in volta più intensi, più
raccolti, più spirituali. Il pubblico ascoltava in un silenzio religioso. Egli
suonava in modo profetico e, quando gli applausi si scatenavano, si sentiva
trasportato da quella stessa forza che aveva condotto per millenni il suo
popolo attraverso il Mar Rosso, i deserti e la lotta costante tra il bene e il
male… Esecutore dalla tecnica eccellente, Ariel diventò un vero artista, perché
il calore ricevuto in queste comunità gli permise di suonare non solo con le
mani e il cervello, ma anche con il cuore.
La complicità con Pinki era magica e quasi ogni
concerto di musica classica finiva con follie e baraonde tipo jam sessions,
alle quali ciascun membro dal pubblico partecipava col proprio strumento. Si
suonava Glenn Miller, Django Reinhardt, Stéphane Grappelli e molti altri, fino
al momento in cui si sentiva sui minareti dei villaggi vicini il muezzin chiamare i fedeli per la
preghiera dell’alba. Ariel era irresistibile quando, imitando il contrabbasso,
suonava jazz sul violoncello. Questa musica non era eseguita unicamente per
professione, ma anche per divertimento e passione.
L’amicizia tra Pinki e Nora era cominciata con un “Nora, vuoi fare sesso
con me?” pronunciato all’improvviso, nel bel mezzo di una cena alla quale
partecipavano diverse personalità.
Il primo impatto produsse la costernazione
generale, ma Pinki insistette: «Io sono un Ebreo ortodosso, anzi
fondamentalista. Non posso nemmeno immaginare di chiedere a una gentile di
sposarmi, però l’idea del peccato mi stimola, m’eccita, m’esalta… Allora, lo
chiedo a tutte le donne che incontro, ma rarissimamente accettano… Solo quelle
perverse vogliono fare sesso con un mostro e quelle… Se sono perverse, io come
Ebreo ortodosso non posso sposarle. E poi, un mostro non può sposarsi, perché
dopo fa dei figli mostruosi pure loro. Io lo so cosa vuol dire essere
spaventoso… Non potrei infliggere questa tragedia ad altri.»
A questo punto, tutti pensarono che convenisse
ridere, ma Nora rimase impressionata, anzi profondamente commossa da quella
confessione, certo velata d’ironia, ma sincera comunque… Se non fosse stata
intimamente legata ad Ariel e alla sua famiglia, avrebbe sicuramente provato
per Pinki prima compassione e poi tenerezza. Intuiva che avrebbe potuto essere
meraviglioso…
«Pinki», disse Nora molto seriamente. «Ti amo
talmente intensamente che non è nemmeno necessario fare sesso. È come lo Zen e
il tiro all’arco: lo scopo ultimo è di non aver più bisogno né dell’arco, né del
bersaglio e nemmeno del tiro, perché ogni materialità è superata…»
«Eh, eh, eh», disse Ariel con una puntina di
gelosia che non riusciva a nascondere. «Ed io? Nora è la mia compagna!»
«Non te la meriti», disse Pinki senza indugio.
«Nora è una donna bella, intelligente, meravigliosa, e tu non sei che un
piagnucolone egoista e noioso. Non te la meriti!»
Ariel si guardò intorno con un grande sorriso,
come se avesse fatto una grande scoperta:
«Sì, hai ragione. Però io, Nora, me la tengo per
me lo stesso, e solo per me! Beh… Al limite, visto che ti voglio bene… Nora,
sei d’accordo che noi ci vogliamo bene tutti e tre?»
«A pensarci bene», disse Nora. «Voi siete due
opposti, due contrari… Io in mezzo sono la donna più amata e più viziata di
questo mondo…»
A questo punto, piantarono tutti gli invitati, si
alzarono, uscirono e corsero sulla spiaggia come impazziti, con urla
incoerenti, salti e piroette e finirono in una farandola completamente
euforica, che passò tra le tavole cogliendo al passaggio tutti gli altri invitati.
Quella sera, tra Ariel, Pinki e Nora, nacque un
legame di tenerezza, di gioia pazza e di stravaganza che fece di loro il trio
più sorprendente e forse anche più felice della sponda mediterranea del Medio
Oriente.
Da allora, Pinki non ebbe più nessun freno
nell’adulazione per il suo amore platonico e portò a Nora vassoi di dolci,
ceste di frutta, valanghe di fiori e Nora si lasciò galleggiare tra le premure
fredde e razionali di Ariel e le deliziose stravaganze di Pinki.
Non di rado andarono in giro sulle spiagge o nelle
stradette delle città tutti e tre a braccetto, con Nora in mezzo ai suoi due
spasimanti. In albergo, lasciavano detto: «Il terzetto è in trasferta…»
Per Pinki diventò il periodo più delizioso della
sua vita, perché sapeva di essere amato. Un giorno dichiarò solennemente: «Ho
capito il fondo del problema: contrariamente all’apparenza dei cognomi, Ariel,
tu devi essere di origine ashkenazita. Io invece sono un puro sefardita. Adesso
mi è tutto chiaro…»
Fu una tournée grandiosa. Nessuno si chiese per chi fosse stato più bello,
se per gli artisti o per gli ascoltatori, ma era proprio l’intensità della
comunione che aveva permesso di raggiungere quell’eccellenza radiosa e
quell’allegria.
Ariel si convinse che lo Zio Josef era davvero la
persona più saggia che avesse mai incontrato.
Quando furono seduti nell’aereo per tornare a New York, Ariel disse a Nora:
«È vero, è stata un’esperienza entusiasmante… Capisco i miei genitori e lo Zio
e i suoi amici… Ma non posso sopportare l’idea dei Palestinesi cacciati dai
loro villaggi… Dobbiamo fare qualcosa per aiutare a trovare una soluzione e
vivere tutti insieme, nella pace e nella tolleranza.»
«Anch’io devo dirti qualcosa», disse Nora. «Ti
ammiro, perché sei di un idealismo veramente disarmante…»
«Nora, noi due ci capiamo, facciamo una buona
squadra, lavoriamo bene insieme, stiamo bene insieme… Vuoi sposarmi?»
Nora lo guardò con sorpresa.
«Non è che non voglio sposarti, è che non voglio
rovinare il nostro team…»
«Ma io ti amo abbastanza per sposarti…»
«Anch’io ti voglio bene, ma è necessario sposarci?
Non possiamo andare avanti come facciamo già da diversi anni?»
«Non mi basta più. Voglio di più dalla vita, da
te, dalla nostra intesa…»
«Non c’è bisogno di un matrimonio per questo.
Almeno, non adesso…»
«Allora, vuoi essere almeno la mia fidanzata?
Voglio poter parlare di tutto questo in famiglia, coi nostri amici… Voglio che
il nostro rapporto sia chiaro e che tu non sia solamente la segretaria che
m’impedisce di fare pasticci con gli orari dei treni e il calendario dei
concerti.»
«D’accordo. Parliamone in famiglia…»
Poi, ognuno sprofondò nei propri ricordi, nelle
immagini che sarebbero rimaste per sempre nella loro memoria.
Nora ripensò a una giovane donna che era di
guardia sul confine di un kibbutz.
Lei aveva la pelle olivastra, i cappelli neri e i tratti del suo viso erano
decisamente orientali. Portava un foulard annodato sotto il mento, un pullover
grigio scuro con due strisce orizzontali di grigio più chiaro e una lunga gonna
di grossa tela scura. Quando camminava, si vedeva che calzava degli stivali.
Portava anche una collana di corallo rosso e in vita un grosso cinturone di
cuoio naturale, dal quale penzolavano da una parte un coltello e dall’altra una
pistola. Sopra la spalla sinistra, passava la bandoliera alla quale era appeso
il fucile mitragliatore che teneva saldamente in pugno con l’indice sul
grilletto.
Quella giovane e bella donna, che aveva un viso
dolcissimo, stava in cima a un rialzo del terreno, coi piedi piazzati
solidamente e l’equilibrio sicuro. Era pronta a scattare all’improvviso e a
sparare con decisione senza nemmeno dover mirare. Si vedeva che aveva una lunga
esperienza, che non avrebbe esitato, che sarebbe stata sicura di sé. Stava lì,
da sola, di guardia e scrutava la distesa di sabbia.
Era bella, era dolce, eppure era un guerriero
spietato. Nora era rimasta a osservarla. Lei non aveva fatto che un piccolo
cenno di saluto, poi aveva ripreso a scrutare il deserto come l’aquila
appollaiata su una roccia, pronta a piombare sulla sua preda.
Il deserto. Avevano sorvolato il deserto e i suoi
colori nello stesso tempo armoniosi e contrastanti di gialli, rossi e
arancioni, che si scontravano brutalmente col blu scuro del cielo e il turchese
del mare. Eppure, quello scontro brutale era armonioso. Sui picchi frastagliati
di lunghe ombre viola, troneggiavano le antiche fortezze come Masada, Gerico o
Herodium.
Il Monte Hermon era bianco di neve, la valle del
Giordano verdeggiante e, lungo le infinite spiagge, il mare smerlato da schiuma
bianca scorreva indifferente e fuori dal tempo.
Sì, le città, naturalmente: Gerusalemme, tutta blu
e nel suo cuore la cupola d’oro della moschea di Omar, ma anche Tel Aviv o
Haifa; anche le città storiche e tutti i monumenti lungo i quali camminava la Storia.
Sì, le città, ma soprattutto i deserti, la bellezza maestosa dei deserti e
l’incredibile sfida che l’agricoltura più moderna voleva impiantare proprio
nelle zone più aride e ostili.
Le immagini sfilavano, troppe, e ci sarebbe voluto
tanto tempo per lasciarle decantare e per poterle ricordare tranquillamente.
Sì, c’era tutto questo, ma c’era anche la gente. In quel piccolo paese, si
concentrava un campionario stravagante proveniente da ogni angolo remoto del
pianeta.
Era stata davvero un’esperienza straordinaria.
1955
«Ma dove siete stati?» esclamò Sara, che era venuta ad aspettarli
all’aeroporto. «Siete abbronzati, neri come Louis Armstrong… Cos’avete fatto?
Siete stati sulla spiaggia giorno e notte?»
«No», disse Nora ridendo. «Solo di giorno e non
solo sulle spiagge, ma anche negli uliveti, in cima agli aranci e nei campi di
meloni… Non sai cosa ti sei persa!»
«I campi di meloni?»
«Sì, cara. I campi di meloni, grossi come balene,
gialli come cupole di moschee… E in pieno deserto, con l’acqua riciclata dai
depuratori e con tubetti così fini che vanno a sgocciolare ai piedi di ogni
piantina senza che bisogni perdere tempo ad annaffiarle o che il sole asciughi
tre quarti dell’acqua… Apri il rubinetto centrale e l’acqua trasuda esattamente
nella quantità giusta per coltivare le angurie nel centro del Negev… Anzi, c’è
un timer che apre e chiude il rubinetto, preciso come un orologio svizzero.»
«Bugiarda», disse Sara lentamente, quasi
sottovoce, incredula.
Arrivarono a casa in tempo per fare una bella
doccia, vestirsi e scendere nella sala da pranzo, dove la famiglia li aspettava
e dove Chai li accolse con salti di gioia e abbaiamenti scatenati.
«Ecco i giramondi!» esclamò Zio Josef che li aveva
tenuti sotto stretto controllo grazie ai suoi amici israeliani, che da buoni
genitori abituati a controllare i propri figli avevano telefonato regolarmente
per raccontare come i novelli viaggiatori se la cavavano.
E mentre ci si abbracciava e ognuno prendeva
raggiungeva il suo posto intorno alla lunga tavola, l’agitazione di Sara sfociò
nell’eccitazione generale. Domande e risposte si accavallarono in una gioiosa
confusione.
«Papà, papà!» gridò Sara con tono mezzo
affermativo e mezzo interrogativo. «È vero che i meloni crescono nel deserto?»
«Solitamente no, ma devi sapere che gli Israeliani
sono dei tipi particolari. Hanno attaccato i problemi, anche quelli
dell’agricoltura, con razionalità e uso della scienza. Se tu volessi studiare
seriamente invece di passare le tue notti a scuotere il tuo cervello ai ritmi
negri, sapresti che qualunque cosa si può coltivare addirittura in provetta,
solamente con l’acqua e un cocktail appropriato di sostanze chimiche.»
«Oh! Daddy, lo sapevi! Sei geniale!»
«Ruffiana di una ruffiana», borbottò Jona. «Non
sei che una femmina perversa! Quando comincia così, è sicuro che ha qualcosa da
chiedere. E tu, papà, ci caschi sempre! È insopportabile!»
«Sei geloso», replicò Sara. «Brutto maschio!»
«Jona, è tua sorella!» disse la Zia.
«Sara, siamo a tavola… Ti prego…» insistette lo Zio.
«Daddy, lo sai che non è vero. Non voglio
chiedere niente, ma tu saresti contento se io andassi in Israele, vero Daddy?»
E nel silenzio che era piombato di colpo, la voce
ingenua di Sara disse molto chiaramente: anch’io voglio fare le vacanze in
Israele…»
Solo lo Zio Josef non fu sorpreso perché conosceva
bene sua figlia.
«Mia cara, se tu mi porti i voti massimi alla fine
dell’anno scolastico, ti prometto due mesi di vacanze in un kibbùtz di
quelli giusti che conosco io e dove alla sera non avrai più bisogno di swing…»
Tutti rimasero perplessi, perché nessuno capì se
fosse una ricompensa o la minaccia di un castigo esemplare.
«Anche noi avremmo una richiesta», si azzardò
Ariel. «Ecco, Nora ed io ci conosciamo da cinque anni e formiamo un team molto efficace.
Ho chiesto a Nora di sposarmi, ma lei ha detto di no. Adesso vorremmo il vostro
parere…»
Partirono le esclamazioni di meraviglia, di
entusiasmo, di approvazione.
Zia Rachele si era alzata e baciando Nora, le
disse nell’orecchio: «Noi ti amiamo, Nora. Se vuoi entrare nella nostra
famiglia, sei la benvenuta…»
«Non vorrei essere frainteso», insistette Ariel.
«Non siamo né esaltati né fuori di testa, ma mi sembra giusto nei confronti di
Nora: siamo sempre insieme, lavoriamo bene insieme e mi sembra onesto darle uno
statuto che riconosca la sua posizione in pubblico.»
«Hai ragione», disse Zio Josef. «Ma è Nora che
deve decidere.»
Pensierosa, Nora rispose: «Ecco, io voglio molto
bene ad Ariel. Non escludo il matrimonio, ma non subito. Siamo giovani e non voglio fermarmi sulla strada che abbiamo
appena imboccato, perché abbiamo tutti e due un grande progetto. Ariel ed io
abbiamo deciso di fare tutto quanto sarà nelle nostre possibilità per far sì
che Palestinesi e Israeliani riescano a vivere in armonia nella Terra
Promessa…»
«Gewald!»
esclamò Zio Josef. «Hai ascoltato la mia preghiera! Venite, figli miei. Questa
è la gioia più grande che avrei mai osato sperare… Sì, davanti a noi c’è
un’opera grandissima».
Fu la prima volta che Zio Josef si lasciò andare a
effusioni che di solito considerava indecenti.
«Propongo di festeggiare il vostro fidanzamento»,
disse la Zia. «Così lo annunceremo ai nostri amici e le cose saranno chiare. Il
fidanzamento non vi obbliga a sposarvi: avrete tutto il tempo per pensarci…»
La festa fu dignitosa e semplice, ristretta ai
membri della famiglia, con una cena accuratamente preparata da tutte le donne
della casa.
«Ariel», disse Zio Josef. «Oggi hai l’onore di
accendere le candele della menorah.
Spero che, per te, Nora e la vostra futura famiglia, la luce brilli anche nei
momenti più difficili della vostra vita.»
«Oh, Papà!» esclamò Sara con aria scherzosa.
«Basta, basta, sei troppo sentimentale. Ci fai piangere…» E andò al grammofono
per far partire un disco di Glenn Miller al massimo volume, gridando: «Ariel,
questo è per te! In the mood, lalalala la
in the mood, lalalala la!»
Mentre strappava Ariel dalla sua sedia e Jona
faceva lo stesso con Nora, si lanciarono in una specie di rock & roll
indiavolato.
«Terribili figli», disse Zio Josef scuotendo la
testa. «Terribili, senza rispetto per le tradizioni… Mia cara Rachele, posso
invitarti a partecipare a questo boogie-woogie?» I figli esterrefatti
fecero cerchio intorno ai genitori, che ancora non avevano dimenticato nulla
degli anni felici della loro gioventù. Tutti batterono le mani e cantarono in
coro il finale: «Lalalalala la lala lala wuuu wuu wuu wu…»
«Si può avere un momento di attenzione, in questo
manicomio?» chiese alla fine lo Zio Josef. «Tutti seduti, prima della torta!»
Poi, depositò due scatolette sulla tavola.
«Nora, dammi la tua mano sinistra…»
Nora si avvicinò un po’ imbarazzata. Lo Zio aprì
la scatoletta e ne estrasse un anello con un grosso diamante.
«Questo fidanzamento è abbastanza informale,
quindi sarò io a mettere al tuo dito quest’anello, in testimonianza del nostro
amore». E fece lo stesso con un anello molto più maschile, che infilò
all’annullare di Ariel.
«Questi sono due diamanti molto belli. Se guardate
bene, non sono bianchi, ma blu. Quasi viola… Sono diamanti scelti, tagliati e
levigati da mio fratello Simon, tuo padre. Sono bellissimi e diventeranno
preziosi quando il mondo avrà finalmente capito, quanto sono rari e luminosi.
Per Simon, i diamanti viola erano il massimo e vedrete che la storia gli darà
ragione. È facendo riferimento ai diamanti azzurri di Simon che la nostra
compagnia si chiama Blue Star. È anche, naturalmente, un riferimento alla
stella della bandiera israeliana… Naturalmente.»
«Oh!» disse Sara in un lamento degno di Broadway, come se stesse per svenire.
«Chissà quando mi fidanzerò…»
«Taci, stupida femmina», disse Jona. «Non avrai
mai diamanti, perché sarai sempre così stupida che mai nessuno vorrà fidanzarsi
con te, a parte un qualche negro cacofonico che non avrà nemmeno di che pagarti
la pizza… Figuriamoci i diamanti…»
Sara mostrò la lingua a suo fratello, che rincarò
la dose: «Per una ragazza di buona famiglia, già quasi maggiorenne… Che frana».
«Zitti! Zitti tutti!» disse Zia Rachele con
determinazione. «Rovinate il mio brindisi… Anch’io ho un regalo!» Estrasse
dalla sua tasca una catenina che ritraeva il simbolo Chai, che mise al
collo di Nora. Per Ariel, invece, c’era un paio di gemelli con lo stesso
simbolo della Vita.
“L’chajim! Alla Vita!» disse lo Zio Josef mentre tutti
alzavano le flûtes di champagne Dom
Perignon.
«Alle mie prossime vacanze a Gerusalemme», disse Sara.
Al ché, Jona aggiunse bruscamente: «Non è così che
si dice. Si dice “l’anno prossimo a Gerusalemme”. E speriamo che ti tengano lì
per sempre…»
Arrivarono lettere, cartoline e telegrammi di felicitazioni, mazzi di fiori
e regali. Pure in ufficio ci fu un’ovazione, poi la bicchierata e i brindisi.
Poi la vita riprese un corso sereno. Nora imperturbabile in ufficio, Ariel
sempre più trasportato dalla propria arte. Non mancarono un concerto. Spesso
Ariel e Nora accompagnarono Jona e Sara nei luoghi più strambi ad ascoltare
jazz e musica d’avanguardia. Visitarono mostre nelle quali non si capiva se gli
artisti stessero diventando matti o se la loro fosse semplicemente una presa in
giro.
Una cosa era certa: il quartetto si divertiva e,
più importante ancora, andavano tutti d’accordo. Jona e Sara proseguivano i
loro studi all’università e, un giorno, sarebbero diventati avvocati: Sara
estroversa e votata all’eccesso; Jona riservato e pensieroso, ma quando diceva
qualcosa, valeva la pena ascoltarlo.
La cena rimase il momento privilegiato durante il
quale la famiglia al completo si scambiava notizie e opinioni. Se lo Zio Josef
occupava il posto centrale nella Blue Star, la Zia Rachele era il perno non
solo della casa, ma anche della vita di tutta la famiglia.
1956
Ogni giorno portava la sua razione di avvenimenti e di preoccupazioni.
In Egitto, re Farouk era stato deposto e la nuova
Repubblica si era orientata decisamente verso l’Unione Sovietica e la sua
ideologia comunista. Mosca aveva proposto di finanziare la grande diga di
Assuan. Nasser decise la nazionalizzazione del Canale di Suez, provocando
l’intervento Franco-Britannico e un nuovo conflitto in Israele a causa del
blocco del golfo di Eilat, che era di importanza vitale.
Se ne parlò a tavola. Lo Zio Josef apparve
preoccupato e, una mattina, convocò Nora e Ariel nel suo ufficio.
Contrariamente al solito, si alzò a chiudere la porta, specificando con la
segretaria: «Signora Feldman, mi raccomando: due ore di silenzio, nessun
telefono. Non ci siamo per nessuno.»
«Ecco», disse mentre si sedeva dietro alla sua
scrivania, una grande struttura d’acciaio e di placche di cristallo concepita
dall’architetto Mies van den Rohe, che gli piaceva molto perché il cristallo
aveva la limpidezza del diamante. «Ecco, vi ho chiesto di venire per discutere
la situazione che ormai è, come sapete, disastrosa. Israele è al centro di una
minaccia continua, quindi ha un bisogno sempre crescente di denaro per
poter comperare delle armi… È terribile,
ma abbiamo deciso di far fronte al problema. Voi avevate detto che volevate
fare la vostra parte nella costruzione della pace. Sarà lungo e difficile, però
è giunto il momento in cui abbiamo bisogno del vostro aiuto ed è per questo che
siamo qui riuniti adesso. Prima di tutto, voglio essere sicuro che siate
d’accordo per entrare nella lotta».
«Certo», disse Ariel. «A condizione di tenere
conto delle nostre capacità».
«Regola numero uno», disse Zio Josef sorridendo.
«Esigere il massimo senza mai chiedere l’impossibile… Non temere. So che tu non
sei un guerriero, però voi due formate una coppia capace di vincere le
battaglie, senza che nessuno se ne accorga. Sei diventato un solista rinomato,
avete già viaggiato insieme. Inoltre, siete fidanzati. Nessuno si meraviglierà
dei vostri spostamenti in risposta agli inviti per concerti. Per di più, la
custodia del violoncello è sufficientemente vasta per contenere un doppio fondo.
Non provocherete nessun sospetto. Non dovrete fare altro che viaggiare da una
sala di concerto all’altra e lasciare la custodia nel camerino a disposizione
delle persone giuste, che sapranno dove guardare, cosa estrarre e cosa
inserire… Voi dovrete solamente non perdere la custodia e andare senza
discutere, né cercare di capire, dove vi sarà detto di andare. Il tutto sarà
coperto dalla raccolta di fondi a favore delle opere sociali nei kibbùtz che avete tanto apprezzato.»
«Nient’altro?» dubitò Ariel.
«Nient’altro… Meno farete, meglio sarà. Sarete la
coppia di fidanzati appassionati di musica e di opere buone…»
«Chi ne sarà al corrente?»
«Nessuno, a parte la gente che deve esserne al
corrente.»
«Servizi segreti?»
«È questo il segreto… Non chiedere. Meno sai, meno
puoi sbagliare. Accontentati di essere brillante, di essere il virtuoso che
tutti vogliono invitare e applaudire… Ci saranno feste e ricevimenti. Dovrete
essere sorridenti, disponibili, sempre con la motivazione che ogni dollaro
raccolto può salvare la vita di un bambino in un kibbùtz… In ogni città
avrete l’albergo riservato, il credito aperto, i negozi nei quali trovare
l’occorrente. La vostra tenuta dovrà essere dignitosa e classica: il tipico
stile concertista in tournée, con smoking e abiti lunghi e neri da sera… Niente
“ragazza col pullover”. State con Chanel di giorno e Dior di sera e non
sbaglierete mai. E poi, quando sarete a Parigi, ci sarà chi vi consiglierà.»
«Ci saranno persone a cui rivolgerci?»
«Sarete accolti da amici. Le vostre domande
troveranno la loro strada e riceverete le risposte. Evitate di telefonare,
perché i telefoni sono ascoltati da mezzo mondo, quindi pensate sempre che
parlare al telefono equivale a parlare col megafono dalla cima dell’Empire
State Building. Comportatevi sempre come se le vostre stanze fossero piene di
microfoni che vi registrano.»
«Stiamo per diventare agenti segreti?»
«No, ma in un certo senso, sì… Sappiate regolarvi
- keep cool in ogni circostanza.»
«Insomma», disse Nora. «Non dobbiamo fare
nient’altro che quello che facciamo da sempre».
«Esatto. Dovete solo essere brillanti. Siete
giovani e belli, avete una cultura come pochi; vi basta essere naturali per
essere brillanti. È la parola giusta…»
«Va bene.»
«Quando partiremo?»
«Partirete mercoledì per il Belgio.»
«Oh, Dio!» esclamò Ariel. «No, Zio, non il Belgio,
ti prego, tutti i ricordi…»
«Bisogna far fronte al nemico, non scappare. Fai
fronte alla sofferenza e vedrai che ti darà la forza…»
Così, Nora e Ariel s’imbarcarono su un enorme Super DC 6 della compagnia
aerea belga Sabena. Si sedettero nelle loro poltroncine in prima classe e
allacciarono le cinture. Uno dopo l’altro, i quattro enormi motori si accesero
e le eliche cominciarono a girare. Mentre il grosso aereo raggiungeva la sua
quota di crociera, le hostess cominciarono a circolare coi bicchieri di
champagne e gli omaggi della compagnia, tra i quali il tanto apprezzato
flaconcino di profumo Ma Griffe di Carven, avvolto in una frivolité
di vichy bianco e verde.
1956, continua.
La tournée in Europa cominciò col primo scalo a Melsbroek, l’aeroporto di
Bruxelles. Nel corridoio successivo agli uffici doganali, aspettava un signore
in livrea con, in mano, una lavagna sulla quale era scritto «Monsieur A. Levi».
Ariel si fermò.
«Credo che lei stia aspettando noi.»
Uscirono dall’aeroporto. Il tempo era soleggiato.
Una Citroën nera si avvicinò. Ariel e Nora si sedettero dietro e tennero
l’ingombrante violoncello sulle ginocchia.
«Per tutto il vostro soggiorno in Belgio, è
riservata una suite doppia nell’albergo Métropole. L’autista e la macchina sono
a vostra disposizione per i concerti, ma anche per spostamenti privati. Ecco un
incarto coi numeri telefonici e altri indirizzi utili. Siamo a vostra completa
disposizione. Basta chiamare.»
Bruxelles aveva conservato il suo charme.
Contrariamente ad altre grandi città, là non c’era niente di pacchiano; anzi,
era tutto semplice, solido e di buona qualità.
«Approfittate del paese fin quando è ancora
bello», disse malinconicamente il direttore dell’albergo. «Tra pochi anni,
anche qua, sarà tutto rovinato. Parlano di un nuovo aeroporto, vogliono
attirare a Bruxelles le sedi di organizzazioni internazionali, vogliono
costruire, costruire, costruire… Addirittura le autostrade in città! Qui, nella
Place de Brouckère, con la sua bellissima fontana… Vogliono spazzare via tutto,
in nome del progresso: strade, macchine… Il nostro albergo ha un’immagine, una
qualità. Potete immaginare la terrazza con le automobili che vi passano quasi
sotto le poltroncine? Il futuro è questo: la calata dei barbari.»
Nora e Ariel si sedettero nelle poltroncine di
vimini, presero un café filtre con un biscottino speculoos di
Dandoy e Ariel si sentì felice di essere tornato. Per tanti anni era stato
all’estero e ora era commosso; mai Bruxelles gli era apparsa così bella, così
calorosa.
«È strano», disse a Nora. «Qui mi sento a casa
mia… più che ad Anversa. Ad Anversa, ci sono troppi ricordi di guerra.»
Quella sera, andarono a spasso nelle stradette
della città vecchia. Incontrarono i
nomi che raccontavano la storia: Aux Armes de Bruxelles, La Bécasse, la Piazza
Grande con Le Roy d’Espagne e le birre rinomate in tutto il mondo, come la
Gueuse e quella dei padri Trappisti di Westvleteren.
«Non ce la faccio più», disse Nora. «Temo di
diventare ubriaca…»
Difatti, dormirono magnificamente.
Alle tre del mattino seguente, suonò il telefono.
«Pronto?» disse Ariel, inquieto e addormentato.
«Hallo Arielevi, dormiglione! Dai che ci facciamo
un jogging sulla Piazza Grande!»
«Pinki! Ma dove sei?»
«Nel corridoio davanti alla tua porta, col caffè e
i croissant…»
Ariel corse alla porta.
«Ma cosa ci fai qui?»
«Beh, sono qua per i concerti. Tu no?»
Quindi iniziò la tournée. Certi concerti erano previsti con l’orchestra
sinfonica; altri erano i meravigliosi duetti con Pinki, che per l’occasione
vestiva molto dignitosamente uno smoking elegantissimo e scarpette di cuoio
fine.
Dopo i concerti, c’erano ricevimenti e sempre
tanti fiori. Ariel era brillante come musicista, ma timido in società. Nora
aveva assimilato perfettamente il suo ruolo. Vestiva sempre lo stesso tipo di
abito da sera: un tubino nero che metteva in risalto la sua statura alta e
snella. Il più delle volte, era appena scollato, senza maniche, ma con lunghi
guanti che risalivano fino al gomito. Non portava gioielli e i suoi lunghi
capelli neri erano sempre ritenuti nella nuca da un catogan dello stesso
tessuto dei guanti. I tacchi alti a spillo completavano brillantemente
l’eleganza della sua silhouette.
Nora attirava gli sguardi, ma con una “destrezza
degna della più raffinata diplomazia” riusciva a mantenere Ariel in primo
piano. Lei era lo scrigno nel quale mettere in risalto l’arte di Ariel.
A Bruxelles successe uno strano, piccolo incidente.
Mentre passeggiavano nel centro città, Nora vide
in un negozio un paio di guanti che le piacevano. Quando entrarono, udirono la
fine della conversazione che la venditrice stava avendo con un’altra donna: «…si le commerce va mal, c’est à cause des
Juifs…»[11]
«Ces sales
Juifs[12]»
e, rivolgendosi a Nora, «n’est-ce pas, Madame?»
Ariel fu imbarazzato, ma Nora rispose senza batter
ciglio: «La capisco, signora, perché sono Ebrea anch’io».
Salutò e uscì dal negozio.
«È incredibile», disse Ariel sconvolto. «Tanti
anni dopo la guerra e dopo tutto quanto è successo e in una città
internazionale come Bruxelles… Com’è possibile che ci sia ancora gente tanto
ignorante?»
«Te lo spiego io», ripose Nora. «Lo scrittore
francese Ernest Renan scrisse che “La bêtise humaine donne une idée de
l’infini”[13].
Quindi, non prendertela. È normale, anche se davvero triste… Questo conferma
che gli amici dello Zio Josef hanno ragione.»
«Grazie», mormorò Ariel guardando Nora con
gratitudine, incapace di dirle di più, non tanto per l’offesa personale, quanto
per il senso d’impotenza che aveva provato davanti alla cattiveria e
all’ignoranza.
Una sera, al Palais des Beaux-Arts, la loggia reale era illuminata.
Infatti, la regina Elisabetta era venuta ad assistere al concerto. In seguito,
Ariel e Nora furono invitati a incontrarla in un salottino privato. Scambiarono
qualche parola molto protocollare. Invece, il tè che seguì al castello dello Stuyvenberg, la residenza della regina, fu meno
formale.
Incontrarono altri artisti. Fu l’occasione per
Ariel di far notare che sì, il Concours Reine Elisabeth era uno dei più
prestigiosi concorsi musicali, un anno per il piano e un altro per il violino…
«Però», insistette Ariel. «Mi permetto di suggerire che venga aggiunto un terzo
anno dedicato al violoncello…»
«Non nell’immediato», disse la regina ridendo.
«Però non è escluso nel futuro…»
Poi la regina, che era stata una brava alpinista,
si appartò con Nora e parlarono di montagne.
Un’altra sera, il Palais des Beaux-Arts era stracolmo di giovani perché la
serata era riservata agli allievi delle scuole. Ascoltarono l’esibizione di
Ariel in silenzio raccolto, poi si scatenarono in applausi frenetici e dopo
l’ultimo brano urlarono: «Bis, Bis, Bis!»
Ariel ritornò sul palco per un bis, dopo il quale
ricominciarono a urlare «Bis, Bis, Bis!» Batterono le mani e i piedi;
l’anfiteatro rimbombava come un cembalo. Ariel non poté resistere e ritornò
ancora. Finalmente, l’orchestra uscì e Ariel tornò sul palco da solo, si
sedette col violoncello tra le braccia e suonò il tema di una vecchia ballata yiddish,
poi suonò pezzi più inaspettati, come Love me tender di Elvis Presley e Walk
The Line di Johnny Cash… Il ché provocò il delirio.
Il dignitoso Palais des Beaux-Arts non aveva mai
visto niente di simile.
Ariel si alzò e andò sul bordo del palco; tendendo
le braccia aperte verso il pubblico, disse ad alta e chiara voce: «Cosa volete
di più? Vi ho dato tutto…»
I tecnici iniziarono a spegnere le luci. Solo
allora gli spettatori cominciarono a uscire.
Il giorno dopo, la stampa scrisse in prima pagina a caratteri cubitali:
«Ariel Levi, il trionfo del cuore!»; «Il violoncello della generosità»;
«Un’anima più grande dell’arte»; «Una musica suonata non solo dai musicisti, ma
da tutti i presenti».
Mentre Ariel e Nora facevano colazione, un
cameriere portò i giornali. Nora fu entusiasta, mentre Ariel sprofondò nella
malinconia… Si accontentò di bere il caffè e di sgranocchiare i croissant.
«Cos’hai?» chiese Nora. «Non sei contento? È
fantastico! Manderemo questi giornali a casa; saranno fieri di te.»
«Sì, è fantastico, ma anche terribile… Ieri ho
dato il meglio di me stesso… È stato il meglio della mia vita e sono triste
perché quella volta unica e irripetibile è passata… Mi rende triste.»
Nora mise un braccio intorno alle sue spalle, lo
attirò affettuosamente verso di sé e Ariel si lasciò scivolare in quest’amore
quasi materno.
Nora, dopo la notte di passione trascorsa nel fienile con l’uomo dal
cappotto, tanti anni prima, non aveva più illusioni. Sapeva che quello era
stato un unicum nella sua vita:
irripetibile. Come scriveva André Gide: “Mai cercare di ritrovare le acque del
passato…”
Quella notte era stata unica nella sua vita e
doveva rimanere così. Non ne avrebbe parlato con nessuno. Non ci pensava che in
modo molto sfumato, lasciando quel magico tesoro avvolto nell’aura del mistero,
per paura che svanisse nel nulla come le fate svaniscono nei primi raggi del
sole. Quel velo non ne avrebbe alzato l’angolo per nessuno, nemmeno per sé
stessa. Quel ricordo le sarebbe bastato per tutta la vita. Non desiderava di
più, non cercava più niente. Accettò il profondo affetto di Ariel con gratitudine,
come un regalo inaspettato, un qualcosa in più. La loro relazione era maturata
lentamente e ogni passo successivo era naturale e opportuno. Riuscire ad
attraversare gli impegni, le difficoltà e le gioie della vita con quell’armonia
doveva essere la vera felicità.
Andarono a Liegi, a Madrid, a Bornemouth, a Vienna, a Parigi e anche ad
Anversa… Ariel fu coraggioso ed ebbe la forza di fare il giro della città per
mostrarla a Nora.
Posteggiarono nella Quellinstraat, passeggiarono
lungo la De Keyserlei, dove si trovavano i negozi lussuosi. Nella
Pelikaanstraat, una vetrina vicina all’altra, erano tutte gioiellerie
specializzate nel commercio dei diamanti. Nei pressi della Hoveniersstraat
passarono nelle stradette all’entrata delle quali stavano delle guardie. Qui,
con un’aura di mistero e di fascino, su una superficie di un chilometro
quadrato, millecinquecento ditte occupavano trentamila impiegati, tutti al
servizio delle quattro “C”: Carat (il peso), Clarity (la
limpidezza), Colour (il colore), Cut (il taglio). Lì palpitava
l’anima del World Diamond Center.
Ormai Nora da anni lavorava in quest’ambiente;
conosceva i nomi, le tecniche manuali antichissime e quelle sofisticate e
d’avanguardia con laser e computer. Conosceva gli associati, la voce dei
corrispondenti, le calligrafie e le firme, ma trovarsi di persona nel cuore del
santuario dell’eccellenza procurava un’emozione che non avrebbe mai immaginato.
Si sentì in cima a una piramide, il summum
non solo dei movimenti di valori, ma soprattutto della ricerca della bellezza.
Là, la perfezione delle singole pietre, la professionalità dei singoli
artigiani, l’arte dei singoli gioiellieri erano spinti all’estremo e la somma
di quegli elementi eccezionali faceva di Anversa la capitale mondiale della
perfezione. Nora si sentì fiera e commossa di farne parte.
«Grazie», disse Nora ad Ariel. «Sei tu che mi hai
fatta entrare in questo mondo che, me ne rendo conto adesso, è diventato una
vera passione».
Signori vestiti severamente circolavano con
valigette metalliche legate al polso con una catenella. Portavalori si
affrettavano. Nessun dettaglio sfuggiva agli agenti di vigilanza, né ai
bodyguard. Colonne metalliche di sicurezza erano fissate nel sedime della
strada sbarrando il traffico. Passavano anche Ebrei chassidim, col grande capello nero, i boccoli e l’abito nero. Non
alzavano lo sguardo; camminavano velocemente, come se fossero stati da soli
nella strada. Nei negozi, certi portavano la kippah.
«Sono tutti Ebrei?» chiese Nora sfottendo
gentilmente. «È una città di Ebrei?»
«Molti sì, altri no», rispose Ariel ridendo. «Ma
se vedi fissata sullo stipite d’entrata quella strana lunga scatoletta che
difatti si chiama “mezuzah”, allora ci sono molte probabilità che gli
abitanti siano Ebrei… Nella scatoletta, si trova un pezzettino di pergamena con
un paio di versetti del Deuteronomio. Forse non ci hai mai fatto a caso, ma
anche noi l’abbiamo a casa nostra.»
Nora lo guardò incredula e Ariel aggiunse con tono
confidenziale qualcosa che aveva della presa in giro: «Eh sì, anche noi abbiamo
i nostri grigri[14]», che
comunque Nora non capì, perché non sapeva che cosa fosse un “grigri” e
pensò che avrebbe dovuto guardare nel vocabolario.
Si fermarono davanti ai negozi; molti stipiti
erano muniti di mezuzah e chi non lo
sapeva, davvero non l’avrebbe notato.
Una mattina, mentre Ariel era occupato con le prove dell’orchestra, Nora
partì alla ricerca della società con la quale era quasi quotidianamente in
contatto per conto della Blue Star. Trovò l’indirizzo. L’edificio era
severissimo, con una facciata di cemento, vetro e acciaio. Nora entrò e subito
fu fermata dagli agenti di sicurezza, che la condussero in un salottino dai
doppi vetri e dalle porte blindate.
«Ha un appuntamento?» chiese uno dei vigili.
«No, sono qui di passaggio per un viaggio privato;
pensavo fosse l’occasione giusta per salutare una persona con la quale ho solo
rapporti telefonici…»
«Chi sarebbe questa persona?»
«Il Signor Elia Blumenfeld», disse Nora.
Il vigile andò al telefono interno e chiese: «Qui
la sicurezza. Il direttore è presente?»
Passò un attimo.
«C’è qui una signora che desidera incontrarlo,
senza appuntamento… Sì, naturalmente… Signora, venga qua, dica il suo nome e
motivazioni.»
«Certo. Sono Nora Bietri della Blue Star… Visita
privata.»
Passarono diversi minuti, poi tutto d’un tratto la
porta dell’ascensore si aprì e comparve un signore, che chiese discretamente:
«Dov’è… Quella signora, dov’è…» Poi, venne verso Nora con la mano tesa.
«Signora Bietri, che piacere e che sorpresa! Venga, venga…»
Mentre salivano nell’ascensore, egli disse
solamente: «La porto nel mio ufficio privato, così possiamo scambiare due
parole.»
Entrarono in uno sgabuzzino che conteneva a
malapena una tavola e due sedie; nient’altro, a parte, probabilmente, qualche
sistema di sorveglianza nascosto. Davanti alle finestre, le tapparelle erano
abbassate.
«Ecco», disse il Signor Blumenfeld. «Qui siamo tra
di noi». Poi prese la mano di Nora, la sfiorò appena con le labbra, la strinse
vicina al cuore e guardandola intensamente negli occhi disse: «Signora Bietri,
da dieci anni noi ci parliamo una volta per settimana senza mai aver avuto
l’occasione d’incontrarci… Mai avrei osato immaginare la sua deliziosa
fisionomia… Sono commosso… La sua visita è una sorpresa. Naturalmente, sappiamo
che il Signor Ariel Levi è tra le nostre mura e domani sera saremo tutti
presenti al suo concerto, ma lei… non mi aspettavo d’incontrarla! È una
benedizione, dopo tutti questi anni!»
«Sì», disse Nora. «la Blue Star…»
E mentre chiacchieravano degli affari e delle
rispettive società, Nora si sentì sciogliere sotto lo sguardo del
corrispondente che per tanti anni non era stato che una voce… Che tipo! Era un
uomo di una sessantina di anni, alto e piazzato, capelli e barba grigi e
cortissimi. Portava occhiali enormi con montatura rossa, orecchino
nell’orecchio sinistro, enorme anello firmato Cartier. Il più stravagante di
tutto era che portava un completo di alpaca, color gris-souris, evidentemente confezionato su misura in Savile Row,
sopra una camicia di seta, blu coi pesciolini azzurri.
«Che tipo! Ma che tipo!» pensò Nora che, da
sempre, era stata stregata dallo charme di quella voce sensuale. Ora, la
voce sensuale aveva anche un volto, con occhi intesi, labbra carnose e un corpo
scolpito da discipline sportive esigenti… Non era un bel ragazzo alla maniera
di Hollywood; era un uomo maturo, pericolosamente seducente, e Nora pensò che
per fortuna il suo soggiorno ad Anversa sarebbe stato brevissimo.
«Io, a questo non potrei resistere», pensò Nora
senza nemmeno cercare di capirne la ragione e soprattutto senza essere
cosciente di quanto quest’uomo avesse risvegliato in lei il ricordo dell’uomo
dal cappotto e dell’impero dei sensi…
Parlarono degli affari e delle trattative in
corso. Poi, bruscamente, Nora abbreviò la sua visita e corse al rendez-vous con Ariel, sentendosi
terribilmente colpevole, perché ricordò che da qualche parte era scritto:
«Colui che guarda la moglie di un altro con concupiscenza ha già commesso
l’adulterio.» E sapeva di aver guardato quest’uomo con una concupiscenza che
non aveva mai provato prima di allora.
Il Signor Blumenfeld fu presente al ricevimento dopo il concerto. Nora
salutò graziosamente, ma rimase per tutta la serata al fianco di Ariel.
Tra i fiori che arrivarono in albergo, c’era
un’enorme cesta di tulipani gialli. Nora tolse il cellofan e quando capì che
non portava la carta del mittente, non ebbe nessun dubbio, nemmeno sul
significato dei tulipani gialli. Questa delicatezza era davvero squisita e,
quando avrebbe ripreso il suo lavoro in ufficio, alla prima occasione avrebbe
fatto sapere che il messaggio d’“amore senza speranza” era stato gradito;
deliziosamente gradito…
Nella città di Anversa, molto era cambiato e, malgrado l’accoglienza
calorosa del pubblico durante i concerti, Ariel decise di non tornarci mai più:
là era rimasta una parte della sua vita; la parte più dolorosa, che non voleva
risvegliare.
Nel profondo della sua anima, sfilavano le
immagini: sua sorella Lea col nastro bianco nei capelli ricci e quella mania
dei vestiti di mousseline di seta bianca. Lea era alta e quasi magra e
quei vestiti così leggeri le davano un’andatura irreale; sembrava attraversare
la vita come una nuvoletta che galleggia nella realtà, senza mai toccarla.
Piuttosto che litigare con suo fratello come normalmente succede in tutte le
famiglie, lei si ritirava e lasciava che lui cedesse o capisse la meschinità
dei suoi capricci. Lea era intelligente, ma da suo padre aveva ereditato troppa
fantasia per costringersi a lavori prosaici. Lea era andata in collegio, ne era
uscita con una buona educazione e naturalmente aveva continuato la sua strada
nel matrimonio e nella felicità della sua famiglia. Suo marito David era tutto
diverso. Fin da bambino era appassionato di commercio, affari e via vai. Era
diventato un abile commerciante, felicissimo di trovare in Lea l’angelo del
focolare. Sarebbero stati una coppia felice e senza storia, se la Storia non
avesse deciso diversamente. Perché proprio a loro doveva capitare quella
tragedia? Per Ariel era normale che i drammi fossero successi ad avventurieri
scapestrati, ma che fossero capitati a Lea… Quello era il colmo dell’assurdo.
Anversa riaccese molti ricordi. Ariel rivedeva suo padre seduto davanti al
suo tavolo, con la grossa lente stretta tra la guancia e il sopracciglio, con
una smorfia buffa perché da una parte sembrava ridere e dall’altra aveva
un’espressione serissima mentre esaminava le pietre preziose, il loro taglio,
la loro purezza, cercando spietatamente ogni minimo difetto.
In un secondo tempo, prendeva una lente speciale
tra l’indice e il pollice della mano sinistra, avvicinava la lente all’occhio
destro tenendo comunque l’occhio sinistro aperto per non stancarsi troppo.
Nella mano destra teneva il diamante stretto tra le due aste di una pinza. Ogni
tanto, gli capitava di poter dire con profondo godimento: «Ja, ja!
Top Wesselton… ongetwijfeld… [15]»
Più raramente, succedeva che non diceva nulla, ma
senza alzare il suo sguardo scrutatore dalla pietra, mormorava: «Mmh, mmh…» E
quando ne era proprio sicuro, aggiungeva sottovoce: «Mmh… Dat is het...
River… Mmh… Ja, ja…[16]»
E quando purtroppo una pietra aveva un difetto,
non lo diceva in fiammingo, ma in francese, come se il francese fosse stato più
dolce per annunciare la delusione: «Très, très petites inclusions…[17]»
Oppure - e allora scuoteva la testa con rammarico: «Piqué imparfait[18]…
ai, ai, ai… Petite fêlure de clivage[19]…
Ai, ai…»
Ariel si ricordava le parole magiche che suo padre
pronunciava a proposito della lente, come un incantesimo, che lui avrebbe
capito solo decenni più tardi: «aplanétique et acromatique[20]».
E quando prendeva in mano la pinzetta, diceva con enfasi: «les brucelles[21]…»
E Ariel non capiva come mai una piccola pinzetta potesse chiamarsi come una
grande città. Allora, non aveva apprezzato l’ambiente straordinario del tavolo
da lavoro di suo padre, ricoperto da tesori raffinatissimi: le buste di velluto
nero, la carta velina nella quale ogni pietra era avvolta, le meravigliose
apparecchiature ottiche, il microscopio, gli strumenti di misura, i calibri,
gli indicatori di carati…
Ricordò i diamanti fissati nella pasta fatta di
colla e gesso e il disco che ad alta velocità procedeva lentamente nel taglio.
Il gesto quasi sacerdotale per sfaldare la pietra con un unico colpo di
martello sulla lama da clivaggio; la straordinaria destrezza con la quale la
pietra rotonda veniva appoggiata sul disco orizzontale, che limava con
eccezionale precisione le quattro prime faccette della corona, poi le quattro
prime faccette della culata e poi una nuova faccetta su di ogni nuovo angolo,
fino ad arrivare a trentadue sulla corona e ventiquattro sulla culata. In
tutto, cinquantasette faccette per scomporre la luce.
Stesso rituale, stessa esigenza, stessa perfezione
per pietre grandissime come per quelle più minute, tutte garantite dallo stesso
label di qualità: l’Antwerp Cut, fondato su cinque secoli
d’esperienza!
Ad Anversa, non venivano lavorati solo i diamanti,
ma anche tutte le altre pietre preziose degne di ornare le creazioni dei più
grandi gioiellieri, le corone di imperatori e principesse, e di popolare
altresì i sogni di ogni persona sensibile alla perfezione concepita nel grembo
della terra e nata tra mani esperte.
Invano suo padre aveva tentato di attirarlo, ma
Ariel vibrava sotto la magia del suono, non della luce. Quante volte suo padre
l’aveva chiamato per mostrare quel piccolo raggio di luce incolore filtrare
attraverso un prisma e scomporsi in un ventaglio di colori meravigliosi.
Suo padre amava ricordare che «Disse Dio a Noè:
“Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è
sulla terra”. Vedi, figlio mio, l’arcobaleno dopo il diluvio è come una cintura
di diamanti attorno alla terra e in un solo piccolo diamante splende tanta luce
quanto in un enorme arcobaleno. Non è forse questa la Luce di Dio?»
Ma allora, Ariel era troppo giovane, troppo in
preda alle ribellioni della sua adolescenza. Aveva disprezzato quelle vecchie
lagne di Dio, quelle preghiere, quei testi noiosi e quei noiosissimi genitori
che dovevano sempre predicare. Oggi capiva, ma oggi non era rimasto niente ed
era troppo tardi per dire a suo padre quanto l’avesse amato. Era troppo tardi.
Aveva avuto le sue occasioni e le aveva lasciate passare…
Ariel seppelliva nel suo intimo un terribile senso
di colpa… Quando avrebbe potuto dire a sua madre, a sua sorella e a suo padre
quanto li amava, non l’aveva fatto. Erano morti senza saperlo. Questo pensiero
girava e rigirava nella sua mente. Quell’essere irrimediabilmente troppo tardi
era insopportabile.
Mentre camminava con Nora nelle stradette di
Anversa, Ariel sprofondò nella tristezza dei suoi ricordi e dei suoi rimpianti.
Ritornare ad Anversa non fu felice.
«Tu sei mai andato alla tomba dei tuoi genitori?»
chiese Nora.
«Non hanno una tomba… Non so nemmeno né come né
dove sono stati sepolti…»
«Vorrei andare fin là», disse Nora senza osare
precisare, né pronunciare quelle parole terribili.
«Non sono mai andato», disse Ariel. «Suppongo che
almeno una volta nella mia vita sia mio dovere andarci…»
Due giorni dopo, mentre si sedevano nella macchina, Ariel disse
semplicemente all’autista: «Per favore, ci porti al campo di concentramento di
Breendonk…»
Lentamente, si avviarono sulla strada verso
Mechelen e Willebroek. Era una giornata grigia; la nebbia fredda contrastava
col sole autunnale dei giorni precedenti. Il vento che soffiava continuamente
da ovest portando le nuvole dal mare aveva piegato le lunghe file parallele di
pioppi, tutte nella stessa direzione. Le foglie gialle cadevano e volteggiavano
seguendo i capricci delle raffiche e ogni tanto piovigginava.
Nora e Ariel rimasero in silenzio. La campagna
aveva perso i suoi colori lussureggianti e non rimaneva più che qualche campo
di granoturco. Mucche bianche e grossi cavalli indifferenti al traffico
pascolavano tranquillamente nei prati chiusi da siepi o da semplici recinti di
fili di ferro sorretti da vecchi pali di legno, diventati neri a causa della
pioggia.
La macchina rallentò e si avviò su una stradetta
laterale. Era lì: il Forte di Breendonk, completamente circondato da filo
spinato e da mirador[22] costruiti
con piccoli mattoni rossi. Ariel e Nora scesero dalla macchina. L’autista andò
ad aspettarli sul posteggio.
Entrarono nella baracca che serviva da hall
d’entrata. Diversi tavoli presentavano modellini della topografia del Forte per
spiegare la disposizione dei diversi componenti. Ai muri, erano appese
fotografie e riproduzioni di piani e disegni. Sul fondo, dietro a uno
sportello, attendeva uno dei custodi che vendeva i biglietti d’ingresso, le
cartoline e i libri.
«Due biglietti», chiese Ariel.
«Ecco», rispose l’impiegato. «Oggi, non c’è ancora
nessuno. Avete tutto il tempo per visitare liberamente.»
«Quanto tempo dura la visita?» chiese Ariel.
«Si deve contare un minimo di due ore, ma c’è
abbastanza da vedere per starci anche cinque ore; non preoccupatevi, prendetevi
il tempo necessario.»
Uscirono dalla baracca e si avviarono verso il
Forte.
Il Forte era un immenso bunker costruito tra il 1906 e il 1914 e faceva
parte di una linea di forti destinati a difendere Anversa. Durante la Prima
Guerra Mondiale, cadde tra le mani degli invasori tedeschi e, durante la
Seconda Guerra Mondiale, diventò Auffanglager[23]
nelle grinfie delle SS.
Non era molto alto, era tozzo, quadrato: un’enorme
massa di cemento armato con muri spessissimi e piccole finestre. L’entrata
antistante sembrava la testa di un mostro; una spaventosa tartaruga con la
bocca spalancata tra due occhi profondi. I bastimenti che seguivano assumevano
la forma del carapace duro, impenetrabile, pesante sopra i suoi segreti.
Attorno al Forte, scorreva un largo fossato. L’acqua nera fremeva nel vento.
Oche bianche volarono via, qualche anatra e una gallinella d’acqua continuarono
a nuotare.
Ariel e Nora si avviarono sul ponte sopra il
fossato, entrarono. Davanti a loro, si apriva un lunghissimo tunnel, dalla
volta bassissima e scura, con deboli lampadine. Il pavimento era fatto di dadi
e diversi pesanti cancelli si succedevano anche nei corridoi laterali. Una
targhetta recitava: «Rispettate questo luogo, nel quale uomini sono morti per
permettere a voi di vivere nella libertà.».
A destra, una saletta lugubre portava il nome di
“Casinò”, il bar delle SS. In fondo al tunnel, cominciava la “caserma”.
L’aria era pesante; puzzava di umido, di muffa.
Anzi, aveva un odore di topi e la scarsa luce sapeva di morte. Nora prese il
braccio di Ariel. Le venne un gran caldo, poi le girò la testa e si sentì
svenire.
«Non posso… Non sono capace di andare avanti… Devo
uscire…»
Ariel non disse niente; strinse Nora vicino a sé e
tornarono sui loro passi.
Tornati nella hall, Nora si sedette. Era
pallida. Poi appoggiò la testa indietro contro il muro e pianse, mentre Ariel
si sedeva silenzioso vicino a lei, sconvolto pure lui.
«La Signora non sta bene?» chiese l’impiegato che
era accorso.
«È troppo duro», disse Ariel, che dovette fare uno
sforzo terribile per rimanere dignitoso e non crollare pure lui. «Non siamo
abbastanza coraggiosi per andare avanti…»
«Ma non siete nemmeno entrati… Voglio rimborsarvi
i biglietti».
«No. È un piccolissimo contributo… Ma mentre la
mia compagna si riprende, mi spieghi lei come sono andate le cose…»
«Di solito», disse l’impiegato, che era abituato a
recitare durante le visite guidate. «Si parla dei campi di Auschwitz, Dachau o
Buchenwald, che fanno molta impressione perché erano grandi e ci sono successe
cose spaventose. Di Breendonk non si parla mai e invece in questo piccolo campo
è successo un concentrato di tutti gli orrori degli altri campi. Qui, molti
prigionieri sono stati torturati e massacrati dopo essere stati denunciati dai
propri compatrioti… Certi guardiani erano fiamminghi “idealisti”, che
collaboravano con le SS… Non fa piacere doverlo ammettere, ma ci sono stati
collaborazionisti sì, Belgi che
hanno collaborato coi nazisti per torturare e uccidere altri Belgi…»
«Ci sono stati prigionieri ebrei?» chiese Ariel.
«Sì, anche Ebrei. Partigiani e prigionieri
politici. Non si sa nemmeno quanti morti ci siano stati. Gli elenchi sono
incompleti, ma una trentina sono stati impiccati, un centinaio sono morti
picchiati, annegati, di fame o a causa della tortura. Duecentoquaranta furono
fucilati e più di duemila prigionieri sono stati spediti verso la morte negli
altri campi».
Poi, l’impiegato aprì un libro.
«Vede, qui, la forca. E su questa foto, i pali ai
quali erano legati i prigionieri prima di essere fucilati… Ma Breendonk è
principalmente, se si può dire, “celebre” perché era soprattutto un campo di
tortura… Si figuri che lasciavano aperte le porte, così che le urla dei
torturati echeggiassero in tutto il forte».
Nora, per discrezione, si era alzata ed era andata
a leggere le spiegazioni dei pannelli didattici che coprivano i muri. Ariel
rimase con l’impiegato.
«Quando è cominciato?» chiese Ariel.
«Il 10 maggio del 1940, i Tedeschi hanno occupato
il Belgio. Lei chiedeva degli Ebrei… Si stima che nel ’40 ci fossero cinquantaseimila
Ebrei in Belgio. Il 14 aprile 1941, è avvenuto il famoso pogrom
d’Anversa e, a partire dal 27 maggio del ’42, gli Ebrei sono stati obbligati a
portare la stella gialla. Erano “identificati, registrati, marcati, consegnati
al loro domicilio e pronti per la soluzione finale”. Dal 4 agosto ’42 al 31
luglio ’44, più di venticinquemila prigionieri sono stati deportati da Mechelen
ad Auschwitz; sedicimila sono stati massacrati immediatamente al loro arrivo.
Solo ed esattamente milleduecentosette sono sopravvissuti… Questo campo non era
l’unico; se Breendonk era il simbolo del terrore nazista, la Caserma Dossin a Mechelen era veramente l’anticamera
della morte… Morte ad Auschwitz. Adesso ci hanno allestito un museo della
Deportazione e della Resistenza degli Ebrei in Belgio. I partigiani hanno avuto
la loro, ma certo gli Ebrei sono stati malmenati.»
«Lei s’interessa di storia?»
«Per forza, per via della mia professione: qui
vengono molti visitatori, anche scuole… E poi… Ma di questo di solito non ne
parlo; è una cosa privata. Mio padre è stato prigioniero come soldato, in
Austria, a Kaisersteinbruch, vicino a Lienz… Un
altro campo del quale non si parla mai. Quando mio padre è tornato, perché lui
ha avuto la fortuna di tornare, pesava trenta chili: il peso del suo scheletro.
Ha impiegato anni per riprendersi del tutto… Adesso, ai giovani si dice che
bisogna dimenticare, che i giovani devono costruire il futuro e perdonare. Io
non sono capace di dimenticare. Ma voi non siete di qua… Signor?»
«Levi. Ariel Levi. Sono nato ad Anversa, ebreo…»
«Oh! Mi scusi!» disse l’impiegato sorpreso. «Non
dovevo dare questi dettagli raccapriccianti…»
«No, anzi, la ringrazio. Da solo non avrei capito…
I miei genitori sono morti qua… Almeno, è qua che si perdono le loro tracce.»
«Sì, difatti si può essere sicuri che siano
entrati qua, ma sul dopo non si può essere sicuri di niente… Qui avranno fatto
una brutta fine. Se sono stati mandati ad Auschwitz, non sarà stato meglio…»
«Erano Ebrei e in più partigiani…»
«Dio mio», disse l’impiegato. «Avevano proprio
tutto contro di loro… E per le SS, doppio motivo di accanimento…»
«Saperli morti è molto doloroso, ma sapere che
sono stati torturati, questo per me è insopportabile… Mia madre era così
delicata, quasi fragile… E mio padre era… Come posso dire? Mio padre era alla
sua maniera un artista… Anche mia sorella e la sua famiglia…»
Arrivò l’altro impiegato e Nora comprò diversi
libri, cartoline e riproduzioni di disegni che avrebbe mostrato a Zio Josef e
ai suoi amici.
«Potresti sostituirmi un momento?» chiese il primo
impiegato all’altro.
«Qui vicino c’è un ristorante», disse.
«Permettetemi di offrirvi almeno un caffè… Credo che ne abbiamo bisogno.»
Si sedettero in disparte e attesero il caffè, poi il custode si avvicinò e
abbassò la voce: «Sa, Signor Levi, devo dire una cosa terribile della quale non
parlo mai. Mio padre è stato prigioniero, però è stato liberato
anticipatamente, dopo solo un anno, perché era alto, biondo, dagli occhi
azzurri, era fiammingo e prima della guerra simpatizzava col movimento fascista
Rex di Leon Degrelle… Non oso parlare di queste cose perché ho bisogno del mio
posto di lavoro. Difatti, se sono custode in questo campo, è per reazione
contro i miei genitori… Lei ed io siamo legati: i suoi genitori sono stati le
vittime, i miei genitori stavano dalla parte dei carnefici…»
«Ma questo estremismo esiste ancora oggi?» chiese
Ariel, incredulo e sconvolto.
«Sì… Anzi, è un veleno che continuerà ancora a
lungo a dividere le famiglie. È un tema al quale non si osa nemmeno accennare.
Ogni tanto appaiono delle croci uncinate tracciate di qua o di là. Tutti sanno,
nessuno parla e nessuno dimentica…»
Per i due uomini fu come un ascesso che,
finalmente arrivato a maturazione, si apriva, si vuotava e magari sarebbe
diventava meno doloroso.
Quando quella giornata fu conclusa, Ariel e Nora chiusero l’argomento
lasciandolo avvolto di rispetto, di tristezza, ma anche di profonda delusione
per la natura umana.
Nora riprese a pensare alle emozioni suscitate
dall’incontro col Signor Blumenfeld. Certo, dopo tanti anni vissuti con Ariel,
il fascino di quell’uomo l’aveva sconvolta. Ma ora, dopo la visita al campo di
concentramento, ebbe la certezza che non avrebbe avuto mai più un’altra
relazione: il legame con Ariel andava fino nel più intimo della loro anima. Con
Ariel, aveva capito e condiviso la sofferenza. E questo era più forte di
qualsiasi altro sentimento.
Andarono di città in città, di concerto in concerto e, mentre Ariel era sul
palco e suonava, la “persona giusta” entrava nel camerino al momento giusto e
compiva il gesto giusto… Gesto che né Nora né Ariel avrebbero voluto
indovinare.
A loro insaputa, erano diventati dei corrieri
efficaci, rapidi e sicuri. Solo più tardi, avrebbero capito che in questo
periodo avevano lavorato molto e bene. Allora, avrebbero provato una grande
soddisfazione.
«Ciò che vale la pena d’essere fatto, vale la pena
d’essere ben fatto», diceva Don Alberto. E così avevano fatto.
Più vivevano insieme, più il passato che
reprimevano nel fondo della loro anima li legava saldamente, perché si
stringevano l’uno all’altro per poter trovare la forza di far fronte alla
realtà. La bellezza della musica era talmente straordinaria che non avevano
nemmeno più bisogno di parlare. Nella musica era scritto tutto, era detto
tutto, era espresso tutto. Ariel non chiese mai a Nora che cosa le fosse successo da giovane. Nora non
accennò mai più alle tragedie della guerra che non avrebbero potuto cancellare
dalle loro menti. Erano diventati una vecchia coppia.
Quando tornarono a New York, furono invitati alle riunioni con gli amici di
Zio Josef. Raccontarono il loro viaggio. Nora fece il solito resoconto
dettagliato e finì per dire, pensierosamente: «Quella visita mancata al Campo
di concentramento di Breendonk… Ariel ed io abbiamo riflettuto molto sul
perdono… Insomma, ci siamo chiesti se sia possibile dimenticare e perdonare…»
«Se posso», intervenne il Dottor Stern. «Vorrei
esprimere un parere prettamente scientifico, senza nessun coinvolgimento
sentimentale né filosofico, nemmeno opinione personale… Ecco, la memoria è un
fenomeno complesso, perché il cervello è uno strumento stranissimo. Difatti,
quando un’informazione viene captata dai nostri recettori, diciamo dai nostri
sensi - l’olfatto, la vista, l’udito, il tatto e così via - ma addirittura da
sensazioni, impressioni e via dicendo, questa informazione è trasmessa al
cervello, dove viene impressa, registrata… irrimediabilmente e indelebilmente…
Tu vedi qualcosa; nel momento in cui questa immagine colpisce il tuo occhio,
viene istantaneamente incisa nel cervello e non ne esce più. Magari anche senza
che noi ce ne rendiamo conto, un’immagine fuggitiva, un flash, un blitz…
Basta: è impresso nel cervello, c’è e non ne uscirà mai più. Ed è così per
tutti i nostri sensi. Mangi una mela? Ebbene, quel sapore va registrato nel
cervello fin quando questo sarà in vita. Dopo la morte, non si sa bene come
vadano le cose… Comunque, quello che è certo è che… Dov’ero rimasto? Ah, sì…
Dunque, un’impressione viene trasmessa al nostro cervello tramite i nostri
nervi sensibili, per dirla in parole povere, e quindi è registrata. Ed è qui,
cari miei, che sta la fregatura! È fisiologicamente impossibile dimenticare,
perché è inciso nel cervello. Per dimenticare davvero, si dovrebbe tagliare via
quella parte di cervello, o distruggere quei nervi, eccetera, eccetera…»
«Stern!» gridò un altro signore alzando le braccia
al cielo. «Sei incorreggibile! Io dimentico trentamila cose al giorno.
Dimentico dove ho posteggiato la macchina, che ora è, gli appuntamenti, e
addirittura dimentico che sono sposato!»
«È ben quello che dicevo», replicò Stern
aggiustando i suoi occhialini rotondi con una smorfia ridicola, come un
coniglio che agita il suo naso davanti a un dente di leone. «La memoria è
traditrice. Anzi, è perfida, perversa: non è che qualcosa viene cancellato
dalla tua memoria; è che ogni tanto l’informazione richiesta non trova la porta
giusta per uscire, ma può riemergere all’improvviso, nel momento che meno ti
aspetti… Stai due ore a pensare come si chiamava quel tizio; il suo nome è
sulla punta della tua lingua, ma non esce e poi la stessa sera, mentre stai
cantando sotto la doccia, ecco che ti salta in mente che quello si chiamava
Cohen… Quel Cohen era nei “Circuits réverbérants”.
Et j’en passe et des meilleures[24]… Allora,
la Signora ha perfettamente ragione: la questione non è di commemorazioni o
pellegrinaggi, o tutte quelle balle… La grande domanda è: se non è possibile
cancellare dalla nostra memoria, è possibile perdonare? Signori, vi lascio alle
vostre meditazioni. Per quanto riguarda il dimenticare di essere sposato, è un
banale caso d’offuscamento volontario rilevato dalla psicanalisi… Colpisce il
novanta per cento degli esseri umani, dopo tre anni di matrimonio.»
Seguì un silenzio impressionante. Tutti si
guardarono perplessi e increduli. Il Dr. Stern si versò un altro bicchiere di
cognac, si sedette confortevolmente nella poltrona e ci sprofondò mentre
toglieva gli occhialini. Col pollice e l’indice si strofinò gli occhi
schiacciando la sella del suo naso e godendo intensamente dello scompiglio
gettato sui presenti. Per conto suo, borbottò: «Anzi, conviene perdonare?»
Poi, si parlò del nuovo affare che avrebbe fatto scalpore: delle macchine
tessili erano state comperate in Francia e, una volta montate in un posto
segreto nel deserto del Negev, si trasformarono in un reattore nucleare.
1960
Quando il Generale De Gaulle parlò di “Israele nostro amico, nostro
alleato”, gli amici dello Zio Josef se lo ripeterono come una buona battuta.
Qualcuno aggiunse: «Come diceva Letizia Bonaparte, la madre di Napoleone: “pourvu
que ça dure…”[25]».
E tutti sorrisero…
La vita riprese il suo corso normale.
Col passare degli anni, il piccolo cane Chai era
diventato più tranquillo ed era riuscito a far accettare da tutti che lui ormai
avesse, in salotto, fatta sua la poltroncina di seta gialla con le ghirlande di
fogliame verde e i fiorellini azzurri. Si sdraiava appoggiando la sua testina
sul bracciolo imbottito e, ogni tanto, faceva dei grandi sbadigli rumorosi.
Ormai, anche lui stava diventando vecchio. Tutte le mattine, Ruth era la prima
ad alzarsi e per prima cosa andava ad accarezzare il cane. Poi andava ad aprire
la porta del giardino perché lui potesse farsi la sua passeggiatina.
Una mattina, Chai non si alzò. Si era addormentato
e nel sonno se n’era andato in paradiso. Il cagnolino era diventato un membro
della famiglia e la sua morte provocò una profonda tristezza. Lo seppellirono
nel fondo del giardino. Ariel piantò sulla piccola tomba un’azalea gialla come
la poltroncina che Chai stesso si era scelto e aveva tanto amato. Così, ad ogni
primavera, il ricordo del prezioso piccolo compagno avrebbe ripreso a fiorire
con fiori belli e allegri come era stato il suo carattere.
«Comprerai un altro cane», disse dolcemente Sara.
«No», rispose Ariel. «È come dice Baudelaire: “Quand
notre coeur a fait une fois sa vendange…”[26].
Quando il nostro cuore ha fatto una volta la sua vendemmia… No, mai nessuno
potrà occupare il posto di un così grande amore.»
La Blue Star aveva rinforzato i suoi rapporti coi diamantari belgi, che
erano direttamente in relazione con le miniere del Sud Africa e del Kassai nel
Congo Belga, dove l’amico Rosenbaum si era stabilito. Invece, i fratelli
Capeluto si erano stabiliti a Jadotville, nel Katanga, la zona delle grandi
miniere di rame, cobalto e uranio gestite dalla Union Minière du Haut Katanga.
Un passo dopo l’altro, le pedine occuparono il loro posto sulla scacchiera. Ma
solo quelli che dirigevano il gioco lo vedevano dall’alto e capivano le mosse.
Le pedine subalterne si muovevano completamente ignare. Ognuno era convinto di
essere un tassello importante e sapeva che, al momento in cui il puzzle si
sarebbe composto, avrebbe capito quale era stato il suo ruolo.
Importanti avvenimenti politici si susseguirono in Algeria, in Polonia e in
Ungheria, ma per Ariel nessuno ebbe l’importanza della première del concerto
per violoncello che Shostakovich aveva scritto per Mstislav Rostropovich. Poi,
Rostropovich fece una tournée in Europa accompagnato dall’orchestra di
Filadelfia guidata da Eugène Ormandy. Ariel fu assiderato dal potente sol mi si
si-bemolle iniziale. Quello lo doveva suonare; gli scendeva veramente fino in
fondo alla spina dorsale ed egli seguì la tournée di città in città… Un giorno,
si trovò a Zurigo, quasi senza sapere come aveva fatto per arrivarci: era
completamente allibito, ipnotizzato da quella cadenza “pom pom pom pooom” che
rivaleggiava vittoriosamente con l’altro celebre “pom pom pom pooom” di
Beethoven[27].
Per fortuna, Nora non l’aveva accompagnato, così poteva lasciarsi
trascinare dall’ebbrezza…
A Zurigo, ovviamente, aveva preso contatto con la famiglia Edelmann, che
lavorava nel mondo bancario e aveva stretti legami con la Blue Star. Ariel fu
accolto come il figlio degli associati, ma velocemente la sua sensibilità e il
suo comportamento da artista svampito attirarono la simpatia intimistica invece
dell’atteggiamento strettamente professionale. Una sera, dopo la cena, si parlò
delle rispettive famiglie e Ariel, ancora sotto lo choc dello straordinario
“pom pom pom pooom” di Shostakovich e anche turbato dalla mancanza di Nora e
dall’eccesso di champagne, si lasciò andare a considerazioni troppo personali.
«Mi sono rassegnato ad ammettere che i miei
genitori siano morti nel campo di Breendonk. Ma in realtà non si sa né come, né
dove, siano morti. E anche mia sorella che si era sposata con un Coin di
Venezia è scomparsa, e con lei il marito David e il figlioletto Joshua.»
Ariel non riuscì a controllarsi; aveva bevuto
troppo di quello champagne al quale decisamente non riusciva a resistere e
pianse in pubblico. Un vero diluvio di lacrime, per la prima volta nella sua
vita. La famiglia Edelmann aveva vissuto i suoi drammi e, lontana dal
formalizzarsi, capì lo sfogo imprevisto. La Signora si sedette con lui e gli
disse: «Anche noi abbiamo perso i nostri amici e parenti. Di tanti si perdono
le tracce appunto nei campi. Io sono stata liberata, ma guardi: ho ancora la
matricola tatuata sull’avambraccio. Mi creda, noi la capiamo…»
La Signora Edelmann tese il suo braccio sinistro,
rimboccò la manica ed era lì: una lunga cifra tatuata con inchiostro blu nel
lato interno dell’avambraccio, proprio nella parte più delicata e sensibile.
Ariel non riuscì a leggere, non perché la cifra non fosse scritta chiaramente,
anzi, la calligrafia era bella rotonda e ben leggibile. Non riuscì a leggere
perché gli veniva il voltastomaco, lui che non osava ammalarsi perché aveva
fifa d’andare dal medico, che forse gli avrebbe fatto una banale puntura. Quel
tatuaggio era stato fatto proprio nella carne più tenera del braccio di una
donna che allora era stata soltanto una ragazzina. Quella barbarie gli dava la
nausea. Gli veniva da vomitare. Non lesse la cifra, ma sapeva che significava
sei milioni… Un orrore smisurato. Oltre un certo limite, c’è solo
l’inconcepibile, e questo era inconcepibile. Come aveva potuto un essere umano
fare una cosa simile a un altro essere umano? Ariel non cercò nemmeno di
reprimere un profondo lamento; perse ogni autocontrollo e finalmente fece
un’autentica crisi isterica, ripetendo «mia sorella Lea, mia sorella e il
bambino», disperato all’idea delle atrocità che forse aveva dovuto subire
quella ragazza così delicata ed evanescente nei suoi vestiti di mousseline
bianca.
«Sì», disse la Signora Edelmann. «Se pensa al
rispetto per la vita nella filosofia buddhista o addirittura agli Jain che
mettono un tessuto davanti alla bocca, per essere sicuri che non uccideranno
nemmeno un moscerino mentre respirano, allora si può misurare molto chiaramente
la barbarie che abbiamo dovuto affrontare.»
«Avete provato a cercarla?» chiese il Signor
Edelmann per interrompere i ricordi troppo penosi.
«Sì e no», disse Ariel lamentevolmente. «Mio Zio e
qualcuno della società hanno provato, ma niente. Si perdono le sue tracce a
Stresa, in Piemonte…»
«E la vostra casa in Belgio? L’atelier?
L’attrezzatura? Suo padre avrà avuto senz’altro una cassetta di sicurezza in
banca. Non teneva tutti i diamanti nel laboratorio o nell’armadio blindato di
casa? Avrà avuto senz’altro forti assicurazioni… Che cosa è successo con tutto
quanto?»
«Non ne so niente», sospirò Ariel. «Loro sono
stati arrestati, io sono fuggito. Non ho più sentito niente, è tutto andato
perso…»
«Ma questi beni sono vostri e qualcuno se ne sarà
appropriato. Signor Levi, vale la pena indagare ed esigere la restituzione.»
«Non saprei. Difatti io ho abbandonato tutto…
Certo, qualcuno l’avrà trovato. Nessuno mi ha ricercato per restituirmi i beni
della mia famiglia… In realtà, toccava a me ritornare e far valere i miei
diritti. Adesso ormai è tardi».
Mai Ariel avrebbe avuto il coraggio di chiedere
un’inchiesta, di testimoniare, di ricordare: sarebbe stato lungo, costoso e
straziante… Poi sarebbero seguiti processi, avvocati, lotte furiose, scandali…
No, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Non aveva nemmeno avuto la forza di
passare nella strada dov’era stata la sua casa.
Ariel perse ogni dignità e, finalmente, fu
completamente ubriaco. Si dovette sostenerlo per condurlo in una camera da
letto.
«Questo gli avrà fatto bene», disse la signora
Edelmann. «Questo povero ragazzo è riuscito a sputare il rospo. Chissà cos’ha
sofferto a reprimersi. Questi Levi di New York spingono il senso dell’amor
proprio all’estremo invece di aiutare a esorcizzare i vecchi demoni. Se va
avanti così, diventerà psicopatico.»
Il giorno seguente, Ariel si alzò con un tremendo
mal di testa e, imbarazzato da una vergogna terribile, tentò in tutti i modi di
scusarsi.
«Non è necessario», disse il Signor Edelmann. «Ci
siamo passati anche noi e ci capita ancora… Anzi, è un bene che si sia
confidato con noi. Dopo la guerra, un gruppo di sopravvissuti che si chiamarono
Nokmin, i vendicatori, hanno dato la caccia ai nazisti e li hanno fatti fuori
uno dopo l’altro, senza processi né scrupoli. È così che hanno scovato il
criminale Eichmann. Ecco, i servizi segreti e tutti quelli che non vogliono
dimenticare hanno organizzato ricerche molto accurate. Tramite la mia banca e
la nostra comunità, ho molti contatti. Non posso garantire e non sarà di certo
una cosa veloce, ma farò presente il suo caso e quello di sua sorella.
Giustiziare i criminali di guerra è urgente, prima che muoiano di una morte
tranquilla e naturale. In seguito, ci sarà anche tempo per indagare sui casi
privati. Non prometto niente, ma proverò…»
Ariel tornò a New York con la partitura del
concerto di Shostakovich e la certezza di ritrovare Lea.
Un nuovo dramma colpì gli amici belgi della famiglia Levi. Alla fine della
Seconda Guerra Mondiale, molti Belgi, e tra loro molti Ebrei, erano partiti per
il Congo, che allora era la loro colonia. Si erano costruiti una nuova vita, il
commercio era fiorente, il paese meraviglioso e le prospettive per il futuro
erano piene di promesse. Alla fine degli anni ‘50, la politica decise però
diversamente.
Il 24 agosto 1958, il turbolento Generale De
Gaulle esclamò a Brazzaville: «L’indipendenza, chiunque la vorrà, potrà
prenderla subito. La metropoli non si opporrà!» Dall’altra parte del fiume, a
Léopoldville, il Mouvement National Congolais presidiato da Patrice Lumumba
prese la palla al balzo e, il 28 dicembre, dichiarò davanti a un’assemblea di
settemila persone: «Vogliamo l’indipendenza per il 1960!»
Quindi, il 30 giugno 1960, i Congolesi ricevettero davvero l’indipendenza e
il paese sprofondò nell’anarchia più spaventosa. All’epoca della vita tribale,
le guerre si svolgevano secondo i riti ancestrali, con frecce e lance; ora
stavano arrivando i Kalashnikov. Le diverse etnie ripresero le vecchie lotte e
si scatenarono in crudeltà spaventose. I Bianchi dovettero fuggire. Ci furono
massacri e una volta di più i paracadutisti dovettero salvare i civili. Una
volta di più, questi civili dovettero fuggire e abbandonare tutti i loro averi
nella tormenta… Una volta di più avrebbero dovuto ricominciare da zero e tra
loro c’erano tanti amici e parenti della famiglia Levi.
I drammi erano infiniti. Una sera, durante una
delle solite riunioni a casa della famiglia Levi, un associato che tornava dal
Belgio raccontò quanto era successo a un suo parente.
Il Capitano Guy Vandam fuggì in macchina con sua
moglie Nadine e i loro figli Patrick e Bruno da Elisabethville, che era in
fiamme, verso la Rhodesia. Non avevano potuto portare con loro niente, salvare
niente; fuggivano per salvare la vita. Vivevano in Congo da più di dieci anni e
ci avevano costruito la casa, comperato i mobili e i tappeti, coltivato i fiori
e gli alberi nel giardino. I figli andavano a scuola e non avrebbero mai
pensato di dover andare via. All’improvviso, tutto era cambiato. I politici
avevano promesso che tutto sarebbe andato bene, che tutti i provvedimenti erano
stati presi, che la situazione era sotto controllo. Invece, in pochi giorni,
era successo il finimondo. Ora erano di nuovo sulla strada dell’esilio. Appena
prima del confine, caddero in un’imboscata. Guy accelerò.
«Giù, tutti giù, a terra nella macchina!» gridò a
sua moglie e ai suoi due figli mentre tentava di farsi strada.
I colpi di fucili partirono da ogni parte e lui
accelerò come un pazzo pur di forzare il blocco, perché se mai fossero caduti
nelle mani dei “ribelli”, per sua moglie e i suoi figli ci sarebbero stati la
tortura, lo stupro, la morte atroce e per lui, capitano dell’esercito belga,
sarebbe stato ancora peggio… I “ribelli” avevano poche armi automatiche;
usavano qualche fucile, ma soprattutto il machete…
Guy accelerò ancora. Il fondo stradale in terra
battuta era tremendo, ma non c’era alternativa. La macchina rimbalzava come
impazzita. Passare, passare! Arrivare fino al posto di confine. Il confine era
a pochi passi, e poi la salvezza. Partì una raffica di mitra, che colpì la
macchina a mezza altezza e lasciò un tratteggiato dal faro anteriore fino al
fanalino posteriore. E poi erano passati; davanti a loro, la libertà e la
sicurezza.
«Ah!» gridò Bruno, il figlio minore. Seguì il
silenzio.
Dopo qualche tempo, Patrick disse: «Mamma, Bruno
non si muove… E c’è sangue…»
Non poterono fermarsi. Anzi, non potevano nemmeno
rallentare, perché arrivavano al posto di confine della Rhodesia.
Guy accelerò ancora. La macchina sbalzava in tutte
le direzioni, la polvere di laterite turbinava intorno a loro come un ciclone e
finalmente comparve la dogana.
Si fermarono, mostrarono i passaporti, ma non
osarono dire niente, per la paura di essere ancora ritardati. Poi poterono
ripartire; erano in Rhodesia e qui erano al sicuro.
Quando Guy fermò la macchina, scesero e videro la
linea di perforazioni lasciate dai colpi di mitra nel fianco destro della
macchina. Nadine scese anche lei dalla macchina. Erano tutti ricoperti di
polvere rossa. Nadine aprì la portiera posteriore. Il corpo di Bruno cadde
fuori dalla macchina. Era bagnato di sangue. Il bambino non si muoveva, non si
lamentava; respirava ancora, viveva ancora… Nadine lo prese tra le braccia,
cercò la ferita nella pancia che sanguinava, si tolse il foulard, ne fece un
tampone e lo applicò sulla ferita per fermare l’emorragia. Patrick guardò
esterrefatto il suo fratellino, ma non disse niente. Risalirono in macchina
perché l’unico modo per salvare il bambino era arrivare in tempo alla missione,
dove c’erano anche un dispensario e un medico. Partirono di nuovo a grande
velocità sulla strada in terra battuta che le piogge tropicali avevano ridotto
allo stato di una pista rudimentale.
Nadine teneva suo figlio tra le braccia. Con una
mano gli accarezzava la fronte, con l’altra teneva saldo il tampone sulla
ferita… Poi sentì che il bambino smetteva di respirare. E poi il suo cuore smise
di battere. Non aveva più ripreso conoscenza, non aveva più parlato… Nadine
sperava ancora di arrivare alla missione. Era stato allora che scoppiò una
gomma della vecchia automobile. Si fermarono nella nube di polvere. Nadine capì
che non sarebbero mai arrivati in tempo.
«È morto», disse semplicemente. Stettero in mezzo
alla strada. La macchina con una gomma a terra, Patrick sconvolto, Guy
totalmente annientato e Nadine che teneva in braccio il suo bambino morto.
«Bisogna seppellirlo», disse Nadine. Scesero dalla
strada e fecero qualche passo nell’erba alta e brulla della savana. Non avevano
arnesi. Con un pezzo di legno e con le mani scavarono una piccola depressione
ai piedi di un termitaio. Nadine ci depositò il suo bambino. Poi lo coprirono
di polvere e di sassi perché le iene non potessero dissotterrarlo…
Nadine era ebrea e aveva passato gli ultimi tre anni della Seconda Guerra
Mondiale nascosta. I suoi genitori erano stati deportati e non erano tornati.
Gli ultimi due anni della guerra, li aveva passati in una cantina della Rue
Fossé aux Loups, a Bruxelles. Poi aveva incontrato Guy, un giovane e
promettente militare. Si erano sposati ed erano partiti per il Congo Belga, per
una nuova vita, per sempre… Ora sarebbero scesi a Durban o a Cape Town, avrebbero
preso una nave e sarebbero tornati in Belgio, ancora una volta senza più
niente: né futuro, né soldi, né posto dove andare… Sarebbero stati rifugiati
nella loro patria, sarebbero stati chiamati “i rimpatriati” e il loro bambino
sarebbe rimasto sepolto malamente da qualche parte lungo il tredicesimo
parallelo a sud dell’equatore.
Ancora una volta, avrebbero dovuto ricominciare
tutto da capo. Come loro, c’erano migliaia di persone.
Quelle erano le storie che arrivavano nell’ufficio della Blue Star, raccontate
dai collaboratori e dagli associati che viaggiavano da un continente all’altro
con, nella valigetta, non solo buone notizie.
«Non capisco», disse Ariel. «Il Congo era la
nostra colonia e sembrava così sicura… Non capisco perché ci sia stata bruscamente
quella “indipendenza”. Perché tutto d’un tratto il governo belga ha abbandonato
tutto?»
«Non devi mai chiederti perché», rispose Zio
Josef. «Devi sempre chiederti “Chi ha interessi?”. Questa è la domanda che
fornisce sempre la buona risposta. Vedi, con le colonie, l’Europa era ricca e
potente e senza essere un politologo salta all’occhio che almeno a due
concorrenti questo dava fastidio: da una parte il blocco comunista, dall’altra
parte l’America… Poi bisogna anche ammettere che tra i bianchi stessi, lo
spirito pioniere è stato sommerso dalle zizzanie politiche; anticlericali
contro clericali, Fiamminghi contro Walloni… È sempre una questione di potere.»
«Ma quelle persone sono andate a vivere e lavorare
in Congo non solo per loro stesse, ma anche per il progresso degli Africani e
l’interesse di tutta la nazione belga, con l’accordo del governo. Sono stati
abbandonati, traditi dai propri connazionali…»
«L’individuo non conta; conta solo la legge del
più forte.»
«Vedi, Ariel», aggiunse il Signor Zimmermann. «È
ciò che noi abbiamo sempre provato a spiegarti a proposito di Israele. I Belgi
del Congo torneranno in Belgio e, in una maniera o in un’altra, si
ricostruiranno una nuova esistenza. I Francesi d’Algeria sono tornati in
Francia. Similmente, gli Ebrei sono ritornati in Israele perché lì è casa loro
e non hanno un altro posto, dove andare. Anche se tutto il mondo arabo dovesse
scagliarsi contro di loro, non andrebbero via; combatteranno fino all’ultimo
perché non hanno alternativa».
1961
In America, fu eletto il presidente cattolico J. F. Kennedy, poi venne la
crisi dei missili sovietici a Cuba e seguì l’assassinio dello stesso JFK. Molto
più grave fu però la costituzione dell’OLP, l’Organizzazione di Liberazione
della Palestina, che col movimento Al Fatah non ebbe che un solo obiettivo:
cancellare Israele dalla faccia della terra… Attentati e sabotaggi si
susseguivano ininterrottamente, provocando rappresaglie e atrocità da ambedue
le parti.
1967
Poi scoppiò la Guerra dei Sei Giorni. Samuel Dayan era ministro della
Difesa; il conflitto fu brutale e brevissimo e Israele occupò Gaza, il Sinai,
la Giordania occidentale e le alture del Golan, provocando un enorme movimento
di solidarietà nella Diaspora e l’ammirazione generalizzata per questo piccolo
paese che dimostrava tanta grinta. Le fotografie dei soldati israeliani fecero
il giro del mondo e, tra loro, le donne soldatesse e il mitico generale Dayan
con l’occhio bendato alla moda dei pirati.
Il generale De Gaulle, in seguito alle
rappresaglie che Israele scatenava ad ogni attacco da parte dei suoi vicini,
decise l’embargo sulle armi e Israele non fu più né amico né alleato… Così, le
navi da guerra ordinate furono bloccate nei cantieri navali francesi.
Jona e Sara andarono in un kibbùtz per la raccolta
dei mandarini mentre Ariel e Nora partirono per un viaggio di studio tra la
Norvegia e la Francia, alla riscoperta della musica di Grieg e di Ibsen. A
Oslo, si erano spostate certe interessanti trattative.
1969
Ariel e Nora tornarono a New York appena prima di Natale e seguirono
divertiti l’odissea delle cannoniere “les vedettes de Cherbourg” che salparono
di frodo dal porto di Cherbourg il giorno di Natale e attraccarono per
Capodanno al porto di Haifa… Ancora una volta, il mondo rimase a bocca aperta
davanti a tanta baldanza. Non era tanto sopportare lo Stato d’Israele, quanto
ammirare l’intrepidità del piccolo, la furbizia del debole, il coraggio del
pastorello Davide, che con la sua fionda e un sassolino ben piazzato sconfigge
il gigante Golia.
Lo Zio Josef non parlava molto ma, ogni volta che
ci ripensava, strizzava gli occhi e sorrideva. Da buon conoscitore della
letteratura fiamminga, apprezzava senza restrizioni le saporite avventure di
Reynaerd de Vos raccontate nel Romanzo
della Volpe, che spiegava come nel Medioevo la volpe, simbolo del popolo
oppresso, riusciva sempre ad avere la meglio sui potenti grazie al suo spirito
e alla sua intelligenza. Per conto suo pensava: «Ja, dat zijn wel knappe
kerels…[28]».
Per Ariel cominciò un susseguirsi di avvenimenti particolarmente penosi.
Yasser Arafat diventò presidente dell’OLP.
1972
Tre terroristi giapponesi perpetrarono un attentato all’aeroporto di Lodd,
con decine di morti.
Poi, il Settembre Nero uccise undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di
Baviera.
1973
Per il Yom Kippur, gli Arabi lanciarono una nuova guerra, che segnò una
svolta anche per l’Europa.
Allora iniziò un nuovo capitolo. I paesi arabi
sconfitti si vendicarono sui paesi europei amici di Israele chiudendo i
rubinetti del petrolio e fu “la crisi del 1973”. Gli Europei cedettero al
ricatto. Seguirono la Convenzione e i protocolli di Barcellona, che segnarono
non solo il tradimento dell’amicizia con Israele, ma anche l’inizio
dell’islamizzazione dell’Europa. Gli intellettuali diventarono anti-sionisti e
filo-palestinesi e chiesero il boicottaggio di Israele. L’Europa si spaccò in
due e nessuno seppe se non sarebbe andato a finire con una guerra civile
qualche decennio più tardi.
1974
In un attentato a Qiryiat Shemona, sedici persone - per lo più bambini -
furono massacrate, mentre a Maalot novanta studenti furono presi in ostaggio e
una quindicina di essi uccisa.
1976
Un aereo della Air France fu dirottato su Entebbe, in Uganda, e nella
liberazione fatta da un commando israeliano morirono altre persone.
Ad ogni nuova violenza, Ariel rispose con una nuova
crisi esistenziale. Sì, egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per Israele, ma non
per questa violenza. Cominciò a viaggiare sempre di più tra New York e Tel
Aviv. Incontrò molte persone che avevano perso amici e parenti negli attentati
o nelle guerre. Molti volevano vivere in pace. Ariel continuò coi concerti a
sostegno del suo sogno pacifista.
1977
Il presidente egiziano Anuar El Sadat fu accolto a Gerusalemme e pronunciò
un’allocuzione nella Knesset.
1978
Finalmente, Ariel poté festeggiare la nascita del movimento “Shalom
Akhshav”, Pace Ora. Lo stesso
presidente Sadat scrisse una lettera aperta agli Ebrei americani per chiedere
loro di favorire la pace tra Israele ed Egitto e i colloqui sulla Pace si
avviarono a Camp David, con Menahem Begin sotto l’egida del presidente
americano Carter.
1978
Trent’anni erano passati da quel giorno in cui Ben-Gurion aveva proclamato
la nascita d’Israele; c’erano voluti trent’anni di drammi prima di cominciare a
intravedere la Pace.
Per Ariel e Nora era passata la gioventù. Lui aveva cinquantasei anni; lei
ne aveva quarantotto. Vivevano insieme nello stesso appartamento, ma ognuno
aveva la propria camera e il proprio studio. Nora aveva bisogno di molto
silenzio perché portava gli incarti a casa e necessitava della massima
concentrazione. Ariel, col suo violoncello, si chiudeva in uno studio
insonorizzato perché per ore e ore studiava la stessa partitura e ripeteva fino
all’insopportabile la stessa frase musicale.
C’erano molte riunioni di lavoro, altre sere erano
dedicate ai concerti, ma quando potevano passare la serata insieme nella pace
della loro abitazione, si sedevano in salotto come una vecchia coppia che ha
tanto piacere a ricordare il passato ma che ha ancora tanti progetti per il
futuro. Si volevano bene come al primo giorno, tranquillamente, ma
profondamente. Era senz’altro quello il vero amore; non la passione o la follia
della gioventù. La passione si spegne velocemente e, se c’è solo lei, nessuna
coppia resiste. Invece, loro erano legati dagli stessi ideali, ai quali
credevano più che mai. Nora guardava Ariel con tenerezza e ammirazione per la
sua arte. Ariel era affascinato dalle doti manageriali di Nora, che da
ragazzina quasi analfabeta era sbocciata in una donna capace di assumere le più
alte responsabilità. Però, oltre all’ammirazione reciproca, tra loro il punto
più importante era il rispetto; un profondo rispetto che dava alla loro vita
una qualità squisita.
L’ultima volta che Ariel aveva chiesto se Nora
volesse sposarlo, lei aveva risposto: «Noi due siamo felici così. La vita non
può darci di più. Io non sarò mai veramente ebrea e se tu vuoi sposarmi ci
saranno problemi di tradizione difficili da sormontare per tutti noi. Non
voglio che ti allontani dalla tua religione; lo sai che i matrimoni misti non
sono ammessi. Non voglio simulare una “conversione”. Sarebbe del tutto
ipocrita.»
«Ma non avremo mai figli…»
«Noi abbiamo molti figli: tutti quei bambini che
abbiamo visto nascere e crescere nei kibbùtz,
per i quali abbiamo lavorato giorno e notte e che ci ricordano con amore…
Abbiamo aiutato a crescere e educare un paese. Non è questo un figlio di cui
essere fiero e felice? Se noi avessimo dei figli, saremmo meno liberi e
disponibili. Sarebbe più difficile andare nei posti pericolosi, più difficile
disporre del nostro tempo e del denaro che non abbiamo mai risparmiato per noi
stessi… Ci siamo dedicati a un figlio molto esigente, ma l’abbiamo fatto con
convinzione. Non rimpiango niente.»
«Hai ragione», disse Ariel. «Non conta il
matrimonio; contano l’amore e lo scopo comune, come diceva Saint Exupéry.»
Una sera squillò il telefono.
«Pronto?» rispose Ariel.
«Sono un amico di Pinki», disse la voce. «Ecco… So
che voi siete molto legati… Devo dirvi… C’è stato un attentato. Hanno fatto
esplodere un bus… Pinki era in quel bus…» La voce non riuscì a continuare,
scoppiò in lacrime e singhiozzi e poi la cornetta fu riappesa.
Ariel crollò sulla sedia. Nora si precipitò da
lui.
«Cosa c’è?»
«Pinki…» disse Ariel. E in quel nomignolo
sfilarono anni di amicizia, musica, intesa, meravigliosa intensità,
irripetibile gioventù…
Ora non rimaneva più che il ricordo e la
sofferenza, l’assenza e la ribellione contro quella terribile ingiustizia.
Ancora una volta la tristezza, come se invecchiare significasse accumulare
tristezza, come se invecchiare significasse vedere attorno a sé morire le
persone più amate e rimanere sempre un po’ più soli. La vecchiaia, la tristezza
e la solitudine…
Ariel strinse Nora tra le braccia.
«Come farei a sopportare la vita senza di te?»
Ma Nora non riuscì a rispondere, perché con la
scomparsa di Pinki si era spenta la voglia di scherzare, di correre incontro
alle onde del mare e soprattutto la gioia di ricevere all’improvviso le
telefonate più comiche o i mazzi di fiori più fantasiosi… Con Pinki, la poesia
se n’era andata via per sempre…
Zio Josef e Zia Rachele erano diventati molto vecchi, ma portavano bene i
loro ottant’anni. Ruth e suo marito continuavano a vivere nella grande casa dai
balconi di ferro battuto. Jona e Sara, ora diventati adulti ragionevoli,
avevano preso il loro posto nella Blue Star che evolveva coi suoi tempi. Si
erano sposati e avevano dei figli, perché, malgrado tutto, le guerre, gli
attentati, gli affari e il business, la vita continuava.
Ora che avevano tanto tempo libero e si erano liberati dai grattacapi del
mondo degli affari, i vecchi Zii si godevano il giorno scandito dalla preghiera
e dalla tradizione. Ogni anno, ogni festa prendeva più significato sulla via
dell’armonia per andare incontro a una morte serena.
I nipotini venivano e andavano con musiche sempre
più caotiche, vestiti più brutti, strapazzati e slavati, balli più sgangherati
che andavano dal twist al rock ‘n roll. A casa dei nonni cantavano sia le
ballate antiche che sia le nuove hit che facevano furore a Tel Aviv, le canzoni
dei Beatles e di Bob Dylan. Si entusiasmavano per l’isola di Wight e il
festival di Woodstock. Dimostravano contro la guerra del Vietnam, i mantelli di
pelliccia, lo sterminio delle foche e altre stravaganze. I loro genitori non
capivano niente, ma i nonni ascoltavano con pazienza le lunghe teorie pacifiste
e ambientaliste e, ogni anno, infliggevano allo Zio Josef la lettura del nuovo
rapporto del Worldwatch Institute.
Ogni volta, lo Zio Josef ripeteva: «Non comperate
questi libri terribili; leggete la Torah. È già stato scritto tutto cinquemila
anni fa. “Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò
in cuor suo…”. E poi il diluvio, tutti annegati, e dopo ancora Sodoma e
Gomorra… È già tutto nella Torah.»
Ma per i nipotini moderni e adolescenti, Lester
Brown era molto più attendibile che il buon vecchio Noè.
La moda delle vacanze nei kibbùtz si era affievolita, ma continuò nella cerchia della
famiglia Levi. Regolarmente, qualcuno partiva per la raccolta delle olive o la
semina del frumento o per arruolarsi nell’esercito, perché questo era proprio
il ritorno alle origini sul quale costruire la propria vita d’adulto: capire la
terra e il prezzo della libertà. E al centro di tutto, rimaneva l’augurio
“l’anno prossimo a Gerusalemme”. Quella Gerusalemme d’oro; Yerushalayim shel zahav[29]… il sogno
del ritorno e il compimento del sogno.
4. Donato
1962
Nessuno
venne alla cerimonia di consegna dei diplomi. La nonna era morta e nessuno
aveva creduto necessario chiamare Donato per informarlo del funerale. Don
Alberto era via per un pellegrinaggio alla Madonna d’Oropa coi suoi
parrocchiani. La Zia Celestina era diventata troppo vecchia per viaggiare e
passava i suoi ultimi giorni al ricovero delle Suore della Sacra Famiglia a
Loco.
Donato aveva superato gli esami e ottenuto quel famoso
diploma d’elettricista. Adesso, la vita cominciava sul serio. Qualche giorno
prima della fine dell’anno scolastico, il Padre Superiore l’aveva convocato in
direzione.
«La tua permanenza qui da noi sta per finire. Hai pensato a
dove andare? Nel tuo paese, sarai ben solo e sei ancora troppo giovane per
vivere in una casa vuota. Il padrone con il quale hai fatto l’apprendistato
sarebbe d’accordo a tenerti come operaio e noi potremmo mettere una stanza a
tua disposizione, almeno per questi due anni prima del servizio militare. Ti
costerebbe poco, potresti risparmiare buona parte del tuo stipendio e così dopo
il militare potresti partire con una buona base… Pensaci.»
Donato
partì una mattina col treno fino a Locarno, poi salì in Valle Onsernone col bus
postale fino a Loco. Col passare del tempo, non era più tornato in valle che
poche volte e si sentiva del tutto estraneo. Si fermò al ristorante della
Tamborna per bere la birra. La gente non lo riconosceva e lui non si fece
riconoscere.
Poi andò al ricovero. La Zia Celestina era seduta su una
poltrona, un po’ in disparte. Rimaneva ben poco della donna energica e
sbrigativa che qualche anno prima correva su e giù per i prati, portava i gerli
pieni di patate e spaccava la legna come un uomo. Era diventata piccola e
magrolina, ripiegata su sé stessa. La pelle delle sue mani era diventata trasparente
come carta velina; i suoi cappelli grigi erano diventati bianchi e radi.
«Zia», disse Donato posando la sua mano vigorosa e calda
sulla manina stropicciata e fredda di lei. «Sono io, Donato…»
«Donato…» rispose la Zia. «Sei venuto a trovarmi…»
Donato capì che la zia stava diventando cieca, ma l’udito
era ancora buono e si sedette sulla sedia vicina.
«Volete un caffè, voi due?» chiese Suor Eudosia.
Aspettarono il caffè. La zia allungò la mano con cautela,
sentì il piattino, prese il manico e portò prudentemente la tazzina alla bocca.
«Ah, ma questo è Donato», disse Suor Eudosia con sorpresa.
«Ragazzo, come sei cambiato! Fai bene a venire a trovare tua zia. Guarda che
non fa mica tanto giudizio e se va avanti a mangiare meno di un uccellino, non
tira avanti un pezzo. Già che sei qua, falle mandar giù questo pezzo di torta…»
«Non ho più fame», disse Celestina. «Come se mi si
chiudesse lo stomaco. Sono stanca, non ho più voglia…»
«Zia», disse Donato. «Io sono stato in collegio fino ad
ora. Sai bene che dovevo farlo. Sono venuto per farti vedere il mio diploma.
Senti, ecco: dammi la mano, vedi com’è grande. E qui c’è la firma del Padre
Superiore, e qui quella del mio datore di lavoro, dove ho fatto
l’apprendistato. Adesso sono elettricista, posso lavorare. Tu mi hai tenuto
come un figlio. Sono venuto per chiederti cosa devo fare. Se vuoi, torniamo
tutti e due ad abitare a Vergeletto. Io alla mattina posso prendere il postale
e andare a lavorare a Locarno…»
La Zia Celestina alzò la mano.
«Sono contenta che ce l’hai fatta. Sei un bravo figliolo.
Sei gentile a pensare a tornare a casa ma, come vedi, sono quasi cieca, non
posso più stare da sola tutto il giorno. Poi d’inverno è troppo freddo solo con
il camino. Qui dalle Suore sto bene. Tu sei giovane; devi farti la tua vita e
la tua famiglia…»
E Donato spiegò alla vecchia Zia le proposte del Padre
Superiore.
«Vedi», disse la Zia, «non sono l’unica a pensarla così.
Vieni a trovarmi ogni tanto; io ti ho sempre voluto bene e sarò contenta quando
verrai a trovarmi, ma devi pensare per la tua vita. Io la mia parte l’ho fatta
e adesso voglio riposare e morire tranquillamente. Vedi bene come le Suore mi
curano… Non sono mai stata così viziata. Sono contenta…»
«Zia, sei davvero contenta?»
«Sì, sono davvero contenta. Una vecchia come me ha solo
bisogno di poter morire in pace… Mi hanno detto che vogliono costruire un
ricovero anche a Russo. Fanno bene, perché noi vecchi da soli non ce la
facciamo più e poi tutto quel trambusto della vita moderna… Fa paura.»
Donato rimase seduto con lei tutto il pomeriggio.
Pezzettino per pezzettino, la Zia mangiò la torta e bevve il caffè.
Chiacchierarono gentilmente. La testa ce l’aveva ancora buona. Poi, Donato si
arrischiò a porre la domanda che reprimeva da molto tempo: «Zia, mia mamma, tu
sai dov’è?»
«Non si è più fatta sentire. L’assegno arriva dalla
California, ma la California è ben grande…»
«E mio padre, tu lo sai chi è?»
«Non si è mai saputo. Nora mi ha detto che era un soldato.
Non parlava italiano. Non è più tornato.»
«Perché mia mamma non è tornata? Si vergognava di me?»
«No, non si vergognava. Era una ragazza forte e coraggiosa.
Lei è andata via perché voleva lavorare per educarti e l’ha fatto: nemmeno una
volta è mancato l’assegno. Non si fa vedere, ma lei sa tutto di te. Vedrai che
ritornerà. Non ti ha dimenticato. Se non viene, ci sarà un motivo…»
E quando Donato era sul punto di andar via, la Zia
aggiunse: «Donato, non vivrò più a lungo. Quando non ci sarò più, ci saranno
altre persone ad aiutarti: Don Alberto, il Superiore del Collegio, Monsignor
Vescovo e, a Locarno, c’è l’avvocato Buonati. È una brava persona; è lui che ha
in mano le carte…»
Donato non ebbe il coraggio di rispondere con le solite
stupide frasi che si dicono agli anziani per far finta di credere che stiano
bene e che potrebbero ancora vivere diversi anni.
«Grazie, Zia», disse semplicemente. «Anch’io ti voglio bene
e ti sono riconoscente per tutto quanto hai fatto per me. Non ti dimenticherò.
Appena potrò, verrò a trovarti e, se hai bisogno, le Suore hanno il numero di
telefono del collegio.»
C’era qualcosa di terribile in quella situazione: anche se
si volevano bene, tra di loro c’era un grande distacco. Donato non poteva far
niente di più e la zia aveva fatto quanto aveva potuto. Era tutto lì.
Donato si sentì triste e impotente, ma quella sera,
arrivando davanti al cancello del collegio, si sentì sollevato.
«Ho parlato con la Zia», disse al Superiore. «Starò qui con
voi.»
La vita
di Donato continuò esattamente come prima, salvo che ora, alla domenica dopo il
pranzo, usciva sul Lago con un collega che aveva una barca. Quando erano
lontani dalla riva, lasciavano giù la vela e pescavano di frodo. Così Donato
imparò il piacere delle cose proibite, di nuotare nudo nel lago e di lasciarsi
asciugare dal vento.
Lontano, sull’altra riva, sorgevano le montagne. Donato si
sdraiava sul fondo della barca con le mani dietro la testa e le ginocchia
piegate uno sopra l’altro e, quando guardava le montagne che si alzavano nella
lontananza, il magone gli stringeva la gola.
La settimana passava meglio: sui cantieri, c’era poco tempo
per pensare. Tiravano fili elettrici recalcitranti nei tubi che facevano dei
gomiti calcolati male, discutevano coi proprietari che non capivano le
prescrizioni imposte dalle leggi e litigavano coi muratori che piazzavano le
scatole di derivazione secondo la loro fantasia invece di rispettare i piani
dell’architetto. Durante le pause, si sedevano al sole e si raccontavano
barzellette e pettegolezzi.
Tutto sommato, era un bell’ambiente. La paga andava
direttamente sul libretto di risparmio, ma mancava qualcosa e Donato sentiva di
non essere veramente felice.
Un giorno, vennero a chiamarlo mentre stava fissando un
lampadario esterno in cima ad una scala.
«Hanno telefonato le suore», disse il padrone. «Tua zia ha
avuto un colpetto. Se vuoi ancora vederla, devi partire subito…»
Ma quando arrivò a Loco, era troppo tardi; Zia Celestina
riposava nella camera mortuaria, tutta piccolina, con un musetto da bambina, in
una bara troppo grande.
«Devo stare
qua un paio di giorni», disse Donato al suo padrone per telefono. Poi, per la
prima volta dopo tanti anni, fece ritorno alla sua vecchia casa a Vergeletto.
Aprì la porta, poi le persiane. La casa era diventata buia, fredda, umida e
puzzava di muffa. I topi avevano rosicchiato un giornale e i pezzettini erano
sparsi su tutto il pavimento di granito. Il vento aveva soffiato la cenere e la
fuliggine fuori dal camino. La tela cerata che copriva il tavolo era coperta di
polvere e cagalette[30]
di topolini e ghiri. Le faine erano entrate durante l’inverno, avevano aperto
gli armadi e buttato giù diverse tazze che si erano spaccate per terra…
Donato si guardò in giro. Quella era diventata una casa
abbandonata, sporca e vuota. Le donne che qui si erano tramandate la vita erano
andate via; senza di loro, non c’era altro che desolazione e rovina.
Donato era stato spesso da solo ma, quando si sedette sullo
sgabello davanti al camino spento, con le lunghe colate marroni che l’acqua
piovana aveva tracciato nella fuliggine, gli sorse un’improvvisa impressione di
smarrimento che gli fece paura.
Da piccolo, aveva passato lì le ore più belle e più
calorose della sua vita. Adesso aveva i brividi, come se degli spiriti gli
stessero dietro alle spalle.
«Pensavo di dormire qua…»
Aprì la stanzetta; dappertutto la stessa pena. Il grande
armadio era aperto e i topi avevano fatto il nido tra le lenzuola di lino che
la Zia andava a lavare con tanta cura nel lavatoio con la cenere. Il materasso
di foglie di faggio era strappato e sul pavimento c’era di tutto… Donato chiuse
le imposte e la porta a chiave e se ne andò a prendere una stanza all’Osteria
della Capra Bianca.
«Sei il nipote della Celestina?» chiese Franchino, un
vecchio brontolone che stava bevendo il boccalino di Barbera mentre spulciava
il giornale.
«Sì.»
«Fai conto di ritornare qua?» chiese un altro, che
mescolava le carte prima della partita quotidiana.
«Non lo so», disse Donato, che non aveva voglia di parlare
e si sedette a lato del grande camino, nel quale bruciava lentamente un pezzo
di tronco.
La Zia fu seppellita. Nel campo santo, erano sepolti tutti
i parenti: il nonno che Donato non aveva mai conosciuto, la nonna, i genitori
di Nora che erano morti giovanissimi a causa della grippe e adesso la Zia Celestina.
Don Alberto aveva cantato il requiem, la gente era venuta a stringere la mano.
Chiesero cosa sarebbe successo coi beni. Sarebbero stati venduti? Donato non
diede risposta e partì al più presto con la scusa del bus postale che non
poteva mancare.
A
Locarno, l’avvocato Buonati lo fece sedere sulla poltrona di cuoio davanti alla
scrivania. Poi aprì una busta e ne estrasse un incarto dalla copertina gialla,
sulla quale era stampato «Confederazione Svizzera, Repubblica e Cantone del
Ticino, Pubblico Istrumento - testamento pubblico».
L’avvocato cominciò a leggere e a voltare le pagine. Donato
era intimidito e osservava le fotografie al muro e, quando l’avvocato chiuse
l’incarto, disse: «Mi scusi, ma non ho capito che cosa significa…»
«Ebbene», disse l’avvocato. «Significa che sua Zia
Celestina lascia a lei in esclusiva tutti i beni che lei stessa aveva ereditato
come ultima superstite della famiglia. Vale a dire: in paese di Vergeletto una
casa, una stalla e un terreno adibito a orto. Sopra il sentiero che va a
Gresso: un grande terreno, che di fatti è un prato che viene falciato. Sul
monte Piei: una cascina, un fienile e un grande prato che continua con un bel
pezzo di bosco. C’è ancora un bosco sulla strada per andare in Albezzona…
Inoltre, alla Banca dello Stato, è depositato un libretto sul quale arriva
regolarmente un assegno. Lei potrà disporre di questi beni al giorno in cui
compirà vent’anni… Sua zia mi ha chiesto di occuparmi dell’amministrazione dei
suoi beni nel corso di questi pochi mesi prima della sua maggiore età».
1966
Arrivò il
compleanno. Donato diventò maggiorenne e venne convocato per la scuola reclute.
Partì nella fanteria di montagna coi capelli rasati a zero, uno zaino di venti
chili sulle spalle, un fucile tra le mani e un casco sulla testa…
Seguirono quattro mesi di marce, di manovre e istruzioni,
di smontaggio e montaggio del fucile, di notti passate al freddo a fare da
sentinella nascosti nei cespugli e di esercitazioni nel poligono di tiro.
Donato era calmo di natura, capace del migliore
autocontrollo, e dimostrò di essere uno dei migliori tiratori.
Abituato al collegio, non ebbe alcuna difficoltà né con la
disciplina né tanto meno con la vita comunitaria. Anzi, gli sembrava tutto
normale e la vita militare gli piacque di più di quella d’elettricista sui
cantieri.
Durante le marce nei boschi e per le montagne, Donato si
sentì rivivere. Gli altri sudavano ed erano stanchi; lui camminava col passo
regolare che sembrava lento, ma alla fine sorpassava tutti gli altri. Quando si
fermavano su una qualche cima, si sedeva in disparte e, invece di fumare le
sigarette, guardava in giro col binocolo e provava a riconoscere le montagne
che si profilavano all’orizzonte. Di notte, mentre era di guardia, ascoltava
tutti i rumori che si svegliavano nel bosco. Riconosceva la corsetta leggera,
regolare e ben cadenzata della volpe; il passo più lento e prudente del
capriolo; le corse fantasiose e pazze delle faine. Era, dunque, quello che gli
era mancato per tutti quegli anni. Finalmente, aveva ritrovato il suo mondo: il
bosco, la montagna…
Verso la
fine della scuola reclute, il Colonnello fece un giro d’ispezione con tanto di
parate, arringhe e passaggi in rassegna delle truppe. Poi Donato fu chiamato in
ufficio. Bussò, entrò, si mise sull’attenti declinando cognome, nome e grado.
«Riposo», disse il Colonnello. «In questo corso, un paio di
soldati sono stati notati per la loro predisposizione alla carriera militare.
Lei di mestiere fa l’elettricista. È sicuro che questo sia il suo ideale di vita?»
«No», disse Donato, sottovoce e pensieroso.
«Quale sarebbe il suo ideale di vita?»
«Andare in montagna.»
«Perfetto. È aperto il bando di concorso per il
reclutamento di guardie di confine. Inoltre, farà i corsi d’ufficiale.
D’accordo?»
«Sì…» balbettò Donato, senza capire troppo bene cosa stesse
succedendo.
«Si rivolga ai suoi diretti superiori, che manderanno
avanti le pratiche. Complimenti, giovanotto, e auguri. Può andare».
1968
Così
Donato fu imbarcato in una carriera alla quale non aveva mai pensato e che,
difatti, gli andava a pennello. Si congedò sia dal collegio sia dal suo impiego
d’elettricista e raggiunse il suo nuovo posto alla dogana di Brissago.
Brissago era il posto idilliaco per eccellenza: il Lago
Maggiore si stendeva a perdita d’occhio e, dalla riva del lago, si alzava uno
straordinario anfiteatro di montagne. Il sole sorgeva dietro rilievi
lontanissimi, poi si specchiava tutto il giorno nell’acqua per tramontare
infine dietro altre montagne. Un posto magnifico! Là venivano molti forestieri
per passare le vacanze e lui aveva la fortuna di viverci ogni giorno!
Il servizio consisteva di diverse mansioni. Le più
fastidiose erano senz’altro il controllo delle persone e dei veicoli che
transitavano sulla strada, nonché la burocrazia noiosissima dei formulari e dei
moduli da riempire, delle tasse da calcolare, dei bauli da ispezionare.
I viaggiatori si fermavano e i doganieri chiedevano: «Merce
da dichiarare?»
«Niente.»
«Documenti, prego. Apra il baule.» E nel baule, si trovava mezzo
quintale di contrabbando… Allora cominciava tutta la trafila: vuotare, contare,
fermare, multare, denunciare…
«Che palle! Ma che palle!» pensava Donato, costretto ad
assumere comunque un atteggiamento professionale e dignitoso. «Li odio questi
bugiardi. Perché mai non possono dire la verità e pagare le tasse come tutti?
Tanto ci guadagnano lo stesso. Vogliono tutto; vogliono rubare, ingannare,
tradire… Li odio.»
E Donato diventava cattivo, faceva sballare fino all’ultima
valigetta e tassare fino all’ultimo flaconcino di profumo che non era stato
dichiarato, perché se questi lo avevano costretto alle cartacce, allora tanto
valeva andare fino in fondo e stare lì a scrivere tutto il giorno.
Il servizio sulla strada era il peggiore; alla sera,
tossiva a causa della tossicità dei gas di scarico che respirava. Quando faceva
caldo, doveva stare tutto il giorno sotto la stecca del sole nel fumo ancora
più puzzolente delle macchine. Quando pioveva o faceva freddo, erano otto ore
sofferte sotto il lungo e pesante cappotto e sempre con quelle facce imbecilli
dei furbacchioni che pensavano di fregarti per qualche bottiglia di vino o
qualche chilo di carne. Era più divertente quando il colpo diventava più
grosso: contrabbando di valute o di oro, ma anche lì ogni tanto la stupidità
faceva arrabbiare. Si poteva leggere quasi stampato sulla fronte di ogni
individuo lo stato della sua coscienza. E ogni tanto, succedeva il vero colpo
grosso: paraurti ripieni d’oro, sedili imbottiti di hashish, doppifondi
molleggiati da dollari… Ogni volta, Donato si chiedeva perché in tanti secoli
di contrabbando non si erano inventati sistemi più astuti: passare la dogana
con un carico proibito, quello era proprio il colmo della stoltezza.
Donato non avrebbe resistito a una professione così
monotona se non ci fosse stato il lato più piccante del mestiere: quelle
minigonne che risalivano quasi fino alle mutande e quelle gambe provocanti che
le avvenenti autiste divaricavano pericolosamente al momento della partenza,
per schiacciare simultaneamente il pedale della frizione e quello del gas. Era
un istante brevissimo: appena abbozzata la mossa, la macchina partiva e non si
vedeva più niente, ma l’eccitazione era tanto più grande se l’occhiata era
breve e quello era senza dubbio il lato più eccitante della professione.
Ogni volta, tentava di migliorare la sua strategia: faceva
uscire la signora per verificare il contenuto del baule, la faceva chinare in
avanti per alzare una coperta, la lasciava tornare al volante e continuava con
un occhio a leggere nome, cognome, stato civile, caratteristiche fisiche,
indirizzo, cittadinanza e con l’altro a osservare come lei si sedeva.
Automaticamente, un piede andava sul freno e l’altro restava a riposo e non si
vedeva niente… Ma in quell’istante in cui dava il via, i due piedi di colpo si
alzavano, piombavano sui pedali, le gambe si aprivano e già era troppo tardi;
era già tutto passato.
«Un giorno di questi, divento pazzo», pensava Donato. «Ne
fermerò una, aprirò la porta e andrò a verificare di persona, con i miei occhi,
cosa nasconde sotto e sopra il sedile…»
Non erano solo le donne a nascondere cose strane sotto i
sedili.
1974
Un
giorno, durante la pausa, mentre i suoi colleghi erano andati a bere il caffè,
Donato si trovava da solo a fare i controlli. Arrivò il suo compaesano Andrea,
con la sua vecchia automobile.
«Ciao», disse Andrea.
«Ciao», rispose Donato. «Cos’hai da nascondere?»
«Cosa vorresti che io abbia da nascondere…»
«Lo so io», disse Donato per scherzo, ma come vide Andrea
impallidire, gli venne davvero un sospetto. «Spegni il motore, esci dalla
macchina. Girati. Mani appoggiate sul tetto e guai se ti muovi!»
«Fai sul serio o fai per ridere?»
«Ho la faccia da ridere? Se non esci immediatamente chiamo
gli altri e allora sei fritto.»
Andrea uscì e si mise pancia in giù, chinato sopra la
macchina, mentre Donato alzava il sedile. Quello che vide lo fece rabbrividire…
«Sei matto», disse sottovoce, terrorizzato dall’idea di
dover denunciare un suo coetaneo, che per di più era stato il suo vicino di
banco alla scuola elementare di Vergeletto. «Se ti beccano con questo, vai in
galera per il resto dei tuoi giorni…»
«Ma se non mi becchi, starò bene per il resto dei miei
giorni e, se mi lasci andare, me ne ricorderò…»
A questo punto, gli altri uscirono dal ristorante e, non
appena videro l’uomo che veniva perquisito, accorsero allarmati.
«Che succede?» gridarono.
«Niente», disse Donato freddamente. «Era solo un brutto
scherzo per questo gaglioffo che mi picchiava quando eravamo a scuola. Questa
volta, ha capito chi comanda… Tirati via, furfante delle belle speranze, e
guarda di ricordarti la lezione…»
Andrea salì in macchina, si tirò la visiera sopra gli occhi
e partì in tromba. Appena fuori dal paese, abbassò i finestrini e con tutta la
potenza dei suoi polmoni intonò un “Va, pensiero” che non fu uno
scherzo.
Un’altra
cosa eccitante che capitava, ma raramente, era una sparatoria.
Una volta, era arrivata una macchina a grande velocità.
Invece di fermarsi, aveva accelerato ed era passata in tromba. I doganieri
avevano sguainato la pistola e sparato alle gomme, poi c’era stato un
inseguimento e quell’autista idiota, che non aveva nessuna via di scampo su
quella strada racchiusa tra la roccia e il lago, era appunto finito nel lago,
con le gambe rotte e le manette ai polsi…
Donato ripensò alla velocità con la quale aveva afferrato
la pistola, caricato, mirato e sparato senza la minima esitazione e fu convinto
che non avrebbe nemmeno esitato a sparare a una persona e anche a ucciderla.
Sparava con una precisione notevole. In momenti come quelli, un bersaglio era
un bersaglio e, se qualcuno si comportava da bersaglio, doveva aspettarsi di
essere trattato come tale…
Poi, gli venne un dubbio: «Che io sia un uomo pericoloso?»
Ripensava a quanto aveva detto la Zia prima di morire: sua
madre era una donna forte e coraggiosa. Quindi, lui doveva aver preso da sua
madre: anche lui era forte e coraggioso. E chissà suo padre? Durante le lunghe
ore di appostamento notturno, si chiedeva chi fosse stato quell’uomo misterioso
che non aveva mai conosciuto e che portava un nome così strano: Wilbur… Mai
sentito altrove. Era riconoscente a sua madre per avergli dato questo nome;
come una garanzia di qualcosa di maschile, di burbero, di volonteroso. Alla
lezione di tedesco, aveva imparato che Wille significa “volontà”. Un
giorno, avrebbe fatto chiarezza su quel padre scomparso nel nulla.
Un altro
lato appassionante del mestiere di guardia di confine era la sorveglianza in
barca sul lago. D’inverno, con le nebbie, il vento forte e le burrasche, ci si
poteva immaginare alla scoperta dell’Antartide con Adrien de Gerlache, di cui
aveva letto le avventure nei libri della biblioteca del collegio. D’estate, le
avventure erano ancora più esaltanti: il più delle volte, le barche portavano a
spasso ragazze e donne completamente nude che si tuffavano nel lago, nuotavano
alla maniera delle sirene coi capelli sciolti che galleggiavano intorno ai loro
corpi luccicanti al sole, come schegge di mica imprigionate nella loro ganga di
calcite. Poi, risalivano sulle barche e si dedicavano a lunghe sedute di
abbronzatura. Donato aspettava con impazienza di accedere ai gradi superiori
che gli avrebbero permesso di accostare le imbarcazioni, controllare il loro
contenuto e i documenti degli occupanti.
Fino ad allora, si sarebbe dovuto accontentare di scrutare
col binocolo, augurandosi che una di quelle barche affondasse, dandogli
finalmente l’occasione di portare in salvo, tra le sue braccia, le bagnanti
spaventate, che si sarebbero aggrappate con le loro braccia nude attorno a suo
collo… Le pattuglie estive sul lago erano la forma più piacevole della
vigilanza lungo i confini della patria.
Tuttavia - e lì il fondo del carattere di Donato ritornava
a galla - era quando poteva partecipare alle pattuglie in montagna che si
sentiva veramente nel suo ambiente. Partivano prima dell’alba, salivano fino
allo spartiacque che faceva da confine tra Italia e Svizzera e poi proseguivano
fino alla cima del Gridone, percorrendo la lunga cresta verso ovest per poi
scendere il sentiero delle guardie, la testa di Misello e Moneto e risalire
infine fino a Camedo, dove alloggiavano nella caserma.
La mattina seguente partivano verso il Pizzo Ruscada,
scendevano in Valle Onsernone e pernottavano nella casa delle guardie di
Spruga. Il giorno seguente, partivano verso Porcareccio e poi Cimalmotto, dove
terminava il territorio di loro competenza e poi tornavano indietro verso
Brissago. Questi erano i giorni più felici. Quando si poteva bivaccare nelle
cascine sugli alpeggi, era ancora meglio. L’animale selvatico che si celava
nella sua indole finì per liberarsi ed egli diventò agile, veloce,
instancabile. Soprattutto, Donato sentiva la montagna come nessun altro; ne
capiva gli odori, il caldo delle correnti ascensionali, la tensione
annunciatrice di temporali e, addirittura, di notte o nella nebbia, il suo
senso dell’orientamento era infallibile.
Una sera,
dopo una camminata estenuante, decisero di bivaccare nelle cascine dell’alpe
Ruscada. Donato si allontanò per dare un’occhiata nel vallone che scendeva
verso la Ribellasca e, come girò l’angolo della cascina, si trovò a qualche
metro da quattro giovani camosci che pascolavano tranquillamente nel prato. Si
fermò, aprì lentamente la custodia della pistola, ingaggiò un colpo nella
canna, tese il braccio destro appoggiando saldamente la mano destra nella mano
sinistra, alzò il mirino all’altezza dell’occhio, mirò, premette il grilletto:
il colpo partì, tre dei camosci saltarono via come saette e il quarto rimase
secco steso sul prato.
«Cosa fai?» gridarono gli altri arrivando di corsa.
«Ma cos’hai fatto!» gridò Silverio. «Sei impazzito?»
Imperturbabile, Donato andò a prendere il camoscio, lo
gettò sulla spalla e salì sotto un larice, dove lo sventrò come aveva visto
fare dai cacciatori, poi tornò in cascina con il fegato.
«Bracconiere», disse Donato. «Carne fresca confiscata…»
«Ma il colpo?» disse Fausto. «Dovrai giustificare che ti
manca un colpo…»
«Appunto: un colpo solo, per aria… Spaventato, è corso via
e ha lasciato la refurtiva sul prato…»
«Questo diventa matto», pensarono gli altri mentre lo
osservarono tritare i porcini raccolti durante la salita, il timo trovato nel
prato, le bacche di ginepro dei cespugli vicini e una delle cipolle che portava
sempre con sé. Fece soffriggere il tutto e ci buttò il fegato, che fece subito
una crosta bionda, croccante e profumata al punto che nessuno pensò di
resistere alla tentazione.
«Aperitivo», disse Donato lasciando gli altri ad asciugare
il tegame col pane. «E ora, filetto di camoscio al ginepro.»
E uscì per macellare il resto del giovane animale. Le
spalle e le cosce furono nascoste in sacchetti di plastica sotto un grosso
sasso nel riale, dove erano al sicuro come in un frigorifero, mentre i due
filetti furono tagliati a fette e delicatamente arrostiti nel burro fumante sul
tegame cosparso di bacche di ginepro e di grappa.
«Buonissimo… Incredibile… Mai mangiato nulla di così
buono!» disse Marzio, che era un ottimo cuoco. Ed era squisito davvero!
«Ma se vengono a saperlo, andrai in galera…» disse Claudio.
«Se vado in galera io, ci andremo in cinque», disse Donato
senza scomporsi. «Istigazione a delinquere, partecipazione a reato,
occultazione di prove…»
«E come mai?» protestò Fausto.
«La carne l’avete mangiata, sì o no? Allora, il corpo del
reato l’avete occultato, sì o no? Perciò, sarà meglio che state abbottonati,
perché ci siete dentro anche voi fino al collo… E anche fino allo stomaco.»
«Bastardo, avevi pensato a tutto…» disse Marzio, quasi
ammirato.
«Molto più di quanto pensi», disse Donato mentre scivolava
sorridendo nel suo sacco a pelo. «Però non era male; meglio che il tuo salame,
di sicuro…»
Avevano
proseguito fino a Cimalmotto e, sulla strada del ritorno, erano partiti prima
del solito per arrivare presto all’alpe Ruscada perché una coscia intera
richiedeva diverse ore per cuocere a fuoco lento. Passando vicino agli orti di
Spruga, avevano raccolto un ramo di rosmarino, un mazzetto di salvia, e il
resto lo raccolsero nel bosco e nel prato.
«Dov’è che hai imparato a cucinare?» chiese Marzio.
«La fame aguzza l’ingegno…»
Scorrazzando
per le montagne, Donato ricordò le cose utili che aveva imparato da bambino:
prendere le trote a mani nude, le lepri nei lacci e sparare agli uccelli. E,
mentre i suoi colleghi si strappavano i capelli enumerando i reati che
costituivano la caccia e la pesca fuori stagione e senza patente, Donato
cucinava per il godimento e la complicità che avrebbe legato i suoi colleghi a
un prudente silenzio.
Progressivamente, tutti vollero far parte della squadra
quando Donato era assegnato ai confini di montagna e, progressivamente, tutti
furono coinvolti nei reati golosi, così come nel silenzio.
«Mah», pensava Donato. «Non si sa mai…»
Tuttavia, non era il bracconaggio a occupare la sua mente.
Quello lo faceva per istinto e per mangiare. Invece, la sua vera preoccupazione
era ben altra. Ogni volta che era possibile, partiva nella conca che saliva da
Vergeletto verso Porcareccio, fino al confine con l’Italia. Sceglieva il
percorso più in alto. I suoi colleghi accettavano volentieri, perché più si va
in alto, più la strada è lunga e più si deve salire e più ci si stanca.
Invece, lui guardava ogni sasso, entrava in ogni cascina,
rastrellava sistematicamente ogni metro quadro alla ricerca di non sapeva quale
segno di passaggio che suo padre avrebbe potuto lasciare vent’anni prima…
Per ore e ore, girava e rigirava nella propria mente i
pochi elementi che possedeva: una mattina nel mese di novembre del 1945, un
uomo era partito a piedi da solo verso il fondo della valle, per non ritornare
più. Perché aveva scelto la valle di Vergeletto invece di quella di Spruga, che
portava più velocemente in Italia? Forse perché qui c’era meno pericolo
d’incontrare altra gente, forse perché si era sbagliato o perso… Forse perché sapeva
di trovare qui i suoi compagni e allora, in quel caso, c’era la possibilità che
si fosse salvato e che fosse tuttora in vita… Ma dove? E perché non era tornato
a cercare quella donna che gli aveva dato un figlio? Oppure era morto, oppure
aveva una famiglia altrove…
Donato non poteva capire che quest’uomo non aveva mai avuto
la curiosità di ritornare e di sapere quanto era successo… Aveva anche pensato
di indagare sul nome stesso, Wilbur. Era un nome o un cognome? In quale paese
si usava quel tipo di nomi? Ma se fosse stato un nome americano, non sarebbe
stato facile trovare un solo individuo tra i milioni di americani che c’erano
sul pianeta.
«Pazienza», pensava Donato. «È come essere appostati: se mi
capita sotto tiro, lo becco…»
Un
pomeriggio, erano appostati tra i cespugli sopra i monti di Brissago. Erano
saliti prima dell’alba da un’altra parte e, adesso, erano seduti tra le
ginestre sopra Cortaccio e osservavano il sentiero che saliva verso la cima del
Gridone.
Donato era capace di rimanere seduto per lunghe ore coi
gomiti appoggiati sulle ginocchia e gli occhi incollati al binocolo; non si
muoveva, non aveva mai crampi, non sembrava nemmeno respirare. Sembrava
addirittura che dormisse in quella posizione scomoda.
«Una guardia non dorme mai», rispondeva a quelli che lo
prendevano in giro. «Tutt’al più riposa, ma io nemmeno quello. Quando riposo,
vedo e sento tutto comunque…»
Quel giorno, seduto a strapiombo sopra Cortaccio, aveva
osservato le case del monte, una ad una. In piena settimana, non c’era anima
che si muovesse, fin quando non vide una macchietta chiara e strana su un
balcone. Stette a guardare a lungo e finalmente pensò: «Per quanto strano possa
essere, a me sembra che quelli siano due piedi che dondolano…» Il resto del
corpo non era visibile perché nascosto dal tetto spiovente. Era possibile che
qualcuno fosse seduto nella casa, coi piedi sul balcone.
Donato rimase seduto a fissare la strana macchietta che
sparì esattamente dopo due ore e ventisette minuti… Poi, sul retro della casa,
uscì una persona. Donato aggiustò le lenti del binocolo e guardò più
accuratamente: era una donna nuda che saliva nel giardino dietro casa… Poi la
vide fermarsi e star lì un bel po’ prima di tornare in casa…
Donato fece finta di niente e non disse nulla, ma il giorno
dopo, visto che era libero, salì senza farsi vedere e si piazzò in un angolino
da dove poteva osservare senza essere visto. Alle ore 8:00, si aprirono le
imposte delle finestre e ne uscì una donna che era ancora giovane. Era bionda e
i suoi capelli lunghi erano spettinati. Indossava solo una giacca di seta nera
appena legata attorno alla vita con la cintura.
Si sedette al sole, sulla panchina davanti al tavolo di
sasso, con le lunghe gambe nude incrociate per bere una tazza forse di caffè e
mangiare forse un pezzo di pane…
«Porca bestia!» pensò Donato nel suo dialetto che non aveva
più usato da quando aveva lasciato il suo villaggio per andare in collegio.
«Che gran toc da figa… Cosa starà mai
qui a fare da sola?» e si avvicinò, rimanendo prudentemente nascosto.
La donna entrò nella casa e, dopo poco, si sentì suonare il
pianoforte. Sicuramente stava imparando, perché ripeteva e ricominciava e
ancora risuonava lo stesso pezzo. Poi ci fu il silenzio e Donato cambiò angolo
di appostamento. Così, poté vedere che la donna era seduta tutta nuda su uno
sdraio che stava per metà nella stanza e per metà sul balcone.
Era quasi impossibile vederla. Stette a prendere il sole
per più di un’ora, poi si alzò, uscì sul retro della casa e salì nel giardino
e, lì sopra, c’era attaccata in cima a un melo una doccia alimentata
dall’idrante da giardino. La donna si piazzò sotto la doccia, aprì l’acqua che
spruzzò violentemente, lei gridò dalla sorpresa e rovesciò la testa
all’indietro.
L’acqua cadeva sul suo petto e scorreva lungo la sua
pancia, che istintivamente tirò in dentro mentre i suoi seni si alzavano e i
capezzoli induriti spuntavano verso il cielo come i fiori viola del larice.
Donato, ipnotizzato, cadde indietro e rimase seduto lì fin
quando diventò buio. Non riuscì a cacciar via quell’immagine; in ogni momento,
vedeva quei capezzoli alzarsi, ogni volta più provocanti. Sentiva nelle mani
quei seni diventare duri e coprirsi di pelle di gallina e anche lui sentiva la
pelle di gallina corrergli lungo la schiena.
Due sere dopo, tornò prudentemente al suo posto
d’osservazione. Sembrava tutto tranquillo; dopo qualche tempo, fu convinto che
nessun altro fosse in giro e che la donna seduta nel giardino fosse veramente
da sola.
Poi, salì sopra il paese e scese come se stesse tornando
dal Gridone e, passando davanti al giardino, entrò e andò direttamente verso la
fontana che scorreva sempre, come se avesse avuto l’abitudine di fare così ogni
volta che passava da quel sentiero. Poi, si girò di colpo, come se si fosse
accorto di una presenza e fingendo la sorpresa disse:
«Oh! Mi scusi. Non avevo visto che c’era qualcuno… Ah,
scusi, signora… È abitudine… L’acqua qui è così buona… E così fresca… Noi ci
fermiamo sempre…»
E mentre stava davanti alla fontana e guardava la donna,
continuava a prendere l’acqua nelle mani e a buttarsela in faccia per
rinfrescarsi. Poi passò le mani nei capelli, si asciugò la faccia e si strofinò
le braccia e le mani, mentre intanto guadagnava tempo sperando nel successo del
suo stratagemma.
«Prego», disse la donna. «In montagna, l’acqua è dovuta…
Viene da lontano?»
«Funziona!» pensò Donato, poi disse: «Sì e no. Un giretto
su per il Gridone… Due passi per stare in forma…»
Poi si persero in quei discorsi insulsi che non servono ad
altro che a popolare il tempo prima di arrivare al sodo.
Seguì il periodo in cui Donato era di servizio sulla strada
e, ogni sera, saliva sopra Cortaccio, poi faceva finta di scendere dalla
montagna prima di fermarsi a bere l’acqua della fontana nel giardino della
donna che si chiamava Elise, ma si faceva chiamare Lise o anche Lisa…
Una sera, Lise disse con molta esuberanza e alla francese:
«Oggi sono nate le fragole! Venga a vedere, sono bellissime!»
Salirono nell’orto dietro alla casa e, davvero, c’erano
almeno venti fragole rossissime. Lise ne colse una e la tese a Donato dicendo:
«Provi, non sono meravigliose?» sempre con l’accento francese e la sua erre
inconfondibile.
Erano ancora calde dal sole e profumate e grosse e carnose
e libidinose…
Da allora in poi, tutto quello che successe, fu colpa delle
fragole. Lise ne colse un’altra, la tenne per lo stelo e la presentò a Donato,
che allungò le labbra come per un bacio e, all’ultimo momento, invece di
afferrare la fragola chiuse il braccio intorno alla vita di Lise e baciò la sua
bocca nella maniera più scatenata che riuscì a immaginare…
Lise, con la sua esperienza, aveva fatto tutti i calcoli e
sapeva come e quando Donato sarebbe caduto nella trappola. Poi, da donna matura
ed esperta, condusse il gioco e il rituale lasciandosi scivolare tra le righe
di fragole, sganciando la cintura, accarezzando significativamente i fianchi
del ragazzo, che già non capiva più in che mondo si trovava.
A Lise bastò divaricare le gambe e Donato, travolto dalla
sorpresa e dall’impeto, la penetrò in un colpo solo, come se si fosse buttato
dal ponte d’Intragna.
«Che goduria, che goduria…» pensò Lise. «Decisamente, più
sono vecchi più sono saporiti, ma più sono giovani, più sono gustosi…»
Donato non pensò a niente, perché tutto ciò andava al di là
della sua capacità di pensare.
Da quella scoperta in poi, ogni sera, saliva fino a
Cortaccio per una nuova dose di stregoneria.
«E pensare che non ci avevo mai pensato prima!» rifletteva
lungo la strada del ritorno. «Quanto tempo perso! Tutta colpa dei preti che non
mi hanno mai detto come stanno le cose… Ma adesso, non c’è più nessuno che mi
ferma! Tanto, questa qua ne ha voglia e non ce n’è mai troppo…»
Per
fortuna, arrivò il servizio sul lago e poi il turno in montagna e passò quasi
un mese prima che Donato potesse ritornare a Cortaccio. Lise dal canto suo si
era buttata nel giardinaggio e nella musica. Quando Donato scese finalmente
lungo il sentiero, lei gli corse incontro senza più nessun ritegno.
Era splendida: quel soffio di giovinezza illuminava i suoi
quarant’anni. Raggiante e abbronzata, si buttava nella passione e se la godeva
tutta. Fecero l’amore come amanti assetati, sempre più esperti e sempre più
allenati e Donato era totalmente fuori dalla percezione normale della realtà.
Puntualmente, ogni sera, Donato tornava al suo posto.
Per forza, i suoi colleghi indovinarono quale strada avesse
imboccato.
«Sei matto!» gli disse Marco. «Quella è la moglie di un
Colonnello. Ti stai suicidando.»
Ma la tentazione era troppo forte. Come diceva Maupassant:
“Le tentazioni sono fatte per cederci, poi è come un ingranaggio; ci si passa
completamente…”
E difatti, una notte, capitò quello che doveva capitare.
«Con
permesso…» disse una voce venuta dal buio.
Né Donato, né Lise vi diedero retta e, travolti dalla
passione, seguirono il crescendo della loro follia per poi ricadere esausti
l’uno accanto all’altra.
«Ah», sospirò Donato. «Che buono, ma che buono…» Mescendo
in un unico orgasmo il ventaglio delle godurie che spaziavano dalle note
squisite dell’usignolo prima dell’alba fino all’olezzo del filetto di cinghiale
al pepe verde flambato al calvados, la cui ricetta aveva letto nella rivista
“La Cucina Francese dalla A alla Z”, che giaceva per terra nel bagno di Lise…
«Permesso», disse un’altra volta la voce, senza tuttavia
alzare il tono.
«Ciel!» esclamò Lise. «Ciel, mon mari![31]»
«Fermi tutti!» disse la voce nell’ombra. «Chi sono questi
serpenti che soffiano sopra la mia testa?» Parafrasando il celebre verso di
Racine nella sua Andromaque…
«Oddio, è di nuovo in fase alessandrina», disse Lise mentre
teneva Donato per un polso per impedirgli di saltare dalla finestra.
«Carissimo», disse Lise. «Ti presento Donato, un ragazzo
generoso che ogni sera ha montato la guardia senza mai vacillare davanti
all’ampiezza dell’impresa… Donato, caro mio, ecco mio marito, il Colonnello…»
«Povero me», pensò Donato. «Il Colonnello… Sono fottuto…»
«Riposo!» ordinò il Colonnello mentre si sedeva nella sua
poltrona. «Ma qui non c’è nulla per addolcire il palato?»
Lise si era alzata, tirò fuori i bicchieri e versò la
grappa ai mirtilli alla quale nessuno, nemmeno un militare di carriera, poteva resistere.
«Soldato Donato, a rapporto!» esclamò il Colonnello. «Nome,
cognome, arma, compagnia e tutto quanto. Avanti, ragazzo, sputi il rospo!»
«Beh», balbettò Donato mentre si tirava su i pantaloni. «A
dire il vero, nella mia anima e coscienza: Capitolo III, sezione I, articolo
27, coma 2 della Convenzione di Ginevra: “Le donne vanno specialmente
protette…” Insomma, Colonnello, sua moglie era qui da sola in balia dei
capricci della notte sulle cime deserte e degli azzardi inerenti alla
solitudine… E poi, lei non mi ha mica detto che c’era anche un marito. E poi,
posso assicurare sul mio onore che ho fatto il mio dovere senza indugio, né
risparmio delle mie energie…»
Poi Donato saltò davvero dalla finestra e non smise di
correre fin quando non cadde completamente esausto sul suo letto in caserma.
Ciò che sarebbe successo l’indomani era evidente.
«Sciagurato!»
disse il suo Comandante, riponendo la cornetta del telefono. «La moglie del
Colonnello!»
E così, una mattina, Donato si trovò in piedi sull’attenti
e da solo, in faccia ai suoi giudici: il Comandante delle guardie e il
Colonnello della moglie trascurata.
«È un affare che faremo fuori tra di noi», disse il
Colonnello. «Io di scandali non ne voglio, però questo saltapasti ha bisogno di
una lezione.»
«Se si viene a sapere», disse il Comandante. «L’onore della
mia brigata è perso! Si sapeva già che questo elemento sovversivo era un
bracconiere scalmanato; adesso, si rivela anche un perverso succube dei suoi
vizi carnali…»
Donato ascoltava in silenzio e ancora sull’attenti.
«Io, questo ragazzo, non posso tenerlo», disse il
Comandante. «Ci disonora tutti; mi contagerà gli uomini che sono già
ossessionati di natura e, vista la profusione di occasioni che fanno i
ladroni,… Chissà cosa mi combinerebbe ancora, questo…»
«La settimana prossima», disse il Colonnello. «Si apre un
bando di concorso per l’impiego di guardiacaccia… Lo sbatteremo nella guardia
della caccia, dei cacciatori e delle belve e ce lo toglieremo dai coglioni.»
«Non so niente della caccia», azzardò Donato.
«Silenzio! Guardiacaccia o corte marziale, scelga lei. Gli
argomenti li fornisco io», tuonò il Colonnello. «E le prometto la galera fino
all’età dell’andropausa…»
Spaventato da queste minacce che non capiva nemmeno, Donato
mormorò: «Guardiacaccia? Magari…»
«Eh,
beh?» chiesero i colleghi di Donato, quando uscì dall’ufficio del Comandante.
«Mutatis mutandis»,
disse Donato con una faccia sibillina e come aveva sentito dire da qualcuno nel
collegio. «Per una questione di mutande, eccomi multato e mutato. Però non
tutto il male vien per nuocere…» Infatti, non era mica colpa sua se le mogli
tradiscono i mariti. Anzi, lui era stato vittima del concorso di circostanze
aggravanti…
Rimpiangendo i lati positivi della professione di guardia
di confine, Donato salutò i suoi colleghi, fece il suo bagaglio, piegò la
lettera del Comandante, la mise nella tasca interna della sua giacca e andò a
salutare il resto della compagnia.
«Arrivederci», disse Donato. «Perché guardate che io ho la
memoria buona e per il resto: acqua in bocca…»
È allora che capirono quanto si erano divertiti e quanto
Donato sarebbe mancato: lasciava veramente un vuoto e forse un elemento del suo
calibro non si sarebbe mai più visto. Erano stati bei tempi e belle avventure, che
un giorno avrebbero avuto piacere di raccontare. Solo più tardi, però, perché
fin quando il tutto non fosse caduto in prescrizione, era meglio stare
abbottonati.
1978
Ad
Ascona, Donato scese dalla corriera ed entrò nel primo ristorante che vide, che
si chiamava l’Otello. Depositò
la sua valigia all’entrata e andò a sedersi su una delle panchine, chiese una
birra e si guardò in giro.
Dall’altra parte del ristorante, era seduta una signora dai
capelli bianchi. Accanto a lei, era seduto un cagnolino bianco a pelo lungo. La
signora beveva a piccoli sorsi un bicchiere di frizzantino e mangiava con un
piacere evidente un piatto sofisticato. Ogni tanto dava un pezzettino al
cagnolino e, vedendo come questo si leccava i baffi, doveva essere davvero
squisito.
«Mi potrebbe dire cosa sta mangiando quella signora?»
chiese Donato alla cameriera.
«È una nostra specialità», disse la cameriera dall’accento
spagnolo. «È una crêpe al Grand
Marnier con gelato alla vaniglia e crème Chantilly».
«Ne porti una anche a me», disse Donato, che aveva bisogno
di consolazione.
E, quando ebbe assaggiato, pensò: «Incredibile quante cose
t’insegnano le donne… Né i preti né in caserma … Qui tornerò… E chissà quante
cose scoprirò ancora!»
Donato finì la crêpe
poi, dopo un buon caffè, cominciò a sentirsi meglio.
«Ecco», pensò, «ecco come si sente un uomo libero… E
adesso, cosa facciamo?»
Scese sul lungolago, incrociò le mani dietro alla schiena e
camminò fino al Castello, poi tornò sui suoi passi e pensò: «Ma sì! Io la casa
ce l’ho; un posto dove andare, ce l’ho…» E salì sul bus postale per Vergeletto,
dove prese una camera all’Osteria della Capra Bianca.
All’indomani, scendendo verso la sua casa, si fermò al
negozietto per comperare un pacco di sacchi per la spazzatura, una scopa e
cinque scatole di fiammiferi.
Donato
aprì la porta e le imposte, poi cominciò a pulire. Quello che non poteva
bruciare nel camino lo metteva nei sacchi di plastica e, ogni volta che quattro
sacchi erano pieni, li portava nella pattumiera. I pochi mobili erano vecchi,
marci e mangiati dai tarli; non restò che bruciarli col resto.
Dopo il quarto giorno di lavoro, la casa era totalmente
vuota ma pulita. Donato aveva lavato diverse volte il pavimento e le grandi
lastre di granito facevano un bell’effetto. Poi vuotò completamente la stalla.
I topi scapparono in tutte le direzioni. Portò il vecchio fieno all’orto, con
l’intenzione di vangarlo sotto per piantare le patate la primavera successiva.
«Devo farti vedere qualcosa», disse Donato qualche giorno
più tardi al suo amico Silvio, che aveva un’impresa di costruzione. Andarono
fino alla casa. Silvio fece il giro poi entrò nella stalla.
«Cosa ne pensi?»
«Mah», disse Silvio. «Il tetto è buono. Basta cambiare un
paio di piode[32]
e aggiustare le altre. Non c’è la fognatura… Quello sarà il lavoro più grosso:
bisogna fare lo scavo per l’allacciamento. Bisogna chiedere i permessi in
comune… Se vuoi fare un bel lavoro, devi far fare i disegni e fare tutte le
richieste, anche per la luce, il contatore… È meglio che ti rivolga a un
architetto, così sei sicuro. Ci vorranno un paio di bigliettoni. Chiedi alla
Marirosa; ti farà un preventivo».
Marirosa fece lo stesso giro con, in mano, un blocco di
carta, una penna e un metro.
«Il tetto è buono», disse Marirosa a sua volta. «Il
problema sarà la fognatura; andrò a vedere in municipio, dove passa la
canalizzazione principale. Per conto mio, io terrei la casa il più possibile
com’è. Da fuori è bella; bisognerà cambiare le travi dei balconi e la scala… Si
potrebbero sfondare i muri tra la casa e la stalla, così al pianterreno avresti
la cucina che fa da soggiorno e, accanto, una saletta come ufficio, mentre al
primo piano avresti due belle camere e sopra la stalla, lo spazio per il
bagno.»
«Quanto mi costa?»
«Ti farò un preventivo.»
«Quanto tempo ci vuole?»
«Diversi mesi… Per finire tutto, un anno.»
«Aspetto il tuo preventivo…»
Donato chiuse porte e finestre e scese a Locarno. Il giorno
dopo, andò a chiedere consiglio all’avvocato Buonati, che parlò di banche,
prestiti, assicurazioni e tante cose che Donato non aveva mai considerato.
«Ha pensato ad aggiornare le assicurazioni?» chiese ancora
l’avvocato.
Ma di assicurazioni non ce n’erano, per cui andò a
Cavigliano, dove sapeva di trovare un altro tifoso dell’hockey club di Ambri,
che era assicuratore.
«Luigi, ho una casa a Vergeletto. Dovresti farmi
un’assicurazione.»
Luigi andò a controllare sul posto, poi consultò i registri
del comune, le stime del catasto e così via.
«Cos’hai ancora? Ci sono i boschi, terreni, la cascina dei
Piei… Altri beni? Gioielli? Mobili?» E prima di potersi rendere conto di quanto
capitava, Donato si trovò con un’assicurazione contro furti, incendi e tutti i
possibili danni della natura. Luigi si era fatto un buon cliente.
Donato se
ne andò tranquillo e, qualche giorno dopo, si presentò all’ufficio Caccia e
Pesca del Dipartimento dell’Ambiente, in Viale Franscini a Bellinzona.
«Avanti!» disse una voce.
«Buongiorno», disse Donato. «Vengo a presentarmi per il
concorso di guardiacaccia…»
Lo guardarono sbalorditi.
«Il concorso? Ma era il mese scorso…»
«Allora devo parlare col capo dell’ufficio.»
Lo fecero accomodare e aspettare e, dopo mezz’ora, lo
fecero entrare in un altro ufficio.
«Vengo per il concorso di guardiacaccia…»
«È un po’ tardi…»
Donato non disse niente, tese la busta stropicciata che
conteneva la lettera del Comandante, si sedette e aspettò.
Il capo ufficio lesse il contenuto, si sedette anche lui,
si passò le mani nei capelli, si alzò, camminò verso la finestra, mise le mani
nelle tasche del suo pantalone, poi con la mano destra si asciugò diverse volte
la bocca, che comunque non era bagnata… E finì per prendere il telefono.
«Mi passi il Direttore del Dipartimento… Ecco, Onorevole,
ho un piccolo problema che temo non rientri nelle mie competenze… Difatti,
sarebbe abbastanza confidenziale… Beh, insomma, è firmato da un Colonnello e da
un Comandante, guardi lei… Adesso? Va bene, glielo mando».
Il capo ufficio ritornò la lettera.
«La segretaria la condurrà nell’ufficio del Capo del
dipartimento. Tenga presente che si tratta di un Consigliere di Stato, che non
ha tempo da perdere…»
«Ho capito», rispose Donato, che di politica non sapeva
proprio niente.
Entrarono in una saletta. Il Capo si sedette, fece sedere Donato,
lesse la lettera, guardò Donato a lungo, poi attraverso la porta aperta chiamò
la segretaria.
«Mariella, per favore, mi chiami il Comandante del posto di
frontiera di Brissago». E quando Mariella gli tese la cornetta, egli disse
sorridente: «Sì, ciao, come stai? E quella cena? Ci siete anche voi? Ha, ha!
Tu, senti una cosa, ho qua la tua lettera e quel ragazzo, come si chiama già…
Donato qualcosa… Com’è questa storia? Ah, sì? Davvero? Quel vecchio caprone,
gli sta bene! Così impara a fare il cafone con donne giovani: è almeno la
quarta… Che ridere… Sì, sì, cambio di prato rallegra l’asino, ma non so poi se
gallo vecchio fa così buon brodo o se sa solamente di becco… No, non sono mai
stato geloso… Sì, è qui davanti a me, difatti è un po’ delicato… E allora, se è
così, vedrò cosa si può fare e poi sabato ne parliamo… Bon, ciao intanto…»
Poi, rivolgendosi a Donato con un’espressione seria e
preoccupata: «Bel colpo, giovanotto! Il concorso per guardiacaccia era proprio
un mese fa… E lei di caccia cosa ne sa? E di animali? Vabbè che quelli delle
valli sono tutti bracconieri…»
«Saranno forse bracconieri, ma comunque il voto di un
bracconiere vale il voto di un altro…»
«Vedo che sei impertinente e che impari velocemente…»
«Abbastanza…»
«Testa calda?»
«No! Quello no! Se guarda il mio libretto di tiro, vedrà
che sono uno dei migliori tiratori del Cantone.»
«Allora», disse l’Onorevole. «La situazione è la seguente:
lei non ha la formazione idonea per quanto riguarda caccia, pesca, selvaggina,
legge e tutto quanto; invece è un buon tiratore, buon conoscitore del
territorio, già guardia di confine, bracconiere patentato, faccia tosta e peli
sullo stomaco… Potrebbe diventare un ottimo guardiacaccia, solo che io per lei
non posso inventare un nuovo concorso. Dovrà aspettare il suo turno. Intanto,
manca personale al parco di Gudo. Se è d’accordo, comincerà lì, poi
accompagnerà le guardie secondo le necessità e così avrà il tempo di studiare
la legge e d’imparare tutto il resto. Tenga presente che questo è un favore che
io devo ad altre persone. Lei ha un’opportunità, ma una sola; non ce ne saranno
due, se lo tenga bene in mente e si regoli di conseguenza… Sarà meglio passare
all’acqua bassa invece di andare avanti a fare il furbo».
Così,
Donato si trovò a fare lo spazzino del Parco Naturalistico di Gudo. Doveva
pulire le gabbie, nutrire gli animali, curare quelli malati o feriti, tagliare
l’erba e così via, per uno stipendio decisamente misero. E ancora una volta,
ricominciò tutto da capo e si mise a studiare per passare l’esame e ottenere la
patente di caccia.
Progressivamente, cominciò ad accompagnare i guardiacaccia
e capì che questo era il mestiere tagliato su misura per lui: la maggior parte
dei trucchi li conosceva già e se la godeva pensando che era proprio vero che
per fare bene il guardiacaccia si deve essere un buon bracconiere.
1978, ancora.
Stava per
finire l’estate quando all’improvviso una violenta alluvione si abbatté sul
Canton Ticino. In una sola giornata di piogge torrenziali, Centovalli,
Onsernone, Valle Maggia, Valle Verzasca e tutto il Locarnese furono
letteralmente devastati e isolati dal resto del mondo: telefono interrotto,
strade franate, fiumi straripati, persone scomparse, fondivalle cancellati,
centri abitati portati via… Una catastrofe come non si era mai vista… Donato
era impegnato in Valle Morobbia e non pensò all’Onsernone fin quando dopo una
settimana il Municipio lo chiamò per telefono.
«Qui i danni sono stati spaventosi. Dovresti venire fin
qua… La tua casa… Insomma, il tetto ha ceduto e la tua casa è crollata… Si deve
provvedere in fretta, perché le macerie ostruiscono la contrada.»
«Ma tutte a me! E poi… il tetto era l’unica cosa buona
della casa», disse Donato di malumore.
«Ci saranno le assicurazioni», disse qualcuno più
informato.
«Luigi!» disse Donato battendo la mano sulla fronte.
Salirono insieme a Vergeletto e dovettero costatare la
desolazione generale: era passato un finimondo, che aveva spazzato via tutto.
«Ebbene», disse Luigi. «Con te, l’assicurazione Basilese fa
un brutto affare, ma guarda che la mia assicurazione non si tira mai indietro…
Faremo una perizia e sarai risarcito generosamente. Ringraziami che ti ho fatto
firmare i contratti fatti bene, altrimenti saresti sul lastrico…»
Bevettero la birra.
Le cose seguirono il loro corso: fu fatta la perizia, fu
sgomberato il rudere, Marirosa disegnò i piani, chiese i permessi e Silvio
intraprese la ricostruzione, o meglio, la costruzione,
perché non c’era più niente da ricostruire. Anzi, della casa vecchia non si
poté recuperare altro che il bel pavimento di granito; per il resto, fu tutto
rifatto a nuovo, con le idee nuove e le tecniche d’avanguardia, anche se lo
stile rimase quello tipico del paese: due piani e i famosi balconi di legno che
d’estate sarebbero scomparsi sotto cascate di gerani.
Donato
passò l’esame di caccia, poi finalmente venne il concorso di guardiacaccia. Fu
accettato e assegnato alla sua zona: Centovalli, Onsernone e Terre di Pedemonte
e così riprese a percorrere le sue amate montagne.
1980
In due
anni, la casa fu pronta ed egli si stabilì definitivamente nel paese da dov’era
partito più di vent’anni prima.
«Non ti manca più niente», gli disse Don Alberto. «Sei un
uomo maturo, hai una bella posizione, sei ben sistemato… Ti manca solo la
famiglia.»
«Ci pensavo anch’io…»
Per l’appunto, Donato era diventato un buon partito. Oltre
alla posizione assicurata e alla casa nuova, era anche un bel tipo: alto, ben
sviluppato, spalle larghe, bacino stretto e soprattutto magnifici occhi neri,
che luccicavano sotto la folta chioma di capelli scuri e ricci.
Era totalmente diverso dagli altri uomini del paese. Le
donne lo guardavano con rammarico, le ragazze con invidia… E qualcuna anche con
speranza. Ma lui non sapeva decidersi. Ormai, le donne erano sposate e la
lezione l’aveva imparata… Le ragazze più giovani erano insipide.
«Allora», disse Don Alberto. «Ragionaci su. Prendi un
foglio, scrivi tutti i nomi in verticale e i parametri in orizzontale:
bellezza, gentilezza, bacino largo per fare i figli, soldi, terreni, eredità,
posizione sociale, ecc. Poi fai le crocette e quella che ha più crocette, la
sposi…»
«Ma l’amore?» chiese Donato sorpreso.
«Ah, l’amore…» rispose Don Alberto. «Credimi, io di
matrimoni ne ho visti parecchi. I più appassionati sono quelli che sono durati
di meno. Invece, quelli tranquilli, con una buona dose di ragionevolezza, sono
quelli che durano di più. La passione passa… Due, tre anni al massimo, poi se
non c’è nient’altro, è il disastro. Per un buon matrimonio ci vogliono la simpatia,
il rispetto, interessi comuni e buon senso. Così, quando sono passate le
follie, si rimane legati da una buona amicizia ed è allora che nasce il vero
amore: la complicità, l’aiuto reciproco, l’impegno nell’educazione dei figli e
nella crescita della casa. E quando si arriva alla vecchiaia e alla resa dei
conti, ci si può rallegrare dell’opera costruita insieme. Dammi retta: vai sul
sicuro. Non te ne pentirai…»
Donato fece le crocette e rimase indeciso tra la figlia del
sindaco e quella di un ricco bernese che veniva là per le vacanze.
Ancora una volta, si rivolse all’Avvocato Buonati, che
indagò.
Sposare la figlia di un sindaco, si sa, è sempre un buon
affare. L’affare bernese era anche interessante. Quell’ingegnere aveva due
figli: un maschio per riprendere gli affari e una femmina che avrebbe ereditato
la metà del capitale della società…
Durante l’estate seguente, Donato fece qualche visita
all’ingegnere bernese con la scusa dei confini dei suoi terreni e della legna
del Patriziato. La ragazza non era male: alta, abbastanza piazzata,
biondissima, capelli lunghi, occhi blu-malva come le pervinche e un bel paio di
tette. In più, era ribelle, non voleva continuare l’università e non voleva far
altro che tenere le api, delle quali sapeva vita, morte e miracoli.
«Qui a Vergeletto, potrebbe avere le arnie», suggerì
Donato. «Potrebbe metterle sul mio monte e fare il miele di montagna.»
Il padre guardò sorpreso. Come? Quel matto era abbastanza
incosciente da interessarsi a quella figlia che non era nemmeno capace di
pelare le patate e non aveva nessun diploma?
«Potrei farle visitare il luogo», insistette Donato. «È
pienamente esposto a sud. Sopra c’è un bosco di larici e. appena più in basso.
ci sono dei castagni…»
«Mmh», disse Sigried, la ragazza ribelle. «Miele di
castagno; una squisitezza… Ben volentieri, verrò domani sera.»
«Se sono rose», pensò il padre. «Fioriranno, ma chissà
quanto questo brigante mi chiederà per sbarazzarmi di questa brigatista…»
Donato aspettò Sigried con la motocicletta e non erano
ancora partiti che tutto il paese parlava già di loro… Ormai le cose si
mettevano male per quelli che avevano già calcolato quali sarebbero stati i
vantaggi di un matrimonio tra Donato e una loro parente. Nelle alleanze
politiche, un voto può pesare sull’ago della bilancia. Ad altri sarebbe
piaciuto poter aggiungere ai loro terreni quelli di Donato. Ognuno aveva la sua
idea.
Donato e Sigried salirono sopra il monte Piei, guardarono
la tana del tasso, ascoltarono la ghiandaia e, quando cominciò l’imbrunire,
scesero verso le cascine del monte. L’enorme chiave girò nella serratura della
casetta. Donato accese i rametti secchi nel camino. Sigried trovò una coperta
che stese per terra e vi si sedette sopra. Donato aprì una bottiglia di vino e
venne a sedersi davanti al fuoco. Sigried depositò il suo bicchiere vuoto, poi
si chinò verso Donato e cominciò a sbottonargli la camicia, poi la cintura del
pantalone e, senza batter ciglio, cominciò ad accarezzarlo.
«Sei sicura?» chiese Donato, abbastanza meravigliato.
«Perché, tu no?»
«Questa è ancora più tremenda delle altre», pensò Donato.
«È proprio la donna che fa per me…» In settimana, chiese all’Avvocato Buonati
di contattare il padre di Sigried per chiedere quali fossero i termini del
contratto.
«Le cose si mettono bene», disse l’avvocato Buonati a
Donato. «È una famiglia borghese abbastanza tradizionalista; i figli hanno
ricevuto una buona educazione, i genitori sono simpatici e vedono questo
matrimonio di buon occhio. Adesso tocca a lei fare la domanda al padre della
ragazza.»
«Io non sono capace di tanti fronzoli», disse Donato.
«Non è così difficile. Basta invitarlo a bere una buona
bottiglia. Tanto, lui sa già di cosa si tratta… Tra l’altro, ho qua depositata
da qualche tempo una pietrina che potrebbe essere quella giusta per un anello
di fidanzamento…» disse l’avvocato mentre toglieva da una busta una carta
velina piegata una volta in quattro e una volta in tre. La spiegò e apparve una
pietra rotonda abbastanza grossa.
«Cos’è?» chiese Donato sorpreso.
«È un diamante! Per gli anelli di fidanzamento si usano i
diamanti, mi sembra…»
«E cosa devo farne?»
«Le donne sono molto sensibili a questi dettagli. Allora,
una di queste sere chiede alla sua dulcinea se vuole davvero sposarsi e se dice
di sì, andate da un gioielliere per prendere le misure e decidere il modello
che piacerà alla signorina…»
«Ma no!» sospirò Donato. «Anche quello! Io di gioiellieri
non ne conosco…»
«Quello che vale la pena di essere fatto, vale la pena di
essere ben fatto! Vada dalla mia amica Dora, sul lungolago di Ascona. È
onestissima, di estrema professionalità e ha buon gusto. Vedrà che non se ne
pentirà e che la signorina rimarrà alquanto impressionata e riconoscente
per tanta premura…»
«E quanto può valere questa sciocchezza di diamante?»
«A occhio e croce, un buon venti o trentamila franchi di
sicuro, se non di più… Per cui, non lo perda e lo faccia montare da chi se ne
intende.»
Donato mise la busta con la pietrina nel taschino e tornò a
casa, convinto che mai sarebbe riuscito ad abituarsi alle stravaganze
femminili. Poi, seguì il consiglio dell’avvocato e, una sera, di sorpresa
chiese a Sigried: «Tu cosa ne dici di mettere le tue arnie ai Piei?»
«A me sembra una buona cosa…»
«Affare fatto!»
Scesero ad Ascona, ma senza che Sigried conoscesse il
motivo dell’escursione.
«Ecco», disse Donato alla Signora Dora. «L’avvocato Buonati
mi ha consigliato di rivolgermi a lei per fare qualcosa con questo.»
Donato depositò la busta sul tavolo.
«Prego», disse Dora mentre avanzava le poltroncine. «Sedetevi…»
Si sedettero tutti e tre, Dora aprì la busta, ne estrasse
la carta velina, la spiegò e apparve la pietra. Sigried spalancò gli occhi, ma
rimase silenziosa. Dora prese la pietra e la guardò, poi andò nell’ufficio a
prendere una lente più potente, si sedette, prese la pietra in una pinzetta,
avvicinò la lente, guardò a lungo e poi cominciò a scuotere la testa.
«Straordinario… Purissima, meravigliosa…» Poi, rivolgendosi
a Donato: «Dove ha trovato questa pietra?»
«Non lo so, faceva parte dell’eredità di una vecchia zia.
Lei era un po’ bizzarra e chissà da chi si è fatta consigliare… Avrà voluto
fare un investimento, cosa ne so io…»
«Dunque», disse Dora riprendendo la pietra sotto la lente.
«Per quanto riguarda la purezza, è sicuramente un Top Wesselton. Anzi, io direi
tra il Top Wesselton e il River, bel et
bien, ma per quanto riguarda il colore, ha una sfumatura impercettibile di
un blu viola, anzi malva, che non ho mai visto… Il taglio poi di questa pietra
è del tutto inaspettato: è un taglio all’antica! Un taglio “rose cut”!
Oggigiorno, non si tagliano più i diamanti in questa maniera; non saprei chi
sia ancora capace di questo tipo di capolavoro… Sono davvero confusa. Nel
passato, questo colore non si trovava e oggi questo taglio non esiste più… Insomma,
è un pezzo unico, d’inestimabile valore… È una pietra bellissima. A mio parere,
questo è un pezzo raro proveniente dalla collezione privata di una compagnia
come… Ma sì, potrebbe venire dalla Blue Star, una ditta di New York. Hanno un
loro filone particolare per trovare le pietre rare, che poi vengono lavorate
dai loro soci diamantari di Anversa che, ormai, sono tra i più misteriosi ed
esperti al mondo…».
«Mah!» disse Donato. «Sapevo che la zia Celestina mi voleva
bene, ma arrivare fino a queste stravaganze… Mi pare esagerato…»
Dora si era rituffata nella sua contemplazione.
«Nella mia carriera, non ho mai visto una pietra simile…
Questo colore, poi… A prima vista, sembra un bianco perfetto, poi al minimo
movimento appare questo stupendo blu che non è nemmeno blu, ma un viola tutto
particolare… Pervinca…»
Dora guardò Sigried, che seguiva il discorso in silenzio
con grandi occhi increduli.
«Ecco», disse Dora «Questo diamante ha lo stesso colore
degli occhi della signorina… Blu, viola… Pervinca… Meraviglioso…»
«Eh sì», disse Donato. «Di questa pietra noi volevamo fare
un anello…» Poi, un po’ imbarazzato, aggiunse: «Un anello di fidanzamento…»
Dora si lasciò andare alle congratulazioni, alle
considerazioni tecniche e professionali. Si prese la misura del dito, si decise
il modello della montatura, ci si congratulò a vicenda e, dopo tre ore, Donato
e Sigried uscirono dalla gioielleria. La sera era già ben avanzata; tutti gli
altri negozi erano chiusi, mentre la luna cominciava ad alzarsi sopra il Lago
Maggiore.
«Sei sicuro?» chiese Sigried.
«Perché? Tu no?» rispose Donato.
«Ma quella pietra, sarà molto costosa…»
«Sì, è molto cara. Solo che io non ho i soldi per
comperarne una a buon mercato. Allora, o ti accontenti di una cara che ho
trovato nella mia eredità o niente pietra del tutto, chiaro?»
«Mi accontenterò di quella… Ma adesso ho anche fame…»
«Anch’io ho fame!» disse Donato e, correndo, trascinò
Sigried per la mano verso l’angolo più scuro e nascosto della riva, la baciò
focosamente, alzò la sua gonna lunga e larga, le strappò la mutandina di pizzo
che si sbrindellò e fecero l’amore pazzamente, in piedi appoggiati contro il
tronco ruvido di una palma altissima, che oscillò come sotto le furie di un
temporale equatoriale.
«Ha! Che bontà!» disse Donato. «Adesso, saremo in
ipoglicemia e ti porto al pronto soccorso.»
Entrarono nel ristorante Otello, si sedettero in disparte
e, quando la cameriera venne a prendere le ordinazioni, Donato, come se fosse
andato lì ogni giorno, disse: «Due crêpes
al Grand Marnier, con gelato alla vaniglia e crême Chantilly e due
bicchieri di frizzantino…»
Sigried lo guardo esterrefatta.
«Sei davvero pieno di sorprese…»
«Sì», rispose Donato «E il peggio deve ancora venire…»
«Ti amerò fin quando continuerai a sorprendermi… Dopo, ne
prenderò un altro…»
«Allora, sono tranquillo, perché con quello che so, posso
sorprenderti per tutta una vita e con quello che non so… C’è da sorprendere me
stesso.»
Sigried si concentrò sulla sua crêpe e, ogni tanto, alzò lo sguardo verso Donato facendo dei “mmh”
suggestivi. Poi sembrò sprofondare in un’intensa meditazione.
«A penny for them…»
disse Donato, come l’aveva sentito in un film americano.
«Stavo avendo un nobile pensiero», disse Sigried,
sorridendo come se stesse sfottendo sé stessa. «Pensavo a questo meraviglioso
diamante. Ho letto la storia della colonizzazione del Sud Africa, della
scoperta delle miniere e dello sfruttamento sia dei popoli neri che
dell’ambiente. È una storia terribile: milioni di uomini hanno vissuto un destino
tragico e milioni di chilometri quadrati di natura sono stati saccheggiati
dallo scavo delle miniere. Uomini prepotenti e crudeli, come Cecil Rhodes,
hanno imperversato solo per cupidigia e sete di potere. E noi sciocche donne,
siamo orgogliose di portare al dito i diamanti nati nella sofferenza e nella
strafottenza… Se fossi onesta con me stessa, dovrei buttare questa pietra nel
Lago Maggiore… D’altronde, se lo facessi, non renderebbe né vita né dignità a
coloro che hanno sofferto e nemmeno punirebbe gli sfruttatori… Allora, cosa
devo fare? Io amo questa pietra perché è un tuo omaggio e perché è
un’espressione straordinaria della bellezza. Quindi porterò questa pietra
invece di buttarla nel lago, essendo però cosciente del suo prezzo, non solo in
franchi, ma anche in sofferenza e ingiustizia. Ciò mi permetterà di valutarla a
un più giusto valore… Se tutti coloro che portano metalli e pietre preziose
fossero coscienti del prezzo in vite umane e del sacrificio del patrimonio
ambientale, avrebbero più rispetto, più amore, più riguardo…»
«Nobile pensiero davvero», disse Donato alzando gli occhi
al cielo.
«Noi sessantottini…» disse Sigried con un sorriso
rassegnato.
1982
Un sabato
d’ottobre, tra il periodo di caccia alta e quello di caccia bassa, Donato e Sigried
si sposarono nella chiesa di Vergeletto.
Nella nicchia in fondo al coro, l’arcangelo Gabriele
discuteva con Maria e ai loro piedi troneggiava un’enorme composizione di gigli
bianchi. Nella cappella di sinistra, Sant’Antonio di Padova faceva il conto
degli oggetti smarriti che doveva restituire ai legittimi proprietari. Lui
aveva ricevuto una composizione di crisantemi del Giappone, bianchi anche loro.
Nella cappella di destra, immersa in una nuvola di piccole roselline bianche,
Sant’Anna presentava alla piccola Maria il libro sul quale era scritto:
«Combattere l’ignoranza!». Nella navata a lato del corridoio centrale, i banchi
portavano ognuno un cuscino di gipsofila bianca, nella quale erano intrecciati
rami di Phalaenopsis bianchi. Sull’altare, era invece depositata una
vaschetta d’argento nella quale galleggiava un’enorme Cattleya blu-malva
dell’esatto colore degli occhi di Sigried.
Mai la chiesa di Vergeletto era stata, non solo fiorita, ma
veramente decorata con profonda emozione, con slancio addirittura mistico.
Questi delicati abbinamenti, non solo erano squisiti, ma chi conosceva il
linguaggio dei fiori ne avrebbe capito il profondo significato: la purezza dei
gigli bianchi, la verità dei crisantemi bianchi, il merito delle rose bianche,
la bellezza delle orchidee. Ovviamente, era stata opera di un famoso fiorista
di Locarno.
Ormai Donato era da solo, ma i genitori di Sigried
invitarono trecento persone tra parenti, amici e tutta la gente del paese, che
fece buon viso…
Donato, che conosceva il fascino della divisa, si presentò
al matrimonio nella sua divisa di guardiacaccia. Sigried invece portava una
casacca lunga e un pantalone larghissimo di crepe di seta color avorio. Donato
le venne incontro e le presentò un mazzo di roselline selvatiche che era andato
a cogliere la mattina stessa.
«Stai attenta», disse Donato con un sorriso birichino. «Ci
ho lasciato le spine… Secondo il detto che la vita è una rosa, ogni petalo
un’illusione e ogni spina una realtà… Donna avvisata…»
«Uomo fregato…» continuò Sigried.
Donato entrò in chiesa al braccio della sua futura suocera,
Sigried al braccio di suo padre, poi seguirono i parenti vicini e gli altri
rimasero sul sagrato.
Al momento di infilare la fede al dito della sposa, Donato
guardò il diamante, la Cattleya sull’altare, gli occhi di sua moglie e
pensò che sì, erano tutti dello stesso colore. Ma tra tutti, quegli occhi erano
davvero i più belli. Poi sorrise e sottovoce, solo per loro due, mormorò:
«Questo anello è una trappola, come una tagliola…»
«Per te o per me?» rispose Sigried ugualmente sorridente e
sottovoce.
«Hmm, hmm, hmm…» si schiarì la voce Don Alberto, che aveva
intuito che quelle non fossero proprio le parole classiche del nuovo
catechismo.
Uscendo dalla chiesa, Donato e Sigried furono accolti dalla
parata d’onore: da un lato gli ex colleghi guardie di confine, dall’altro i
colleghi guardiacaccia, tutti in divisa. All’improvviso, tutti brandirono la
pistola sopra la testa e spararono una salva principesca, che ricordò loro le
avventure più rocambolesche della loro vita.
Sul sagrato ci si complimentò, ci si baciò, ci si fece gli
auguri e poi tutta la compagnia si diresse verso il fondovalle e il ristorante
“La Locanda”, dove Leo sorvegliava la grigliata e Corradino aspettava,
impaziente, con la fisarmonica tra le braccia.
L’arrivo
di Sigried in paese provocò l’emozione che suscita la paura dallo straniero
prima che egli sia collocato in una categoria rassicurante. Quella giovane e
bella donna, chissà quale demonio nascondeva sotto le sottane… Le tipiche case
di Vergeletto avevano i balconi di legno che scorrevano lungo i piani
superiori. Era anche usanza appendere il bucato ad asciugare da quei balconi.
Ben presto, si sparse l’inquietante notizia che Sigried non portava le mutande.
In passato, le donne non portavano le mutande e ci si ricordava che cosa
significasse; era una minaccia, come una mina vagante, assolutamente
incontrollabile…
Dopo qualche settimana, durante la cena, mentre Sigried
stava condendo la lattuga con aceto balsamico della Cantina Delea, Donato
chiese ridendo:
«È vero che non porti le mutande?»
«Cosa stai dicendo?»
«Gira voce in paese che non porti le mutande…»
«E perché mai?»
«Perché le pie donne osservano il bucato che stendi sui
balconi e non ci vedono mai né mutande né reggipetto… Puoi immaginare il
subbuglio…»
«Non ho mai portato il reggipetto e non credo sia il caso
di trattare le mie mutandine di seta come i tuoi vestiti da montagna… Non vanno
né in lavatrice né asciugate al sole e mi sembra che questi siano affari miei.
Dì a queste comari di non impicciarsi.»
«Anzi», disse Donato. «Da adesso in poi, non stendere più
nemmeno le mie mutande…»
Quando più tardi diventò evidente che Sigried si faceva i
fatti suoi senza interessarsi né partecipare ai pettegolezzi, le donne del
paese si sentirono offese perché disdegnate. Sigried non invitò mai nessuno a
venire a bere il caffè e, semmai qualcuno tentava di invitarla, lei rispondeva
cortesemente che purtroppo non aveva tempo e così rimase fuori dai guai.
La vita di Donato sembrò avviarsi verso un ritmo tranquillo
e regolato dalle stagioni.
Arrivò anche un bambino, che chiamarono Luca Alberto
Wilbur. Luca perché era un nome che piaceva loro, Alberto per riconoscenza a
Don Alberto che era stato così importante nella vita di Donato e Wilbur, ormai
come un’altra parentela.
Sigried partecipava alla vita professionale di Donato,
leggeva le riviste sulla caccia, studiava i libri di etologia, passava ore
seduta dietro a un masso per osservare i camosci nella bandita. Insieme, discutevano
dei fiori, delle api, degli animali e lei lo portava con la macchina così che potesse arrivare di sorpresa e piombare addosso ai
cacciatori e qualche volta anche ai bracconieri.
Non si sapeva mai, dove fosse e cosa facesse e Sigried
teneva bene la sua parte nel gioco, dava le risposte giuste al telefono e
faceva le domande ingegnose durante le cene.
Donato acquistò una reputazione notevole e spiccava tra i
colleghi perché i suoi suggerimenti erano interessanti e le sue obiezioni
motivate. Inoltre, era bello lavorare con lui perché sembrava sempre sapere una
pagina in più del libro. Quando il vecchio Francesco andò in pensione, era
evidente che lui sarebbe diventato il capo dei guardiacaccia.
«Auguri!» disse Francesco stringendogli la mano.
«Finalmente ti sei calmato e il posto te lo sei meritato.»
1985
Fu
bandito il concorso e Donato inoltrò la sua candidatura. Fu costernazione
generale, quando sul foglio ufficiale, venne pubblicato che non Donato, bensì
un oscuro guardacaccia della Val Bedretto era stato nominato al suo posto. Né
lui né sua moglie poterono crederci e, a sua insaputa, Sigried chiese un
appuntamento col Capo del Dipartimento dell’Ambiente.
«La ringrazio di avermi accordato qualche minuto», disse
Sigried col suo sorriso seducente. «Voglio capire quello che è successo con mio
marito.»
«Mi dispiace, Signora, questo è segreto d’ufficio. Non
posso dire niente. L’unica cosa che posso dire e, solamente con lei, per il
bene di suo marito… Ma mi deve promettere la sua assoluta discrezione e non
parlarne con nessuno; nemmeno con lui! Ecco, nel passato, ha commesso qualche
errore di gioventù imputabile alla sua impetuosità. Non sono errori gravi, ma
qualcuno se l’è legato al dito e gli errori si pagano, soprattutto quando vanno
di mezzo persone potenti. Non posso dire altro. Capirà che è meglio per tutti
osservare la più stretta discrezione…»
Sigried tornò a casa e, durante la cena, dopo il terzo
bicchiere di Villa Jelmini della Cantina Matasci, disse sbadatamente: «Insomma,
è meglio che tu possa continuare come prima. Se ti avessero nominato, avremmo
dovuto traslocare a Bellinzona e, lo sai, io in città non ci so stare… A mio
parere, quella decisione non è questione di qualità professionale, ma una
qualche volta avrai fatto qualcosa che non sarà piaciuto a qualcuno e quello se
la sarà legata al dito… Per fortuna che noi stiamo bene qua.»
«Sì», disse Donato, sorpreso al punto che il vino gli andò
di traverso. «Anche a me sarebbe dispiaciuto dover traslocare.» E per conto suo
tornò a pensare.
Donato
non aveva nemici, ma, insomma… Non tutti erano amici. Quando uno fa il
poliziotto, la guardia di confine, il guardiacaccia o semplicemente il suo
dovere di cittadino, provoca malcontento. I casi erano tanti. In dogana, aveva
fatto pagare tasse e multe. Come guardiacaccia, aveva dato altre multe,
ritirato patenti, confiscato fucili e prede. Addirittura, qualcuno gli aveva
sparato dietro e, quando fu interrogato dalla polizia, questo disse
semplicemente: «Non ho visto che era il guardiacaccia. Ho visto muoversi
qualcosa, ho pensato che fosse una beccaccia…»
Insomma, scambiare un guardiacaccia per una beccaccia era
un po’ grossa… Però, le cose stavano ancora peggio se uno vedeva gli scandali e
li denunciava. Tutti sapevano che tale maestro di scuola aveva preso la carica
solamente perché era del partito giusto, sotto la legislatura giusta. Quando
Donato aveva cominciato a reclamare in municipio, gli era stato risposto: «Ma
fregatene. È così dappertutto; se sei nella manica, sei dalla parte giusta.
Queste sono tutte sinergie. Invece di borbottare, prova anche tu a fare un
qualche piacere e vedrai, anche tu avrai un tornaconto…»
L’educazione alla moda vecchia ricevuta dai preti e la vita
militare avevano forgiato il carattere di Donato, che non riusciva a scendere a
quei compromessi: la guerra sì, la corruzione no…
Quando aveva costruito la casa nuova, aveva pagato un
architetto per fare le cose in ordine, rispettando la legge e le ordinanze.
Quando aveva visto in giro gli abusi edilizi - qui una mansarda, là un garage,
altrove una discarica abusiva - e ne vedeva ogni giorno, li aveva denunciati.
Addirittura, conosceva un sindaco che di professione era
imbianchino e accordava i permessi di costruzione a condizione che la sua ditta
imbiancasse l’immobile nuovo! Per non parlare delle stalle che non rispettavano
le norme dell’igiene, dei tagli abusivi di alberi, delle strade private
concesse per favore, delle strade agro-silvo-pastorali che non conducevano a
null’altro che a monti privati… E senza parlare nemmeno di un certo piano
regolatore… In vent’anni di vigilanza, Donato aveva visto un campionario
d’infrazioni alla legge che sorpassava ogni immaginazione e, lui, da
funzionario cosciente del suo dovere, aveva denunciato, multato, ricorso e,
probabilmente, non tutti erano rimasti amici…
C’era anche stato un
episodio tragico: egli aveva interpellato un gruppo di banconieri. Nel
tentativo di fuggire, uno di loro era scivolato e si era ammazzato e gli altri
avevano promesso di mai dimenticare…
Poi c’era
una storia, sì, piccante, però anche noiosa. Un giorno, una magnifica giornata
di settembre, mentre osservava due cacciatori che si comportavano in maniera
più che sospetta, Donato era arrivato su un monte sul quale si trovavano
diverse costruzioni. Una di queste cascine apparteneva a un avvocato ben
conosciuto, che con un’esagerazione di voli d’elicottero l’aveva fatta
riattare. Il prato era stato vangato. L’elicottero aveva portato diversi
carichi di terra buona e letame. Un giardiniere era venuto per seminare erba
inglese e, ora, la tagliava regolarmente. Al posto della vecchia fontana,
adesso si trovava, al centro d’un tempietto rotondo, una vasca a forma di
conchiglia con, in mezzo, un delfino di marmo bianco dalla cui bocca sgorgava
un getto d’acqua, alla maniera delle fontane di Versailles. La vasca era
abbastanza grande per poter servire da doccia. Lungo le cinque colonne di
granito chiaro che supportavano la cupola del tempietto, erano state piantate
rose arrampicanti di color zafferano che fiorivano abbondantemente. Dall’altra
parte del prato, all’ombra di un pergolato, erano stati depositati un tavolo,
due panchine e un camino per fare le grigliate, il tutto naturalmente di
granito e portato dall’elicottero.
Donato conosceva il posto e aveva seguito l’evolversi dei
lavori con meraviglia, perché questo tipo di raffinatezza era a dir poco
inconsueto in montagna. Anzi, c’era da chiedersi sotto quale dicitura fosse
stata classificata la domanda di costruzione, supponendo che ci fosse stata.
Donato si avvicinò, sorpreso di sentire prima il profumo di
carne ai ferri, poi voci e schiamazzi. Di colpo, si trovò completamente
sbalordito davanti alla scena più stravagante che potesse aspettarsi. In mezzo
al prato, cinque uomini, personaggi conosciuti - un giornalista, un medico, un
impresario, il suo associato architetto e l’amico avvocato - tutti sposati e
padri di famiglia e tutti e cinque completamente nudi, in atteggiamenti
“bucolici”… fino al punto di piantarsi fiorellini tra i peli e nei capelli. Si
rincorrevano sul prato in punta di piedi, come i satiri della Grecia antica o i
“balabiott[33]” del Monte
Verità. In più, e questo per dei quarantenni era la cosa più ridicola, si
parlavano imitando il verso degli animali. Uno faceva la capra, un altro la
gallina, un altro faceva «cip cip» battendo le ali, uno faceva «bau bau» e
l’avvocato miagolava come una gatta in calore. E questo li faceva ridere fino
alle lacrime. Peggio di un film di Fellini.
Donato si fermò di colpo, ma ormai stava già in mezzo al prato.
Tutti si bloccarono, uno corse a rifugiarsi nella cascina, un altro saltò nella
vasca della fontana e altri ebbero addirittura la sfacciataggine di far finta
di coprirsi pudicamente, per quanto lì di pudore non ce ne fosse affatto.
Sorpreso, Donato non aveva trovato altro da dire che:
«Scusate il disturbo… Arrivederci e buona continuazione…» Poi, per conto suo,
«Che depravati! E pensare che è proprio quella gente lì che ti fa le prediche e
si comporta da sbruffone…»
Questi signori potevano non aver dimenticato la sua visita
improvvisa.
In
un’altra occasione, durante una delle sue perlustrazioni, Donato aveva trovato
in mezzo al bosco un campo di bellissime piante dalle foglie elegantemente
frastagliate.
«Che pianta è?» chiese Donato all’uomo che ci stava
lavorando.
«Sono pomodori tibetani», rispose l’altro senza batter
ciglio.
Col grande viavai e la moda dei viaggi in Oriente, nessuno
si sarebbe meravigliato che qualche alternativo avesse coltivato i pomodori
tibetani. Però, a Donato, qualcosa sembrò strano, ma fu solo qualche giorno più
tardi, mentre stava sotto la doccia, che gli venne il vero dubbio: se fosse
stata una coltura banale perché mai avevano piantato quel campo in mezzo al
bosco e non semplicemente in campagna sotto il paese?
Donato chiamò i suoi ex-colleghi doganieri e diede le
coordinate del famoso campo.
«Avevi proprio ragione», gli disse Marzio. «Ti ricordi i
pomodori tibetani? Ebbene, i pomodori tibetani, di fatto, erano canapa indiana…
Abbiamo poi fatto un paio di voli con l’elicottero e non era l’unico campo».
Certamente, la denuncia di Donato aveva causato una perdita
di guadagno considerevole e, anche in questo caso, qualcuno se lo ricordava.
In
ultimo, naturalmente, c’era la storia del Colonnello e delle fragole…
Era probabile che uno di questi avesse messo lo zampino
nella sua mancata nomina. Ma l’esperienza aveva insegnato qualcosa.
«Bene», pensò Donato. «Me la fanno pagare? Benissimo;
anch’io gliela faccio pagare e se ne ricorderanno…»
Un giovedì mattina, Donato scese nel Sottoceneri e si recò
negli uffici della SocEl (Società Elitrasportatori).
«Ciao Andrea!» disse Donato.
«Ciao, vecchia volpe», rispose Andrea.
«Come vanno gli affari?»
«Come vedi: ho appena comperato un nuovo Superpuma[34];
non è un Kamov, ma insomma tira già mica male. Mia moglie fa una crociera nei
Caraibi, i nostri figli sono in collegio in una scuola Steiner in Svizzera
interna… Hai bisogno?»
«Sì, avrei proprio bisogno di un piccolo piacere.»
«Te l’ho detto quel giorno: non ti ho mai dimenticato.
Anzi, di te mi ricordo tutte le mattine quando apro le porte e guardo la mia
voliera… Vieni a vedere: due Alouette, un Lama, un Puma e un Superpuma nuovo
fiammante… Mica male per un principiante…»
«Ma non ti hanno mai chiesto da dove ti viene la grana?»
«Sai, le banche, i sussidi, la LIM, i contributi, gli assegni per i figli e tutte
quelle balle lì…»
«Stai scherzando…»
«No, dammi retta. Se rubi cinque centesimi sei un ladro; se
rubi cinque milioni sei un commercialista… E io, non ho mai rubato un franco…
Lo sai bene anche tu…»
«Ecco», disse Donato seriamente mentre chiudeva la porta
dell’ufficio. «Adesso, io ho bisogno dell’interesse del “capitale” che, si fa
per dire, abbiamo investito a Brissago dieci anni fa… Ti ricordi? Beh, mi serve
che ricambi quel “piccolo favore”…»
«Tu ed io siamo in società. Ho saputo che sei sposato anche
tu. Hai bisogno di soldi?»
«Dunque», disse Donato. «Mi hanno fatto uno sgambetto che
non mi è piaciuto affatto… Ho bisogno che tu mi faccia un paio di trasporti».
«Solo quello? Ti mando Nicola domani mattina… È il mio
miglior pilota.»
«No», disse Donato scuotendo la testa in maniera molto
pensierosa. «Ho bisogno di un lavoro pulito, senza testimoni e con la garanzia
di bocche chiuse.»
«Ma, dimmi, stai per fare il desperado anche tu?» chiese Andrea con gli occhi scintillanti.
«Cosa vuoi fare?»
«Non te lo dico. Mi basta che al giorno che ti dico, tu
stai lì col tuo velivolo, agganci la rete, me la porti dove ti dico io, la
lasci dove ti dico io e ritorni quando lo dico io… Non devi sapere altro.»
«No problem»,
disse Andrea. «Sono il miglior pilota della confederazione, come se avessi
fatto l’apprendistato in Vietnam… Quando vuoi, ci facciamo un Apocalypse Now coi fiocchi.»
«No!» disse Donato. «È piuttosto il contrario… Ni vu, ni connu[35]…
Nessuno deve sapere né vedere… Facciamo un’operazione di “intelligence”.»
«Merde alors!»
disse Andrea, che durante le trattative per acquistare i suoi velivoli negli
uffici dell’Aerospatiale a Marignane, aveva imparato il francese. «Adesso sì
che mi piaci… Ho sempre pensato che fossi uno sbudellato. Invece così, amico
mio, sono dalla tua parte… Ho qua un prototipo di GPS che ci permette
addirittura di volare di notte o con la nebbia… Non sai quanto mi annoio in
ufficio con queste segretarie che hanno sempre le loro cose, i clienti che
rubano sui minuti e le tasse che ti spremono… Se siamo in società, è anche
giusto dirmi cosa, come, quando…»
«Quando, te lo dirò. Come, te lo dirò. Quanto a cosa, non
devi nemmeno pensarci… Capito?»
«Ma sei diventato peggio di un boss mafioso… Ehi, ragazzo,
dov’è che hai fatto la scuola?»
«Non ho fatto nessuna scuola. È genetico… Dalla parte di
mio padre… C’è tutto un mondo da scoprire.»
«Ma se non ce l’hai nemmeno, il padre…»
«Questo lo dici tu…»
«Ok», disse Andrea. «Però fammi sapere il giorno prima:
anche un volo pirata devo farlo figurare come assolutamente regolare…»
1985
Da una
cabina telefonica, Donato chiamò suo cognato.
«Eric, ciao, sono Donato… Sì, sì, tutto bene… Ma devo parlarti
in privato, senza donne e senza famiglia…»
Passarono diverse settimane e, una mattina, Donato prese
l’autostrada del Gottardo con la scusa di andare a vedere i nuovi modelli di
carabine dall’armaiolo a Malters. Invece, si fermò al ristorante autostradale
di Erstfeld.
Eric lo aspettava già.
«Ciao!» disse Eric.
«Ciao!» rispose Donato.
Presero un caffè e dei cornetti caldi.
«Cosa c’è di così importante da fare queste manovre
segrete?»
«Se mi beccano, vado in galera, mi vendono la casa e tua sorella
si farà il marciapiede o te la tieni tu con mio figlio…»
«No!» disse Eric. «Mia sorella no! L’ho sopportata
vent’anni. Mai più, mai più! Cosa vuoi?»
«Non fare domande. Tu sei cacciatore, sei dentro in tutte
quelle cose… Ho bisogno di sei coppie di cinghiali giovani e vivi. Una ogni due
mesi.»
Eric rimase interdetto, ma la faccia di Donato era seria.
«D’accordo, nessun problema. Quando vuoi, come vuoi… Però
vengono dall’estero. Se è una cosa confidenziale, non so come farai a
dichiararli in dogana.»
«Con le dogane m’arrangio io… Acqua in bocca.»
«Acqua in bocca».
Il resto
fu un gioco da ragazzi.
Eric confermò a Donato che il furgone sarebbe arrivato.
Donato fece visita ai suoi ex-colleghi, vide chi era di servizio, si avvicinò a
una guardia dicendo sottovoce: «Ti ricordi il filetto di camoscio al ginepro? E
le trote al vino bianco? E i merli in umido? Beh, allora ricordati che quando
passerò tra mezz’ora sarà proprio il momento giusto per andare a berti un
caffè…»
Imbarazzata, la guardia volle rispondere.
«Grazie amico!» disse Donato. «Ho sempre saputo che su di
te potevo contare, soprattutto da quando vai a caccia e ti ho visto in
compagnia di una che di sicuro non era tua moglie…»
Partì per l’Italia e, quando tornò mezz’ora dopo, la
guardia gli chiese: «Merce da dichiarare?»
«Nessuna merce, solo effetti personali…»
«Passare!» disse la guardia facendo il saluto militare.
Quella
sera, all’imbrunire, Andrea aspettava con l’Alouette in una piazzuola discreta,
in una valle discosta. Donato aprì le porte del furgone, ne estrasse il sacco
bianco che si usa per i trasporti, lo agganciò al cavo e si sedette vicino ad
Andrea.
Tre minuti dopo, erano al posto giusto; Donato scendeva,
apriva le gabbie, faceva fuggire i cinghialetti nel bosco, risaliva
sull’elicottero, tornavano al posto di partenza ed era tutto lì… Davvero, ni vu, ni connu… Un volo ogni due mesi,
per dodici mesi.
«Siamo pari», disse Donato ad Andrea stringendogli la mano,
dopo l’ultimo volo.
«Adesso, silenzio e pazienza.»
«Quando vuoi, amico! E mi raccomando, le costine piacciono
anche a me…»
«Non solo le costine; vuoi ben vedere il filetto al pepe
verde…»
1986
Passò un
anno e poi, tutto d’un tratto, scoppiò la bomba…
Saltavano cinghiali dappertutto. Qui un prato era
rovistato, là un campo era spianato. I campi di granoturco diventarono il
bersaglio favorito dei buongustai a quattro zampe, che uscivano di notte dalla
foresta, facevano baldoria e sparivano com’erano venuti. I contadini si
arrabbiarono terribilmente perché i loro prati erano sottosopra e non era più
possibile falciarli con le macchine; si doveva fare tutto il lavoro a mano come
cento anni prima…
I prati verdi intorno alle cascine di vacanza furono
“vangati” e sembrarono peggio di campi di patate. Qualche giorno prima della vendemmia,
i vigneti furono saccheggiati. In più, qualche furbo pensò bene di lanciare la
voce che i cinghiali mangiavano i bambini, provocando indignazione e terrore
tra le pie donne dei paesi.
Il colpo finale lo diedero i cacciatori che, impreparati di
fronte al nuovo animale selvatico, spararono all’animale più grosso invece che
ai più piccoli e così uccisero le femmine trainanti che disciplinano il branco.
Le bande di giovani disorientati esplodevano provocando nello stesso tempo
l’esplosione dei danni… Un caos generalizzato!
Quando s’iniziò a chiedere da dove erano venuti questi
animali, i giornali si riempirono di teorie. Qualcuno spiegò che durante uno
degli ultimi inverni le importanti nevicate avevano abbattuto i recinti di un
allevamento e così gli animali erano scappati. Altri dissero che i cinghiali
avevano semplicemente varcato i confini dei paesi confinanti dove erano
presenti da sempre.
L’ufficio caccia e pesca si strappava i capelli. Ogni
giorno, arrivavano richieste di risarcimenti e domande per autorizzazioni
speciali di “guardiacampicoltura”. Ogni settimana, il capo dell’ufficio doveva
presidiare conferenze e serate. Sul governo piovvero interpellanze. Gli
ambientalisti si scatenarono contro i cinghiali per vendicarsi di tutti i piani
regolatori che erano stati sottratti ai loro ricorsi e iniziarono a ipotizzare
il ritorno del lupo…
Addirittura, il professor Boïtani, il “papà dei lupi”,
sarebbe venuto a fare una conferenza ai Ronchini di Aurigeno.
La bomba cinghiale era scoppiata e il Ticino non dormì più.
«Che noia», disse Donato a Sigried. «Adesso ci faranno
girare anche di notte…»
«Allora», rispose Sigried mentre spalmava il burro sul suo
toast. «Dovremo scopare di giorno, come ai bei tempi…»
«Incredibile», pensò Donato. «Pensa solo a quello… Sono
davvero un uomo fortunato.»
Intanto,
ogni notte, all’improvviso, i branchi di cinghiali uscivano dal bosco e, usando
la testa come aratri e il loro grugno come vomere mobile, partivano a caccia di
radici, vermi, topi e insetti, lasciando dopo le loro scorrerie un subbuglio
indescrivibile. Altri gruppi facevano man bassa dell’uva matura nei vigneti,
altri si godevano scorpacciate di lattuga e carote negli orti e tutti si
abbuffavano di mirtilli, funghi e castagne.
Gruppetti di cacciatori passarono le loro notti in agguato,
ma i cinghiali, che avevano un olfatto particolarmente efficace, sentivano la
loro presenza e cambiavano zona come per prenderli in giro. Ci furono anche
azioni vergognose: persone senza scrupoli depositarono mele in recinti,
attirarono i cinghiali e li massacrarono provocando subito urla d’indignazione
da parte degli animalisti. La confusione diventò generalizzata e grandiosa.
Tutte le volte che si parlava di cinghiali con Donato, egli
assumeva un’espressione enigmatica e rispondeva: «Quello è il ritorno della
biodiversità. È il futuro che avanza…»
5. Eva
1986
La
famiglia Edelmann non era particolarmente religiosa. Erano degli Ebrei “laici”,
se si poteva immaginare che gli Ebrei potessero essere laici. Tuttavia,
frequentavano regolarmente la sinagoga e, soprattutto, la biblioteca del Centro
Culturale che ne faceva parte.
«Figli miei», diceva Jacob Edelmann. «Studiate, leggete,
imparate, perché un Ebreo stupido può solo suicidarsi. Anzi, geneticamente, ci siamo
trasmessi l’obbligo di essere i migliori…»
«Dai, papà», rispondevano i figli. «Anche noi abbiamo il
diritto di essere stupidi…»
«No! Assolutamente no! Se sei stupido, sei fregato. Allez: Avanti, leggimi questa pagina
dello Stato Ebraico. Vedi, quel Theodor Herzl aveva capito tutto… E per favore,
cura il tuo accento. Se un israeliano ti sentisse, ti riderebbe in faccia…
Bene, adesso traduci questa pagina in inglese; è un ottimo esercizio… Avanti,
da questa frase in poi: “Se lo vorrete, non sarà un sogno”, eccetera. Avanti!
Ricordati che non usiamo nemmeno un millesimo delle possibilità del nostro
cervello perché siamo pigri e un Ebreo non può essere pigro…»
«Papà, sei veramente pesante», sospirava sua figlia. «Per
oggi basta…»
Per la famiglia Edelmann, la biblioteca, il Centro
Culturale e la rete informatica che si stava sviluppando erano pane quotidiano.
Dopo il
soggiorno di Ariel, gli Edelmann avevano contattato i loro conoscenti e sparso
la voce che un loro amico era alla ricerca delle tracce di sua sorella. Tracce
che si fermavano nel 1943 a Stresa.
Grazie al Centro Culturale, riuscirono a contattare le
diverse comunità ebraiche e, un giorno, Jacob ricevette una telefonata da
Lugano che segnalava una certa famiglia Falchetto a Obfelden.
Il Signor Edelmann prese contatto col Signor Falchetto e
spiegò di nuovo tutta la storia.
«Sarà meglio che ci incontriamo», disse il Signor
Falchetto.
S’incontrarono e, dopo le solite presentazioni e banalità,
il Signor Falchetto disse: «Nel 1943, ci è stato affidato un bambino; era
orfano. I suoi genitori erano morti in condizioni assai misteriose mentre
scappavano dall’Italia per rifugiarsi in Svizzera. Questo bambino si chiamava
Joshua, ma io l’ho adottato, è diventato mio figlio e ha preso il mio cognome.
Joshua adesso è un uomo di quarantacinque anni, è sposato e ha una figlia… Non
so se sia giusto riesumare queste vecchie storie dopo quasi cinquant’anni…»
«Non sono io che lo cerco, ma suo zio: il fratello di sua
madre. La nostra ditta è associata con la loro. Suo zio non è sposato e non ha
figli… Se avesse un erede, morirebbe più tranquillo e, se sapesse che ha potuto
fare qualcosa per il figlio di sua sorella, morirebbe felice…»
«Devo chiedere a Joshua. È lui che deve decidere.»
1987
«Ariel»,
disse Nora una sera tornando dall’Ufficio. «Credo di avere per te una notizia
straordinaria…»
«L’unica notizia che potrebbe essere straordinaria è che mi
regalano un kibbùtz con una piantagione di mandarini e un pezzo di
spiaggia sul Mar Rosso…»
«Banale… Questo ce l’hai già; puoi andare in Israele quando
e come vuoi… No, molto più straordinario… Forse abbiamo ritrovato tracce di tua
sorella.»
«Lea? Dov’è?»
«Non so molto. Ho ricevuto una telefonata in ufficio.
Quell’Edelmann di Zurigo ci chiede di andare a trovarlo…»
Quando
arrivarono a Zurigo, la famiglia Edelmann invitò la famiglia Falchetto e, con
loro, Joshua.
La cena fu lunga e finalmente, quando si arrivò al sigaro,
Joshua e Ariel si appartarono nell’ufficio del Signor Edelmann.
«Lei sarebbe mio zio?» chiese Joshua.
«Lo spero», disse Ariel. «L’unica cosa che posso dirti è
che mia sorella si chiamava Lea Levi, che si era sposata con David Coin di
Venezia e avevano un bambino che si chiamava Joshua. Poi sono capitate cose
terribili, hanno voluto fuggire e si sono rifugiati in Svizzera. Poi, si
perdono le loro tracce a Stresa…»
«Allora non c’è dubbio», disse Joshua.
«Un’ultima cosa», disse Ariel mentre apriva il collo della
camicia e ne estraeva un ciondolo a forma di stella di Davide. «Un gioiello
simile, l’hai mai visto?»
«Sì», disse Joshua. «Anch’io ho la stessa». Gliela fece
vede: le due stelle portavano nel loro centro lo stesso diamante.
«Allora davvero non c’è dubbio», disse Ariel. «Questa è una
vecchia tradizione nella nostra famiglia. Probabilmente, da quando abbiamo
cominciato a lavorare i diamanti. E noi siamo diamantari da sempre.»
«Anche mia figlia un giorno la porterà», disse Joshua
sorridendo.
«E tua madre?» chiese Ariel. «Cos’è capitato a tua madre?»
«Non l’ho mai saputo esattamente. Ero molto piccolo.
Ricordo che eravamo vicino a un grande lago, poi una sera siamo partiti con una
macchina. Dovevamo nasconderci e io non potevo parlare. Abbiamo viaggiato tutta
la notte e mi sono addormentato… Poi siamo rimasti in un fienile. Era una
vecchia casa di sasso senza finestre e c’era solo fieno. Alla sera, siamo
partiti a piedi per un sentiero. Eravamo forse dieci persone; abbiamo camminato
nel buio… La mamma era molto stanca. Io ero così piccolo; stavo in piedi
difficilmente e avevo una grande paura. Correvo il più velocemente possibile.
Poi, un uomo ha gridato qualcosa e tutti si sono messi a correre. Io ho corso,
ho seguito e quando ci siamo fermati, eravamo in un prato. Sotto di noi,
c’erano dei paesini di montagna. C’era una grandissima montagna davanti a noi,
dall’altra parte della valle. Non una punta come il Cervino; era piuttosto una
lunghissima parete di roccia… Io ero lì da solo, con gente che non conoscevo.
Chiedevo della mamma, chiamavo la mamma, ma non l’abbiamo mai più vista.
Abbiamo aspettato, un uomo è tornato indietro per vedere dov’erano rimasti gli
altri. Poi mi hanno detto che la mamma non sarebbe più venuta e mi hanno
portato con loro, non so dove. Mi hanno portato qui dalle persone che mi hanno
adottato. Non so niente di più. Ero piccolo. A volte mi chiedo quanto mi
ricordo davvero, quanto mi è stato raccontato…»
«Saresti capace di riconoscere quella montagna e quella
valle?»
«Sì, quella montagna, sì! La ricordo come se fosse ora
davanti a me. Potrei anche disegnarla.»
«Non hai mai fatto ricerche?»
«No, mi sono abituato all’idea da piccolo. Ho la mia
famiglia adottiva. Loro mi hanno sempre trattato come loro figlio e, se
cercassi i miei genitori, mi sembrerebbe scorretto nei loro confronti… Mi hanno
dato tutto e gliene sono riconoscente. Lavoro nella loro impresa e un giorno
sarà mia».
«Sei sposato e hai una figlia, giusto?»
«Sì, mia moglie Esther è maestra di musica. È una brava
pianista. Mia figlia Eva ha ventiquattro anni; lavora per una società
internazionale e viaggia molto. Eva è spesso in Israele. Quando era più
giovane, passava tutte le sue vacanze in un kibbùtz e credo che là abbia
un paio di spasimanti… Spero che avrai piacere di incontrarle».
«Certo, sarei molto felice di conoscerle. La nostra
famiglia è decimata; i superstiti devono stare vicini gli uni agli altri».
Poi si guardarono e rimasero in silenzio. Ariel prese le
mani di Joshua tra le sue, le portò alle sue labbra e pianse. Dopo tutti quegli
anni, ecco sua sorella, la sua piccola, fragile sorellina tramutata in un giovanotto
solido e deciso. La vita era proprio un mistero.
«Domenica abbiamo una festa», disse finalmente Joshua per
uscire dall’imbarazzo. «Spero che verrai con Nora».
«Certo», disse Ariel.
Poi continuarono a parlare di Nora, della famiglia a New
York, degli affari e della Blue Star.
1987, continua.
Quella
domenica, i saloni del Centro Culturale accanto alla sinagoga erano affollati.
Gli uomini portavano il completo scuro, le donne vestiti eleganti e Nora, per
l’occasione, vestì un modellino di Lanvin di seta bianca con disegni in dégradé
nero e grigi e una sciarpa inserita in una spalla penzolava dietro la
schiena. Il tutto era messo in risalto da una parure di perle, discreta ma bella. Nora non portava più i capelli
lunghi; non erano cortissimi, ballavano attorno al suo viso e sopra le spalle.
Sembrava ringiovanita.
Quando entrarono, Joshua venne verso di loro e li
accompagnò al buffet, dove già
diverse persone stavano chiacchierando con in mano un bicchiere di champagne.
Poi arrivarono Esther ed Eva e seguirono le presentazioni.
Esther guardò Ariel con gli occhi traboccanti di ammirazione: «Ma è veramente
lei? Ho assistito a tanti suoi concerti. Non sa quanto sono felice di
conoscerla di persona!»
«Ti prego, Esther. Sono tuo zio, dammi del tu.»
Tutti si servirono e continuarono a passeggiare chiacchierando
e scherzando. I biscotti cosparsi di semi di sesamo erano deliziosi e qualcuno
aveva portato un enorme vassoio stracolmo di dolci al miele, con datteri, pasta
di mandorle e creme di pistacchio che si abbinavano magnificamente con lo
champagne.
«Signor Levi!» disse un signore che Ariel aveva incontrato
diverse volte negli uffici della Blue Star. «Sempre in giro!»
«Ormai», rispose Ariel ridendo. «È un privilegio, ma anche
un grande spreco di energia…»
«È da tanto che è stato in Belgio? Come va la barca dei
folli?»
«Ha detto bene!» disse Ariel. «Lei si ricorda come il
Belgio fosse un paese unito, serio, pulito. Anzi, fin troppo tradizionalista.
Ebbene, adesso è il caos totale, con quelle storie tra Fiamminghi e Walloni.
Addirittura, le istituzioni sono state scisse in walloni e fiamminghe.
L’Orchestra Nazionale, per esempio: ora ce ne sono due e quando m’invitano, una
volta devo suonare “in francese” e l’altra volta devo suonare “in fiammingo”…
Tra l’altro, se si va a Bruxelles, di Belgi non se ne incontrano più. Con le
istituzioni internazionali, s’incontra gente di tutti i colori e di tutte le
razze e si sentono tutte le lingue salvo la nostra… Babele non era nulla a
confronto. L’ultima volta che sono stato a Bruxelles, non era più il mio
paese.»
«Non è solo a Bruxelles. In Gran Bretagna è lo stesso;
hanno l’immigrazione dal loro Commonwealth…»
«La Francia è colonizzata dai suoi ex-colonizzati.»
«L’islamizzazione dell’Europa», disse Ariel pensieroso.
«Chi l’avrebbe mai pensato?»
«Hanno letto il Libretto Rosso di Mao Tse-tung… “Il
soldato deve essere nel popolo come il pesce nel mare”. Ebbene, il Terzo Mondo
sta mandando la sua avanguardia, come preconizzava Machiavelli. E una mattina
ci sveglieremo con l’appello del muezzin.»
«Ma non crede che da buoni Ebrei siamo diventati
paranoici?»
«Dicevano così prima della guerra. Poi ha visto che non era
paranoia… Però, oggi, Israele c’è.»
Mentre
Ariel e il Signor Zimmermann continuavano la loro fantascienza politica, un
signore si diresse verso il centro della sala, batté le mani, chiese il
silenzio e disse: «Amici! Prima di tutto, grazie per essere venuti numerosi
alla nostra festa. Oggi, siamo onorati dalla presenza di due persone importanti
che hanno dedicato la loro vita alla nascita e alla crescita della nostra Terra
Promessa: abbiamo tra noi il grande violoncellista Ariel Levi e il famoso
Colonnello dell’aviazione militare israeliana, Wilbur John Erel. Desidero
esprimere a nome di tutti la nostra gratitudine e la grande gioia di poter,
insieme a queste due figure eroiche, bere alla Vita: L’chajim!»
Poi andò verso un signore molto alto, anziano, coi capelli
completamente grigi e il viso abbronzatissimo, che spiccava perché invece del
completo nero indossava una divisa militare chiara.
«Thank You»,
disse il Colonnello mentre alzava il suo bicchiere per brindare.
«Oh! Dio!» pensò Nora, che fu sul punto di svenire. «È lui! L’uomo dal cappotto… È lui!»
Nora chiuse gli occhi. Non ebbe nemmeno bisogno di
guardare; quella maniera di dire “thank you”, l’avrebbe riconosciuta tra
mille altre. Risuonava incisa nella sua memoria, come in un long-playing.
I brividi scorrevano lungo la sua colonna vertebrale e le stringevano la nuca,
come una mano ghiacciata.
Insensibilmente, Nora si avvicinò. Poi, nel suo inglese dal
forte accento americano, gli chiese:
«Come mai in Svizzera, Colonnello?»
«Mia cara», rispose con evidente disinvoltura. «Noi
militari israeliani serviamo la patria fino alla morte. Perciò, anche se siamo
in pensione, rimaniamo comunque sulla breccia… C’è sempre una piccolezza da
fare… Ci tiene giovani.»
Davvero era rimasto un bell’uomo, anche se adesso doveva
avere settantacinque anni. Gli occhi neri avevano acquistato più fascino nel
viso segnato dalla vita: occhiaie, rughe, tempie grigie e quell’abbronzatura
intensa che ricordava il colore della terracotta.
«Non sarà la prima volta che è in Svizzera?», chiese Nora.
«No, anzi. Ci vengo ogni tanto.»
«A vedere quanti amici ha, suppongo che ci viene da lungo
tempo…»
«Ah», disse il Colonnello alzando la mano in un segno di
piacevole ricordo. «Ero ben giovane quando ci sono passato per la prima volta…
Lei, cara, probabilmente non era ancora nata.»
Poi, con un sorriso tenero e lo sguardo eloquente,
aggiunse: «La prima volta erano tempi brutti. Anzi, estremi… Durante la guerra,
parecchie volte ho sfiorato il peggio. Però, qualche volta… Addirittura, se
oggi sono qua, lo devo a una ragazza che mi ha salvato la vita. È un po’
complicato e non desidero svelare i miei segreti… Basti dire che mi sono
trovato in condizioni disperate. Ero ricercato e inseguito da tutte le parti.
Ebbene, quella ragazzina mi ha nascosto, mi ha ridato coraggio e la forza di
continuare a lottare… Questa ragazzina mi ha veramente salvato la vita.
Ragazzina, si fa per dire… Sarà invecchiata anche lei. Se vive ancora, avrà
forse tra i cinquanta e i sessant’anni…»
«Non l’ha mai rivista?»
«Dopo la guerra, ho continuato la lotta di ogni giorno in
Israele; non c’è stato tempo da sprecare, ma non l’ho dimenticata…»
«Senz’altro nemmeno lei l’avrà dimenticato.»
«Chi lo sa…»
«Raramente le donne dimenticano uomini affascinanti come
lei. E chissà, forse in un qualche modo, anche lei avrà salvato la vita di
questa ragazza…»
«Chi lo sa? Ogni tanto si vorrebbe sapere e ogni tanto mi
dico che forse è meglio lasciare dormire il passato.»
«In Israele avrà la sua famiglia.»
«My dear, sono un
uomo vecchio… Le cose vissute sono molte. Avevo incontrato una donna in gamba:
era Maggiore nelle truppe di trasmissione. Ci siamo sposati, abbiamo avuto dei
figli, poi quando tutto sembrava evolvere verso tempi più tranquilli, lei è
stata uccisa sul confine con la Siria… Un’incursione dell’OLP. I miei figli
sono dei veri sabra[36].
E, dopo la morte della loro madre, hanno intrapreso la carriera militare anche
loro».
«Sì», disse Nora molto pensierosa. «Il Golan rimane un
grosso problema…»
«Lei s’interessa del nostro paese?» chiese il Colonnello
sorpreso.
«Marginalmente…»
Era troppo. Nora non riuscì ad andare avanti; le girava la
testa e le ondate di brividi adesso partivano dal suo plesso solare e la
invadevano tutta, fino alla punta delle dita. Quell’uomo era straordinario…
«Ma allora», pensò Nora all’improvviso. «Mio figlio è mezzo
ebreo anche lui…»
«Servizi segreti a colloquio?» chiese Eva scherzando mentre
raggiungeva Nora e il Colonnello. «Oppure ci degnerete della vostra
attenzione?»
«Ogni Israeliano è un agente segreto», disse il Colonnello
sorridendo a Nora come per spiegare la battuta di Eva. «Altrimenti, come
faremmo a resistere alla pressione costante che ci circonda?»
«Appunto, con la musica», disse Eva. «La musique adoucit
les moeurs[37]
e mia mamma è già al pianoforte. Lo Zio Ariel ha accettato di suonarci
qualcosa, anche se qua non ha che un misero violoncello in prestito».
Seguì un brillante Fünf Stücke im Volkston, op. 102
di Robert Schumann.
Mentre esplodevano le ovazioni, Ariel si alzò, prese la
mano di Esther, si chinò sopra e ci depositò un bacio. Poi, rivolgendosi ai
presenti, disse commosso: «Io non ho figli. Oggi, ho ritrovato non solo dei
nipoti, ma anche la più seducente pianista con cui abbia mai avuto la gioia di
suonare…»
Gli applausi raddoppiarono.
«Adesso, specialmente per i nostri illustri ospiti», disse
Eva mentre si avvicinava al pianoforte con un cenno complice a sua madre.
Esther suonò qualche accordo introduttivo, poi con una voce brillante, Eva
intonò: «A vir har im tsa lul ka ya in ve
re ach o ra nim ni sa be ru ach ha ar ba im im kol pa a mo nim[38]…»
La commovente canzone era nata in Israele dopo la guerra
del 1967 ed esprimeva l’aspirazione del popolo ebreo a ritornare a Gerusalemme;
nell’ultima strofa, il canto raccontava la realizzazione del sogno.
Tutti ripresero in coro: «Yerushalayim shel zahav[39]…»
E dopo gli applausi, Eva disse con un sorriso birichino: «Vede, Colonnello? Non
è inutile mandare le ragazze svizzere nei kibbùtz…»
«Non ne dubito, affatto…»
Eva era raggiante e spiccava tra le altre donne a causa dei
suoi lunghi capelli biondi e del vestito stravagante firmato Zandra Rhodes, che
aveva portato da Londra: sandali dorati col tacco, una gonna fucsia scuro
seminata da paillettes dorate. Sopra,
un corpetto attillato, una casacca di crepe di seta trasparente color fucsia
chiaro e rosa, abbondantemente ricamata d’oro e annodata alla vita da una larga
cintura di satino dello stesso fucsia della gonna. Rossetto rosa intonato con
la casacca e orecchini d’oro con enormi pendenti. Era straordinariamente
vistosa e magnifica.
Rivolgendosi a Joshua, il Colonnello disse: «Tua figlia è
splendida. A questa età sono belle e non sanno quanto sono provocanti… Se
avessi qualche anno di meno… Più divento vecchio, più mi piacciono le donne e
meno piaccio loro… Sarà un castigo di Dio per il vecchio peccatore che sono.»
Il pomeriggio e buona parte della serata trascorse con
canti, musica e gioiose chiacchierate. Una festa, una bella festa…
Nora si
era appartata, poi era andata sulla terrazza e si era seduta su una panchina
tra i cespugli di caprifoglio e clematide.
Ora le diventava chiaro. Non tutto, ma molto. Quell’uomo…
Sì, quell’uomo, lui e solo lui. Se fosse stato presente, lei sarebbe stata
capace di accettare un figlio; non sarebbe fuggita, non avrebbe voluto
diventare un’altra. Senza di lui, lei non era mai diventata una persona
completa. L’assenza di quell’uomo l’aveva derubata della sua femminilità. Con
lui, avrebbe fatto l’amore, altri figli; con lui, la sua vita sarebbe stata
completa… Sì, l’amore era unico. L’uomo era unico: quello e nessun altro.
La tenerezza di Ariel non sarebbe mai riuscita a colmare il
bisogno disperato di quell’altra metà del suo essere profondo. Quel “guerriero
solitario” se n’era andato da un conflitto all’altro, da una sofferenza
all’altra, trascinato da utopiche chimere. Anche lei, aveva vagato in terre
lontane, come una barca senza vela né ancora; come un cane smarrito senza
collare. Quanto avrebbe potuto essere diversa la loro vita. Che strano destino,
davvero… E quanto poco era bastato per sconvolgere l’esistenza di persone che
non avevano fatto che incrociarsi, invece d’incontrarsi.
Si chiese anche come mai non si fossero incontrati prima,
durante le tournée in Israele.
Nora sentì che Ariel poneva la stessa domanda… alla quale il Colonnello
rispose: “ Carissimo, preferisco il silenzio del deserto alla musica e le
tendine militari alle sale da concerto…”
Anche ad Ariel era mancata metà della propria personalità.
La guerra, la morte dei suoi genitori, la Shoah, il vagare per l’Europa, gli
USA e Israele, senza trovare terra ferma.
Avevano depredato Ariel di gran parte della sua vita: quella
felice e tranquilla. Anche lui era zoppo, anche lui era amputato.
Era evidente: loro due si erano aggrappati l’una all’altro;
si erano tenuti a galla a vicenda. Erano legati profondamente, ma quella
tenerezza non era l’amore di una vera coppia, ma solo un salvagente.
E quel popolo ebraico, con le sue tradizioni strane, le sue
malinconie quasi morbose, le sue esaltazioni quasi eccessive… Anch’esso era
squilibrato a causa di secoli di esilio, persecuzioni, di depredazione della sua vera personalità di
popolo libero.
Nora si sentì impotente e triste, perché capì quanto
significa il diritto alla pace, alla gioia, alla felicità: il diritto,
semplicemente, di vivere una vita normale.
«Starete
ancora a Zurigo un paio di giorni?» chiese Eva, che si era avvicinata.
«Mi dispiace», disse Nora. «Domani, abbiamo un appuntamento
importante a Locarno, ma ci vedremo spesso. Io non sono più impegnata ogni
giorno in ufficio e anche Ariel lavora meno. Adesso abbiamo più tempo per noi e
per la nostra famiglia ritrovata…»
«Anche mio padre sarà contento di rivedervi».
«Il Colonnello», chiese Nora. «Lo conosce bene?»
«Sì e no. Sa, questi militari sono tutti un po’
particolari. Soprattutto quelli delle forze aeree. Sono spavaldi, perché è
veramente un mestiere pericoloso. O muoiono giovani, o diventano come lui.»
«Che cosa starà facendo in Svizzera?»
«È segreto militare, ma tutti sanno che Israele ha bisogno
di apparecchiature di precisione per il proprio armamento. Se ho capito bene,
questa volta si tratta di ottica… Lui è esperto di balistica, per cui sarà qua
per trattare gli acquisti.»
«E lei come fa a saperlo e soprattutto a raccontarlo a
persone che conosce appena?»
«Bisogna sempre rispondere abbastanza da soddisfare la
curiosità, senza mai diventare indiscreti.»
«Brava», disse Nora. «Ha frequentato una buona scuola.»
«Abbastanza…» disse Eva sorridendo.
Alle ore
10:00 in punto della mattina seguente, Nora bussò alla porta dello studio
dell’avvocato Buonati, che venne ad aprire di persona.
«Signora Bietri, finalmente c’incontriamo di persona.» Poi,
tendendo la mano ad Ariel, aggiunse: «il Signor Levi, presumo?»
«Ariel Levi. Sì, avvocato.»
L’avvocato li condusse nel salottino in stile Louis XV.
Davanti alla finestra, una colonna di marmo bianco supportava una replica del Pensatore di Rodin; in un angolo, su un guéridon troneggiava un imponente vaso in cristallo di Val Saint
Lambert con un mazzo di rose color salmone. I muri erano decorati da vecchie
stampe che raffiguravano la città di Locarno, il Lungolago di Muralto e un paio
di disegni fatti da Turner durante il suo viaggio nelle Alpi.
Mentre si accomodavano sulle poltroncine, l’avvocato aprì
il mobiletto che conteneva bicchierini e caraffe dello stesso cristallo.
«Un bicchierino di Porto?»
«Sì, per favore…»
«Nora ed io, le siamo molto riconoscenti per tutto quello che
ha fatto e continua a fare per noi», disse Ariel.
«È davvero la prima volta che viene a Locarno?» chiese
l’avvocato.
«Sì, è la prima volta. È una cittadina squisita e,
fortunatamente, Nora ha scelto il Grand Hotel, dove stiamo veramente bene. Le aiuole
del Lungolago di Muralto contrastano decisamente coi marciapiedi osceni che
siamo costretti a calpestare a New York…»
«Grazie per le fotografie», interruppe Nora. «Quelle di Don
Alberto quando Donato era piccolo, poi le foto di classe quando era in collegio
e quelle bellissime del matrimonio, scattate dal fotografo Garbani. E stata
un’ottima idea di mandarci il giornale. E poi adesso, anche le foto con Luca…
Sembra un bambino bellissimo: tutto suo padre e le posso confermare che Donato
è il ritratto fedele di suo padre… Buon sangue non mente…».
«Cosa farete?» chiese l’avvocato Buonati. «Questa volta, si
farà conoscere?»
«No», disse Nora. «Andremo a Vergeletto, proveremo a vedere
mio figlio e la sua famiglia, ma non voglio rompere il loro equilibrio e la
loro tranquillità. Troppi anni sono passati; non si deve sconvolgere il
presente per un passato che oggi non ha più significato… Ariel mi ha portata in
Belgio, ad Anversa, nel campo di concentramento di Breendonk dove sono morti i
suoi genitori. Credo sia giusto che anche lui conosca i lati oscuri del mio
passato, ma niente di più…»
«Insomma», disse l’avvocato Buonati. «Anche se non siete
sposati, siete una di quelle rare coppie veramente unite…»
«Sì», disse Ariel. «Ma per noi è più che un semplice rapporto
di coppia; ci siamo salvati dalla disperazione a vicenda. Tra noi è stata una
questione di vita o di morte e più ancora: nella nostra vita, abbiamo avuto un
ideale comune…»
«Ancora un dettaglio», disse Nora. «Quando morirò, Donato
sarà il mio erede, ma non desidero che sia informato su tutto quanto: la Blue
Star, la mia attività, il mio posto nella famiglia Levi… Anzi, Ariel è
incaricato di vendere le mie partecipazioni alla Blue Star e il resto verrà
realizzato in modo che Donato riceva un capitale in franchi svizzeri, ma senza
spiegazioni inutili… Sì, sempre sul suo conto alla Banca dello Stato.»
«Non lascerà proprio niente di personale a suo figlio?»
«Non lo so… Ognuno di noi ha commesso degli errori e
compiuto delle scelte. Ho agito come pensavo di dover fare. Si poteva far
meglio… O piuttosto: non sono stata capace di fare meglio.»
«Signora, non è mai troppo tardi. Davvero è sicura che non
vuole parlare con suo figlio?»
«Avvocato, lei cosa farebbe?»
«Malgrado tutto, io vorrei una volta nella mia vita poter
abbracciare mio figlio…»
«Anch’io, ma lui?»
«Lasciamo queste domande in sospeso. Prossimamente, dovrò
vederlo per altre cose e farò domande discrete…»
«Lei per me non è solo un legale, ma anche un consigliere,
un vero amico… Non saprei come ringraziarla.»
«La fiducia che la vostra famiglia mi dà è già un
ringraziamento: in questo mondo d’inganni e di tradimenti, cosa c’è di più
prezioso della fiducia?»
Alla
ricezione del Grand Hotel, la Signora Pascale affidò Nora e Ariel al Signor
Olli, un autista discreto, una persona squisita.
Nel
pomeriggio, salirono in Valle Onsernone.
«È una bellissima valle», disse Ariel mentre salivano.
«Sì, è molto bella, selvaggia, povera… Purtroppo, ciò si
ripercuote sulla mentalità della gente… Quando sei povero, non hai niente: né
musica, né poesia, né bellezza…»
«Cosa intendi?»
«Quando sei povero, vivi senza qualità. A casa nostra, le
posate sono d’argento, i bicchieri di cristallo, i piatti di porcellana, la
tovaglia ricamata. Tutto ciò dà ad ogni pasto la bellezza di una cerimonia.
Quando sei povero, non hai nemmeno le posate e l’unica cosa bella è di non aver
fame. Tutto lì. Non c’è meraviglia, spirito, luce. A casa nostra, la preghiera
è la lode al Signore. Quando sei povero, c’è solo da mendicare. Si dice che la
gente ha la mentalità stretta come la valle dove abita. Da quanto mi ricordo,
purtroppo è vero… Ci sarà qualcuno diverso tra quelli che emigrano, imparano a
vedere il mondo e allargano le loro vedute, ma il più delle volte le persone
sono terribilmente ignoranti, meschine e anche cattive. L’ignoranza genera
sempre cattiveria…»
«Nora, quando eri giovane, qua, non eri felice.»
«No, non ero felice. Qui ho vissuto gli anni peggiori della
mia vita. L’affetto, la gentilezza, li ho incontrati per la prima volta nella
famiglia dei tuoi zii. Nella Blue Star, ho incontrato gente che si sentiva
responsabile degli altri, non solo della famiglia o della ditta, ma
responsabile del benessere, della felicità delle altre persone. Qui era la
lotta per la sopravvivenza allo stato crudo. Però, quando ci sei dentro, non
conosci altro. È solo quando fai la conoscenza di altri ambienti che puoi
valutare le differenze. Nella vostra famiglia, ognuno si preoccupa per l’altro
e questo io non potrò mai dimenticarlo. Non potrò mai ringraziare abbastanza la
vostra famiglia per avermi accolta e accettata…»
«Per noi è un dovere religioso accogliere lo straniero… Ma
è vero, la mia famiglia è particolare. Mio padre era eccezionale e mio zio è
una persona meravigliosa. Loro hanno sofferto molto e quindi possono capire
meglio le sofferenze degli altri».
«Sì», disse Nora. «È vero: i tuoi zii non mi hanno accolta
per dovere; l’hanno fatto per gentilezza. Anche Sara e Jona… Loro non hanno
sofferto, eppure sono generosi… Hanno un cuore. Ti ricordi l’accoglienza nei kibbùtz?
Erano generosi… Qui, la generosità non l’ho mai conosciuta. E ho paura che mio
figlio sia diventato come loro… È per questo che ero così felice che lui
sposasse una persona esterna, una bernese nata e cresciuta in città. Almeno,
così ha un’apertura sul mondo… Ho tanta paura d’incontrarlo. Ho paura che sia
diventato una persona cupa come gli altri.»
Si fermarono a bere il
caffè all’Osteria della Capra Bianca
dove Gianna Nannini stava cantando “Poi se ti
diverti, non la metti da parte un po' di felicità, anche tu, io vorrei
sognarti, ma ho perduto il sonno e la fantasia, anche tu… Questo amore è … »
C’erano
tante persone che parlavano, giocavano a carte, fumavano, bevevano…
«Scusi, Signora», disse Nora alla padrona. «Abbiamo letto
sul giornale “La Voce Onsernonese” che ci sono stati dei ripopolamenti di
stambecchi su queste montagne. Lei ne sa qualcosa?»
«Oh la la!» rispose Edy. «Non deve chiedere a me. Deve
chiedere a quel signore lì. Sì, quello coi cappelli neri ricci. Quello è
proprio il guardiacaccia…»
Nora fece due profondi respiri e pensò: «Stai calma, come
quando devi annunciare una catastrofe al consiglio di amministrazione. Se ce la
fai con quegli squali, ce la fai anche con tuo figlio… Io sono completamente
calma…»
Respirò un’altra volta e rispose a Edy: «Non potrebbe
invitare questo signore alla nostra tavola?»
«Come no?» disse Edy con la sua solita esuberanza, poi
gridò: «Donato! Vieni qua! Guarda che ci sono qui dei signori che vogliono
comperare degli stambecchi…»
«Cos’è ‘sta storia?» chiese Donato alzandosi e ridendo in
modo incredulo.
«Qui, questi signori…»
Ariel si era alzato e aveva disposto una sedia, invitando
Donato a sedersi.
«Beh», disse Nora. «Comperare è forse un po’ esagerato.
Ogni tanto leggo “La Voce Onsernonese” e ho seguito la storia degli stambecchi.
Mi sembrava una cosa curiosa e volevo solo sapere come va avanti…»
«Dall’accento, non siete di qua», disse Donato.
«No», disse Nora. «Siamo emigrati in America, ma ogni tanto
torniamo in Ticino per le vacanze… Sa, nei tempi, molti ticinesi emigravano in
America…»
«Sì», disse Donato. «Lo so fin troppo bene. Ma non tutti
tornano qua per le vacanze; ce ne sono anche che se ne vanno e se ne fregano di
quelli che restano in paese…»
«Come?», intervenne Ariel. «Lei crede veramente che si
possa dimenticare il paese dove si è nati? Non ci credo affatto…»
«Beh», rispose Donato bruscamente. «Se permette, io ne sono
convinto. Cosa volete sapere degli stambecchi?»
Prudentemente, Nora si avviò verso un interrogatorio in
regola a proposito degli stambecchi, spingendo Donato fin quando egli disse:
«Io qua non ho niente da mostrarvi ma, se v’interessa tanto, venite a casa mia;
vi farò vedere le cartine e le foto…» Poi gridò verso un bambino che stava
giocando a calcetto con altri ragazzini: «Luca, corri a casa e dì alla mamma che
abbiamo degli ospiti. Presto, che arriviamo!»
Luca cacciò fuori due occhi enormi e neri come il carbone e
disse in dialetto: «Non vorrai mica portare a casa quei due spaventapasseri? La
mamma si prende un colpo…»
«Zitto, monello», disse Donato. «E fila!»
«Tale nonno, tale padre, tale figlio», pensò Nora con
un’intensa gioia.
Mentre attraversavano il villaggio, Nora tentò di ricordare
le case e la gente, ma tutto sembrava cambiato. «Addirittura la casa paterna»,
pensò. «Non c’è più niente. La casa nuova è bella, ma la vecchia casa e la
vecchia stalla avevano un significato.»
Con la scusa degli stambecchi, Nora e Ariel passarono
diverse ore con Donato e la sua famiglia. Sigried preparò il caffè e fece
assaggiare il miele che producevano le sue api. Donato parlò della sua
professione. Nora capì quanto suo figlio vivesse intensamente il suo rapporto
con la natura e gli animali e capì che era un uomo felice.
Diverse volte fu sull’orlo di dirgli la verità, ma la paura
di interrompere e rovinare quella bella conversazione glielo impedì.
Luca raccontò le sue cosette, Ariel gli fece molte domande.
Nora poté immaginare com’era stato suo figlio quando era bambino. Non aveva
conosciuto quel bambino e ora capiva che avrebbe avuto bisogno di conoscere il
suo nipotino per compensare l’assenza di tutti quegli anni. Decise di consacrare a Luca gli anni che le
restavano da vivere. Sarebbero stati ancora tanti anni e sperava che potesse
dare a suo nipotino tutto quanto a suo figlio era stato ingiustamente negato.
Era come se fossero crollate le sue difese. Come se,
finalmente, si fosse lasciata travolgere dalla felicità di avere un figlio. Lo
guardava con tenerezza, con amore, e poi si sentì fiera, orgogliosa che
quell’uomo così maturo, così responsabile, ma anche allegro e aperto, fosse suo
figlio.
«Quando verrai in vacanza, tornerai ancora a trovarmi?»
chiese Luca ad Ariel mentre questo saliva in macchina.
«Se a te fa piacere», rispose Ariel. «Tornerò a trovarti, a
me farebbe piacere… A una condizione… Ti ricordi quello che tua mamma ha detto
del tuo libretto scolastico? Se quello diventa buono, verrò a vederlo e magari
un giorno ti porterò con me in America…»
«Dice sul serio?» chiese Luca seriamente. «Io, in America,
ci voglio andare anch’io!»
«Luca», disse Donato. «Non infastidire i signori…»
«Quello non ha fastidio; quello mi vuol bene!» sparò Luca
con un’impertinenza proporzionata alla sua età. «E anch’io gli voglio bene.
Vuoi ben vedere il mio libretto…»
Mentre
aspettavano l’aereo all’aeroporto di Agno, Nora chiamò l’avvocato Buonati.
«Sì, ho visto mio figlio e credo che lei abbia proprio
ragione: sarebbe giusto chiarire la situazione e organizzare un vero incontro.
È diventato un uomo affascinante, ha preso tutto da suo padre. Ne sono
orgogliosa. Voglio poterglielo dire. Voglio poter compensare tutti questi
anni…»
Nora raccontò com’era andata e l’avvocato promise di
preparare il terreno.
1988
Era
primavera. Il sole riscaldava deliziosamente. Quel venerdì sera, una variopinta
combriccola di allegri compari era seduta sulla terrazza dell’Osteria della
Capra Bianca. Da lontano, si sentì arrivare il rombo di un motore e, più il
rumore si avvicinava, più suscitava attenzione. Poi, si guardarono e Martin
disse: «Questa è una 500…»
«A mio parere», disse Enrico. «È una Suzuki Big 750… Direi,
bianco e blu… Con purtroppo una qualche macchietta di ruggine…»
«Siete dei brocchi», disse Renato. «Questa è una Harley
1340…»
E mentre gli altri rispondevano stupidamente «Euuuu!»,
arrivò una moto straordinaria, una Hesketh V 1000 nera, che posteggiò proprio
davanti a loro. Il conducente era vestito integralmente di cuoio nero e portava
un casco integrale con la visiera scura. Mise i piedi a terra, tirò giù il
cavalletto e ci lasciò lentamente riposare sopra i duecentocinquanta chili
della moto. Spense le luci, fermò il motore, tolse la chiave, si raddrizzò,
lanciò la gamba destra sopra il portabagagli e le borse laterali, fece un paio
di passi mentre si toglieva il casco e, di colpo, ne cadde fuori
un’impressionante chioma di lunghissimi cappelli biondi. La ragazza si girò
verso gli uomini seduti ai tavolini, che avevano smesso di chiacchierare e
stavano tutti con la bocca spalancata, e disse: «Hello!» Poi salì di
corsa e si sentirono schiamazzi di gioia in tutte le lingue.
«Madonna!» disse Renato. «Avete visto quello che ho visto
io?»
Tutti fecero di sì con la testa, ma nessuno riuscì a
riprendere fiato…
«Edy», gridò qualcuno. «Porta un altro giro…»
Edy arrivò col vassoio.
«Birra?»
«Tu» balbettò Enrico. «Chi è quella là?»
«“Quella là”
è una mia amica che viene da Zurigo… No, scordatelo; quello non è pane per i
tuoi denti… Lei è molto peggio di me.»
«Scommettiamo?»
«Scommetto quello che vuoi. Anzi, scommettiamo che vi fa
fuori tutti, uno dopo l’altro…»
E ripartì un nuovo «Euuuuu…»
Edy tornò poco dopo col vassoio pieno di birre seguita
dalla ragazza bionda.
«Ecco», disse Edy. «Questa è la mia amica. Si chiama Eva. È
qua per una vacanza.»
«Sì», disse Eva mentre tirava giù la cerniera del suo
giubbotto. «Devo andare un po’ in montagna…» Poi si tolse il giubbotto e tutti
videro una maglietta sulla quale era stampato “No Problem”… Era corta, stretta
e quasi trasparente e, a stento, conteneva un seno provocante…
«Fidati di me», disse Renato. «In montagna, sono io il
campione…»
Si alzarono urla di contestazione e ognuno dei presenti si
vantò delle proprie prodezze…
«Ok», disse Eva. «Uno alla volta. Iscrivetevi presso il mio
segretariato…» Tutti rimasero di stucco.
Quella sera, quando i clienti furono andati via, Edy ed Eva
si sedettero alla tavola rotonda con un ultimo bicchiere di Barbera.
«Non saprei», disse Edy. «Hai ben visto: qui sono tutti
così… simpatici ma “briganti”…»
«E quel guardiacaccia?»
«Donato? È forse l’unico, diciamo, “temperato”. Vediamo…
Almeno lui dovrebbe conoscere la zona.»
«Sposato?»
«Sì, sposato. Ha un bambino e sua moglie è incinta.»
Quel sabato, Eva andò a spasso per il paese, poi si fermò
davanti alla casa di Donato, suonò e, quando Sigried venne ad aprire, parlò in “schwiezerdütch”[40].
Sigried la fece entrare e parlarono a lungo. Quando si congedò, si salutarono
cordialmente e Sigried disse ancora: «Appena Donato torna, gliene parlo… A
domani. Tschüss[41]…»
Quando la
domenica mattina Eva scese nella sala dell’Osteria per la colazione, trovò
diversi uomini che portavano il fucile militare a tracolla.
«Cosa succede?» chiese Eva scherzando. «Siamo sul piede di
guerra?»
Uno dei presenti, rinvigorito dal terzo caffè, si fece
avanti: «Lei non lo sa, signorina, ma noi svizzeri siamo militi per tutta la
vita!»
«Ah, sì?» fece Eva fingendo di essere sorpresa. «E come
mai?»
Poi seguirono complicate spiegazioni sul servizio militare
svizzero e i tiri obbligatori.
«Vuol vedere il nostro stand di tiro?»
«Ma sì», disse Eva. «Tanto sono in vacanza… E per
cominciare, non chiamatemi signorina. Chiamatemi Eva…»
Gli spavaldi tiratori condussero Eva fino al loro nuovo stand
di tiro e dimostrarono la loro destrezza. Perfino quelli che andavano a sparare
solo perché erano obbligati, fecero uno sforzo per non fare brutte figure
davanti ad una donna.
«Vuol provare, signorina?» chiese il segretario della
società, che stava controllando i libretti di tiro.
«Un colpo lo faccio anch’io», disse Eva, che estrasse dalla
sua tasca una scatoletta metallica di pastiglie Blackcurrant, original english formula[42], la aprì,
ne estrasse un gommino, si mise a masticarlo e si sdraiò sulla pancia nella
tipica posizione di tiro, con una gamba dritta e l’altra piegata
nell’angolazione perfetta.
Le diedero un moschetto e spiegarono come bisognava far
coincidere il mirino e il bersaglio. Eva girò il braccio nella cintura del
fucile, mirò, premette il grilletto e alla sua destra, il piccolo schermo
elettronico marcò un nove, a sinistra, in alto.
«Bene!» disse qualcuno.
«Che fortuna!» disse un altro.
Eva girò i tacchetti della regolazione e sparò un secondo
colpo e la lucina rossa dello schermo marcò un otto, di nuovo a sinistra e in
alto.
«Non è così facile come pensi, bella pupa…» disse qualcuno.
Eva girò ancora qualche tacchetto della regolazione,
premette il grilletto e lo schermo si mise a lampeggiare: tutte le lucine rosse
della circonferenza lampeggiavano insieme, il che significava che aveva colpito
in pieno centro e fatto una mouche,
cioè un centro perfetto…
Rimasero interdetti.
«Che culo», disse qualcuno.
Eva sparò un’altra volta e ancora una volta, mouche. Un dieci perfetto. Fece altre
cinque mouche e un nove e allora
aveva finito le sue dieci cartucce e si rialzò aprendo la culatta.
«Si vede proprio che sono fuori allenamento», disse mentre
restituiva il fucile al suo proprietario.
«Lei ha già sparato col fucile?»
«Mah sì, qualche volta. Anch’io ho un padre…» disse Eva
sbadatamente. E più nessuno fece commenti. Si guardarono meravigliati, incapaci
di capire le regole di quel nuovo gioco.
Quella
sera, Eva tornò da Donato.
«Sto facendo uno studio sul cinghiale», disse Eva. «Ho
saputo che qui in zona ce ne sono molti, soprattutto nelle Centovalli. Sono
venuti dall’Italia?»
«Sì», disse Donato. «Loro ormai non conoscono i confini e
seguono la loro strada una volta dall’Italia verso la Svizzera, una volta dalla
Svizzera verso l’Italia. Nelle Centovalli, è un continuo andare e venire.»
«Ecco», disse Eva. «Sono proprio quelle strade che vorrei
vedere.»
«Sono posti brutti. Non so se lei è attrezzata…»
«Sì», disse Eva. «Un paio di scarponi li ho… Lei potrebbe
almeno farmi vedere i posti una prima volta. Dopo, per il resto dello studio mi
arrangio io…»
«Ne è sicura?»
«Credo di sì…»
Eva prese nella tasca della sua giacca un foglio di carta
che portava un disegno e lo tese a Donato.
«Che cosa pensa di questo disegno?» chiese Eva.
Donato guardò con attenzione.
«È una montagna… Mah, al mio parere, questo dovrebbe essere
il Gridone…»
«Il Gridone visto da dove?»
«Potrebbe essere… dalla Costa, o da Lionza…»
«Guardiamo la cartina», suggerì Eva.
Donato prese la cartina topografica in scala 1:25000 e
spiegò quanto lui ne poteva dedurre.
«Allora», disse Eva. «È proprio questa zona che vorrei
vedere: tutto il confine dall’Alpe Ruscada fino al valico della Ribellasca…»
«È proprio la zona più impervia», disse Donato. «Non ci passa
più nessuno. I sentieri sono cancellati, poi qualche anno fa c’è stato
un’alluvione terribile che ha spazzato via tutto, sentieri compresi…»
«Strade di contrabbandieri?»
«Sì, ce n’erano, forse qualcuna è rimasta, ma oggi il
contrabbando si fa in un’altra maniera… Non ci passa più nessuno su quei
sentieri…»
«Andate a fare un giro lo stesso», intervenne Sigried. «Non
vorrai lasciare quella ragazza da sola in quei posti così brutti! E tu, di
cinghiali te ne intendi…»
«A ciascuno il suo mestiere», disse Donato. «Se vuole
proprio, mercoledì mattina possiamo fare un giro. Ci troviamo alle 03.00
davanti all’Osteria»
«D’accordo, alle 03.00 …»
Chiacchierarono ancora un po’, poi Eva ringraziò e ritornò
all’Osteria.
Quel
mercoledì mattina, alle 04.00, posteggiarono la macchina sul piazzale della
Costa. L’alba cominciava appena a spuntare e partirono su per un sentierino
stretto che saliva lentamente verso ovest e poi scendeva in un riale. Le pareti
rocciose erano scoscese; il sentiero a tratti si vedeva, ma il più delle volte
scompariva sotto lo spesso manto di foglie di faggio secche. Donato conosceva i
posti perché, come guardia di confine e come guardiacaccia, era passato là di
giorno come di notte, con bello e brutto tempo e in tutte le stagioni.
Progrediva lentamente, sembrava perso in quel terreno frastagliato di valli e
burroni, poi improvvisamente cambiava direzione e ritrovava un altro pezzo del
vecchio sentiero.
Verso mezzogiorno, si fermarono sul fondo di una valle
molto profonda; il sole implacabile batteva sul granito bianco. Alla loro
destra, le pareti si alzavano lisce come lastre di vetro. Donato scelse un
posticino all’ombra, si sedette su un sasso, aprì lo zaino, ne estrasse la
borraccia e, mentre incominciava il gesto per tenderla verso Eva, esplose un
colpo terribile che rimbombò nella stretta delle pareti.
Donato fece un salto di spavento e, quando si raccapezzò,
vide davanti a sé Eva con la pistola ancora fumante in mano.
«Ma cosa fai!» gridò Donato fuori di sé. «Sei impazzita?
Vuoi ammazzarmi? Ma sei matta?» E non osò nemmeno muoversi, perché sapeva che
nel caricatore della Beretta c’erano altri sette colpi.
«Scusami», disse Eva indicando con la canna della pistola
nella direzione dei piedi di Donato. «È un automatismo… Nel deserto, i serpenti
sono mortali. Tre minuti e sei morto.»
Donato guardò esterrefatto e vide ai suoi piedi un’enorme
vipera nera che non aveva più la testa ma continuava ad attorcigliarsi, fin
quando i nervi non cessarono di agitarla. Donato ebbe i brividi, poi si mise a tremare e non riuscì
nemmeno più a parlare.
Eva infilò la pistola nella custodia che portava appesa
alla vita sotto la camicia, prese la borraccia, bevette tranquillamente e poi
si sedette, tese la borraccia a Donato, estrasse dalla sua tasca la scatoletta
e si mise a masticare pensierosamente una gommina di Blackcurrant. Infine,
prese la cartina e cominciò a studiarla con attenzione, senza nemmeno notare la
perplessità di Donato.
«Eva», disse finalmente Donato. «Io ho fatto la guardia di
confine per dieci anni. Adesso faccio il guardiacaccia da altri dieci anni…
Certe cose le vedo. Non tutte le ragazze girano con una Beretta 22 in tasca.
Lei non è onesta… Non dice tutto. Anzi, lei mi nasconde le sue vere ragioni. I
cinghiali sono una scusa. Io sono un pubblico ufficiale e come tale posso
denunciarla e farla arrestare. Allora, per favore, non mi costringa a fare
delle cose spiacevoli per tutti e due; mi dica esattamente che cosa sta facendo
su questo confine, armata di pistola…»
L’espressione di Eva era diventata stranamente dura e
impenetrabile.
«Non credo che lei voglia denunciarmi, perché dovrei
rivelare certi aspetti dei miei studi sulla provenienza dei cinghiali che sono
bruscamente spuntati in Ticino come funghi dopo un plenilunio caldo e piovoso…»
«Come sa, sono venuti dall’Italia…»
«In elicottero?»
Donato ebbe un movimento di sorpresa mista a rabbia.
«Eva. Tu chi sei, cosa vuoi? Cosa stai qui a fare?»
«Un giorno, forse, te lo dirò… Se stai nel tuo, io starò
nel mio, ma se mi rompi le palle, hai visto che non sbaglio il colpo…»
«È una minaccia?»
«Sì, è una minaccia. Io di te me ne frego; quello che cerco
non sono affari tuoi. Non riguarda nessuno. Ti do la mia parola che si tratta
solo e unicamente di una mia questione privata. Va bene?»
«Parola d’onore?»
«Parola d’onore».
Camminarono
tutto il giorno, rastrellando tutta la valle che saliva dalla Ribellasca fino
all’alpe Ruscada. Donato seguiva come poteva ciò che rimaneva dei sentieri. Eva
ogni tanto si fermava, studiava attentamente la cartina geografica, guardava
l’ambiente e registrava nella sua mente ogni particolare che più tardi le
avrebbe permesso di ritornarvi da sola.
Quando tornarono a Vergeletto, erano le dieci di sera.
Avevano camminato e sudato tutto il giorno ed Eva non mostrava nessun segno di
stanchezza.
«Accetti una birra?» chiese Eva.
«No, grazie», disse Donato. «Mia moglie sarà in pensiero.
Un’altra volta, magari…»
«D’accordo», disse Eva. «Un’altra volta. Ricordati: non è
successo niente. Anzi, non ricordi nemmeno che siamo andati in montagna
insieme…»
Donato spense il motore e guardò Eva.
«Perché non vuoi confidarti con me? Come già detto: io sono
un pubblico ufficiale, sono tenuto al segreto professionale. Non vorrei che ti
si cacciassi nei guai…»
«Grazie», disse Eva prendendo una gommina di Blackcurrant.
«Devo solo controllare un paio di dettagli… Quando ritorno, ne parleremo…»
«Quando ritorni? Vai via?»
«Le mie vacanze sono finite.»
Difatti, la mattina seguente la moto era sparita.
«Dovresti darmi l’indirizzo della tua amica», disse Donato
a Edy, pensando di essere furbo. «Ho promesso di mandarle delle cartine…»
«Quella», disse Edy ridendo. «Non ha un indirizzo fisso. È
giornalista freelance, sempre in
giro…».
Eva era
partita presto e, per tornare a Zurigo, decise di valicare il passo del San
Gottardo invece di attraversare la galleria. Arrivata in cima, si fermò,
camminò verso un praticello ben esposto al sole, si sedette sull’erba con le
gambe incrociate, posò le mani sulle ginocchia, chiuse gli occhi, fece un paio
di profondi respiri poi cominciò a recitare il mantra induista con il quale era
solita rilassarsi.
Ben presto sentì la calma, il suo polso rallentò, e più
diventava rilassata, più la luce si espandeva nel suo corpo e nella sua mente.
Ora vedeva chiaramente in sé stessa: era tutta luce e pace e, quando ebbe
raggiunto un grado sufficiente di introspezione, pensò: «Quali sono gli
elementi conosciuti? Quali sono gli elementi mancanti? Qual è la prossima
mossa?»
Lasciò vagare la mente alla ricerca dei pensieri che si
susseguivano e contemplò ogni immagine che sorgeva dal suo subconscio. Poi si
sdraiò e si addormentò. Quando si svegliò, tutto era chiaro. I prossimi passi
erano evidenti. Eva inforcò la grossa Hesketh e riprese la strada verso Zurigo.
1989
Quando,
due mesi più tardi, Eva tornò da Tel Aviv, andò all’Istituto Culturale e chiese
di poter consultare quello che loro chiamavano già il “computer”.
Eva scelse il file «Immigrazione», poi, al suo interno, il
file «Ticino». Poi cliccò sull’anno 1943.
Apparvero dei nomi. Pazientemente, restrinse la ricerca con
sempre più precisione. Cercava persone ebree, italiane, provenienti dal Veneto,
che erano entrate in Ticino dal Piemonte, sperando di trovare tra loro compagni
di fuga dei suoi nonni.
Uno dopo l’altro, aprì i file ed eliminò dall’elenco i
profili che non potevano corrispondere agli elementi che possedeva. Il quarto
giorno che Eva lavorava a questa inchiesta, le rimanevano undici nomi. Poi,
aprì il file che conteneva la rubrica telefonica del Ticino e cercò i nomi. Uno
si trovava a Locarno, tre erano a Lugano, due a Chiasso e degli altri cinque
non trovò traccia.
Eva prese il telefono, accese il registratore e chiamò
pazientemente ogni numero.
Due non risposero, ma era normale: in pieno giorno, la
gente era probabilmente uscita e lei avrebbe richiamato alla sera. Una signora
anziana non sembrò nemmeno capire di che si trattasse. Eva si scusò dicendo che
aveva sbagliato numero. Alla quarta chiamata, rispose un uomo che non sembrò
voler ingaggiare la conversazione e disse che era in ufficio e non aveva tempo
per chiacchiere inutili. Eva ringraziò, depositò la cornetta e riascoltò la
registrazione. Effettivamente quest’ultimo uomo aveva un accento strano e non
rispondeva con naturalezza. Eva tentò diverse volte di richiamare, ma al posto
della voce maschile rispondeva o la segretaria o la segreteria telefonica.
Eva ricercò il nome nell’elenco per categorie e trovò:
Caliman Mosè, import-export, Chiasso. Chiuso questo file, ritornò all’elenco
del telefono e trovò difatti un Caliman Mosè, import-export…
«Adesso», si chiese Eva. «Come faccio a saperne di più?» E
come ogni volta che si trovava in imbarazzo, prese una gommina di Blackcurrant
che masticò con un evidente sforzo di concentrazione.
«Già!» Poi digitò il numero telefonico di un suo vecchio
complice di bisboccia.
«Salì Buebeli[43]»,
disse Eva nel suo migliore schwiezerdütch.
«Salì Bueseli[44]»,
rispose una voce maschile con evidente entusiasmo. «È un po’ che non ti sento!
Dov’eri sparita? Mi sveglio ogni notte sudando freddo e gridando il tuo nome…»
«L’ho sentito», disse Eva. «È pura trasmissione di
pensiero! E tu, come te la passi? Li porti ancora questi famosi boxer gialli
coi fiorellini rosa?»
«Ehi, pupa, se vuoi vedere le rose che spuntano sotto i
boxer, fatti trovare al 69 della Sexstrasse. Per il resto, ci penso io…»
«Sei sempre stato capace di sfruttare le mie debolezze… A
proposito, hai ancora quei tuoi agganci nella selva oscura dove le diritte vie
sono tutte smarrite?»
«Oh! Yes, Madame, pour
vous plaire. Dipende da cosa sei disposta a pagare…»
«Come al solito; metà all’ordinazione, l’altra metà alla
consegna della merce e uno sconto perché i preservativi li fornisco io…»
«Ok. What is your
problem?»
«Avrei bisogno di fare la conoscenza di un tizio
specializzato in import-export…»
«No problem…»
Così, dopo un’altra notte di fuoco, emerse dal buio di una
misteriosa banca dati un certo Mosè Caliman, nato il 3 settembre 1918 a
Chioggia. Padre: commercio coloniali. Madre: casalinga. Seguivano gli studi: un
diploma di segretariato, uno di contabilità e uno di lingue. Poi gli anni della
guerra con la menzione: 1943, trasferitosi in Ticino, Confederazione Elvetica.
Attualmente: import-export a Chiasso. Alla fine, era precisato il tipo della
sua automobile, a quali giornali era abbonato, chi era il suo medico di
famiglia e lo psicanalista che frequentava, con quale compagnia aerea
viaggiava, le destinazioni più frequentate e ancora un altro paio di cosette di
questo genere.
Tornata nella sua base operativa, Eva riascoltò la
registrazione della breve conversazione che aveva avuta col famoso Caliman e
finì per concludere: «Mah, per il solo fatto di questa reticenza inutile,
questo ha qualcosa da nascondere… Import-export sarebbe anche possibile… Anzi,
sarebbe anche possibile qualche traffico illegale o qualche operazione al
limite della legalità, o qualche contabilità truccata… Oppure è il nostro uomo,
che sinceramente non desidera riparlare di tutto quanto… Vediamo…»
Eva scese
a Chiasso col treno. Faceva molto caldo e l’inquinamento dell’aria era
decisamente peggiore che a Zurigo, per cui ebbe subito difficoltà a respirare,
le bruciarono gli occhi e questo la mise di malumore.
«Ma chissà perché la gente viene qui in vacanza… Fa proprio
schifo.»
Poi cercò l’indirizzo e trovò solo una piccola targa molto
discreta che annunciava «Caliman & Co import-export» in un vicolo laterale
del Corso San Gottardo. L’immobile era alto e grigio, sporco dallo smog. Alle
finestre, tutte le tapparelle erano abbassate. Le lamelle, tra le quali
nidificavano rondoni, erano coperte da uno spesso strato di polvere e di guano.
Eva suonò il campanello e una voce chiese al citofono: «Sì?»
«Diamond Board Corporation Yellow Submarine Co. and Co.»
disse Eva a voce forte e veloce contando sull’effetto sorpresa.
«Ha un appuntamento?»
«Col Signor Caliman, a nome della Diamond Trade Enterprise
Starfighter Associated», disse ancora più velocemente.
«Mah», disse la voce pensierosamente nel citofono. «Qui non
figura, però… Salga pure: terzo piano».
«Fin qua siamo arrivati», pensò Eva entrando nell’ufficio.
Prima che l’impiegata avesse il tempo di parlare, si diresse verso la porta che
portava la targhetta «Direzione - vietato entrare», dicendo distrattamente: «Il
Signor Caliman m’aspetta. Grazie, Signorina, credo di trovare la strada da
sola…»
La segretaria rimase perplessa. Eva entrò senza bussare e
chiuse la porta dietro di sé.
Dietro alla scrivania, era seduto un uomo grasso, sulla
settantina, con un’estesa calvizie, grossi occhiali di tartaruga, occhi da miope,
camicia bianca col collo sbottonato, polsini e gemelli, cravatta snodata a
righe oblique bordeaux e blu marina, giacca in Prince de Galles grigia ton sur ton. E stava sudando… Eva
concluse: «Avrà i pantaloni blu notte e le scarpe nere con le stringhe, pelle
finissima perché ha gli occhi di pernice sul ditino e porta anche i calzini
neri di fil d’Ecosse…»
Su uno scaffale, notò al primo colpo d’occhio dei grossi
libri e, appesa al muro, una veduta aerea di Gerusalemme.
«Signorina, come fa a essere nel mio ufficio? L’entrata è
assolutamente vietata.»
«Signor Caliman, ho ingannato la sua segretaria», disse Eva
sorridendo, mentre già si sedeva sulla sedia davanti alla scrivania. «Perché, a
giudicare dal modo scortese in cui mi ha risposto al telefono, non mi avrebbe
ricevuta.»
«Signorina, o lei esce immediatamente, o la faccio cacciare
via.»
«Non credo che lo farà», disse Eva che distrattamente aveva
aperto la sua giacca in modo che si vedesse spiccare sulla sua maglietta blu
scuro, appesa a una lunga catena d’oro, una stella di Davide grande formato.
«Un uomo che tiene nel suo ufficio questo tipo di libri e un tallit[45]
piegato accuratamente depositato sullo stesso scaffale, non manda via coloro
che chiedono il suo aiuto. Inoltre, in questa mappetta possiedo sufficienti
argomenti per convincerla ad ascoltarmi…»
L’uomo si raddrizzò e guardò Eva con sorpresa. Aggiustò i
suoi occhiali e disse: «Minacce?»
«No, non minacce. Suppliche… Suppliche con elementi
convincenti…»
«A quale proposito?»
«Signor Caliman, lei è nato il 3 settembre del 1918 a
Chioggia…» Ed Eva recitò il curriculum che avevano potuto compilare e costatò
con grande soddisfazione che il suo interlocutore la guardava con evidente
sorpresa.
«Dove ha scoperto queste cose?»
«Non ha importanza quello che so. Ha importanza quello che
non so, ma che lei sa. Signor Caliman, che cosa è successo nel 1943, sul
confine tra l’Italia e la Svizzera?»
«Signorina, lei entra nel mio ufficio senza il mio consenso
e m’interroga in modo sfacciato sulla mia vita privata. Converrà che sta
oltrepassando ogni limite della decenza…»
«Convengo con lei», disse Eva. «Ma se lei non fosse così
burbero, le avrei fatto la domanda in modo più grazioso. Per esempio: la prego,
Mosè, mi dica che cosa è successo nella valle della Ribellasca quella notte.
Lei era lì e con lei c’erano anche i miei nonni, ma loro non sono mai arrivati
in Svizzera».
Poi, mormorò: «Non voglio nient’altro. Voglio solo sapere
dov’è finita mia nonna…»
Mosè Caliman si era alzato; si aprì la porta e gridò: «Sonia,
per favore, porti il caffè per due». Poi camminò verso la finestra e guardò
fuori tra le lamelle delle tapparelle socchiuse. Eva vide che portava davvero i
pantaloni blu scuri e le scarpe Balli per piedi sensibili.
«Sarà anche diabetico», pensò Eva.
Mosè appoggiò la mano sinistra sul vetro della finestra
all’altezza della sua fronte, poi appoggiò la fronte sulla mano e stette lì in
silenzio. Eva non osò più parlare.
Sonia entrò portando un vassoio con una caffettiera
italiana, due tazzine di porcellana bianca coi bordi dorati, i cremini, le
bustine di zucchero e la scatola di zucchero artificiale.
«Ecco», pensò Eva. «La saccarina dei diabetici…»
«È passato tanto tempo», disse finalmente Mosè. «Per tutti
questi anni ho cercato di dimenticare… Perché lei mi chiede di riaprire queste
ferite? Lei è giovane, perché non pensa al futuro?»
«Non si può costruire il futuro sul nulla. Non si può
perdere la memoria. Solo conoscendo il nostro passato e tramandando la nostra
memoria, noi Ebrei potremo costruire il nostro futuro, per ognuno di noi
individualmente, ma anche per il nostro popolo, per Israele e per la pace…»
«Voi giovani siete così impetuosi…»
«Mosè, anche voi, quando avete creato l’Irgun, eravate
impetuosi…»
«No, signorina, no, si sbaglia. Io non sono mai stato
impetuoso; io sono vigliacco, sono fuggito, mi sono salvato la pelle
nascondendomi in Svizzera… Gli altri hanno combattuto… Io no.»
«Non vuol chiamarmi Eva?»
«Eva? Eva… Non ricordò i suoi nonni. Cosa vuole sapere dei
suoi nonni?»
Eva raccontò tutto quello che sapeva dell’esodo.
Dimenticarono il caffè, che diventò freddo. Mosè si era seduto crollando sotto
l’enorme massa della sua obesità e della sua memoria. Aveva messo la mano
destra nella tasca della giacca in Prince de Galles; l’altro gomito l’aveva
appoggiato sulla scrivania e con la mano sinistra sosteneva la sua testa
grottesca e pietosa. Aveva depositato gli occhiali e i suoi occhi miopi
sparirono come risucchiati nel fondo delle loro orbite. Poi, lentamente,
ricordò. Penosamente si mise a parlare e, progressivamente, tutti i dettagli
che per decenni aveva represso nel fondo del suo rifiuto salirono verso la
superficie come le bollicine nello champagne. E come quelle bollicine esplodono
al momento in cui raggiungono l’aria, ogni parola che riuscì a proferire si
sublimò nell’aria portando con sé, pezzettino per pezzettino, quel terribile
peso che aveva fatto di lui un uomo malato e disperato.
Eva ascoltava, incideva nella sua mente e sul piccolo
registratore che nascondeva nel taschino della giacca ogni parola, ogni
accento, ogni sospiro di quell’uomo che adesso non gli faceva più pietà, ma le
ispirava una profonda compassione. C’era voluto questo terribile confronto
perché lei, così spavalda, comprendesse la radice della sofferenza.
«Credo di non avere altro da aggiungere», disse Mosè.
«Grazie», rispose Eva. Poi, con un sorriso affettuoso,
aggiunse: «Per questo incarto, stia tranquillo… Non c’è dentro niente. Era solo
un bluff.»
«Voi giovani», disse Mosè. «Siete così arroganti, così
sicuri di voi stessi…»
«No», rispose Eva. «Non siamo arroganti. Per millenni siamo
stati oppressi; per millenni siamo stati umiliati e questo noi non lo vogliamo
più. Non è arroganza. È fede nella vita.»
«Dio ti benedica, figlia mia», disse Mosè.
Eva prese tra le sue mani lunghe, affilate e fresche la
mano che Mosè gli tendeva. Era
grassa, umida e calda. L’anello spariva sotto i bordi edematici; i peli neri
stavano radi tra i pori dilatati, dai quali usciva un sudore acido. Eva prese
la mano tra le sue, si chinò e la baciò sinceramente, intensamente, poi si
diresse verso la porta e prima di richiuderla, si girò ancora una volta per
guardare quest’uomo tragico. Gli sorrise.
«Shalom…»
«Masel Tov…»,
mormorò Mosè con gratitudine perché, in tutti quegli anni, era stata la prima
volta che aveva potuto aprire il suo cuore, ricordare, parlare, piangere senza
ritegno né vergogna. Per la prima volta, qualcuno lo aveva ascoltato con amore
e comprensione. Per la prima volta, aveva potuto “condividere”. Quella ragazza giovane e sconosciuta, con la sua
impetuosità, aveva portato un vento fresco carico di voglia di vivere, come una
primavera. Mosè pensò che, se avesse incontrato Eva quarant’anni prima, sarebbe
stato un uomo felice.
1989, continua.
Era passata l’estate, poi il
periodo di caccia durante il quale Donato era poco presente in casa. Un giorno
che tornava prima del solito, Sigried gli disse: «Ha telefonato l’avvocato
Buonati. Ha chiesto di andare giù per una cosa importante. Ho detto che, domani
pomeriggio, sei libero. Se non va bene, devi richiamarlo…»
«No, no, va
bene», disse Donato. «Devo anche passare dal Berta, l’armaiolo.»
Sigried arrivava
alla fine della sua gravidanza, diventava sempre più abbondante e si muoveva
difficilmente, dunque Donato scese a Locarno da solo.
Quando entrò
nello studio dell’avvocato, ebbe la sorpresa di trovarlo in conversazione.
«Il Signor Ariel
Levi», disse l’avvocato. «Credo vi conosciate già…»
«Ah», disse
Donato scherzando. «Non vorrete ancora comperare degli stambecchi!»
Ma Ariel non
aveva voglia di scherzare. Pallido e molto dimagrito, era terribilmente
invecchiato.
«Sedetevi», disse
l’avvocato. «Vi lascio. Avete delle cose da raccontarvi…»
Donato si sedette
e aspettò curioso.
«Ecco», disse Ariel
col suo accento americano. «Sono successe diverse cose… È imbarazzante… Dunque,
si ricorda la nostra visita?»
«Certo», disse
Donato. «Come no! Ma la Signora, oggi, non c’è?»
«Ecco, no.
Purtroppo, non c’è e non ci sarà mai più… Stava andando da New York a Saint
Luis Obispo, per i suoi affari, con uno dei piccoli jet della nostra società.
Hanno incontrato un violento ciclone. C’è stato un incidente… Non ci sono stati
superstiti…»
«Mi dispiace»,
disse Donato.
«Anche a me. Nora
ed io vivevamo insieme da quarant’anni… Tutte le battaglie, le abbiamo fatte
insieme.»
«Si chiamava come
mia madre…»
«È per questo che
sono qui oggi… Nora era sua madre.»
Donato sprofondò
nella poltrona, diventò bianco e le sue mani strinsero il cuoio dei braccioli
al punto da lasciarvi il segno.
«Come fa a dire
che era mia madre…»
Ariel lentamente
cominciò a spiegare di come su quella nave, nel lontano 1947, avesse incontrato
Nora e di come lei avesse curato il suo cane e poi tutto il resto; lentamente,
molto lentamente, perché ogni ricordo era un pezzo prezioso della loro vita
vissuta con quell’intensità estrema.
Mentre Ariel
continuava a parlare sottovoce, inseguendo i suoi ricordi in un monologo
destinato a sé stesso, per Donato, una dopo l’altra, sorgevano le immagini del
passato. Dopo trent’anni, iniziò a capire chi aveva versato i fondi necessari
al restauro della chiesa, il suo soggiorno in collegio, i versamenti sul
libretto alla Banca dello Stato, l’incarico dell’avvocato Buonati, i diamanti,
quella meravigliosa decorazione floreale nella chiesa per il suo matrimonio, la
stanza privata per Sigried quando aveva partorito all’Ospedale La Carità e,
addirittura, l’enorme mazzo di rose rosse quando era nato Luca.
Le cose erano
sempre successe come se fossero state normali. Donato non si era mai
interrogato sui particolari e, in quel momento, tutte quelle strane piccolezze
assumevano un aspetto nuovo. Dietro a tutte quelle circostanze e particolari
manifestazioni, c’era la stessa persona, lo stesso sguardo, lo stesso amore.
Perché era rimasta nell’ombra? Perché non era venuta di persona al matrimonio?
Dio, come sarebbe stato felice e fiero se fosse salito all’altare al braccio di
sua madre… invece di sentirsi solo come un povero disperato, orfano,
dimenticato da tutti… Perché quella madre lo aveva amato da lontano, sempre
nascosta, eppure sempre presente? Perché aveva mandato soldi e fiori e chissà
quante altre cose, ma non aveva mai dato quella più importante: la sua
presenza, la semplice possibilità di conoscerla, di vederla, di poter parlare,
discutere, magari litigare… Perché non gli aveva mai dato la possibilità di
abbracciarla? Perché non aveva mai desiderato abbracciare suo figlio, o il suo
nipotino?
Ora per Donato
apparve l’evidenza più terribile: lui stesso, perché non aveva mai cercato
d’incontrarla? Lui si era accontentato di quanto capitava, senza aver mai
pensato un attimo più in là… Sarebbe stato così facile. Sarebbe stato
sufficiente dire a Don Alberto, all’avvocato Buonati o al Superiore del
Collegio: «Vorrei incontrare mia madre… Voi sapete come rintracciarla?» Lui
avrebbe potuto semplicemente mandare un biglietto: «Mamma, voglio incontrarti».
Non aveva fatto nulla... durante tutti quegli anni…
E adesso, nel
momento in cui diventava così facile, così semplice, così evidente, era troppo
tardi… era finito tutto…
A quel punto,
Donato credette di impazzire… Irrimediabilmente, era tutto finito. Non
l’avrebbe mai più rivista. In un paese lontano, quanto rimaneva della sua salma
era stato sepolto per sempre. Inaccessibile… E lui avrebbe potuto cambiare
tutto con un bigliettino. Con un banale cenno. Per tutti, ogni cosa era stata
normale. La presenza di Nora era scontata. Ora che se n’era andata, tutti
s’imbattevano con la sua irrimediabile assenza…
Donato scoppiò in lacrime disperato,
colpevolizzato, totalmente smarrito.
«Perché non ha
parlato quando siete stati a casa mia?»
«Nora ha avuto
paura di sconvolgere il piccolo mondo felice e armonioso che vi siete
costruito. Voleva sapere se voi desideravate incontrarla. Aveva paura che l’avreste
rifiutata… L’avvocato doveva organizzare questo incontro per la prossima
primavera. Nora stava andando a Saint Luis Obispo per sistemare i suoi affari,
che desiderava affidare a voi due: suo figlio e il suo nipotino…»
Poi parlarono
della Blue Star.
«Io non sono un
uomo d’ufficio», disse Donato. «Quegli affari devono rimanere dove sono. Voi
dovrete continuare a gestirli fin quando mio figlio sarà in grado di
occuparsene. Io non posso…»
«Sì», disse
Ariel. «Il piccolo Luca… Nora aveva intenzione di chiedere di mandarlo in una
scuola seria. Parlava del collegio Papio di Ascona…»
«Non è mai venuta
a trovarmi… In quarant’anni è venuta una volta sola… Come ha potuto farlo? Ed
io, perché non l’ho mai cercata?»
«Nora non l’ha
mai dimenticata. Attraverso l’avvocato ha sempre tenuto l’evolversi della
situazione sotto stretta sorveglianza… Sapeva tutto di lei; riceveva le
fotografie… Nora aveva dedicato la sua vita ad alti ideali che non può ancora
capire, ma un giorno, anche lei capirà… Addirittura, io ho chiesto diverse
volte a sua madre di diventare mia moglie, ma i suoi ideali erano troppo alti.
Non ha mai voluto lasciare che altri sentimenti si mettessero tra lei e lo
scopo della nostra vita…»
«E mio padre?»
«Appunto è quello
che intendevo… Sua madre ha rivisto suo padre una volta sola, non si è fatta
riconoscere e non mi ha detto molto. L’unica cosa che posso dirle è che vi
assomigliate moltissimo e che era un uomo eccezionale. Nora era felice di aver
potuto costatare che lei ha ereditato il carattere di suo padre: fiero,
indipendente e intelligente. Era felice che, con Sigried, formate una bella
coppia, soprattutto al di sopra delle piccolezze e della meschinità. Era anche
felice di vedere che Luca è il ritratto di suo nonno… Nora aveva tanta paura di
ritornare a Vergeletto e di confrontarsi col passato, coi ricordi penosi. Credo
che da bambina avesse sofferto molto. Non per niente aveva voluto partire…»
«Sigried è
straniera e difatti adesso capisco che anch’io sono straniero. Per forza siamo diversi…
Ma perché non si è fatta riconoscere?»
«Perché troppo
tempo era passato e non bisogna tornare sul passato; sua madre voleva sempre
andare avanti…»
«Chi era mio
padre?»
«Suo padre era un
alto ufficiale dell’aviazione militare israeliana. Di più, non so…»
Donato si alzò e
fece qualche passo; con la mano destra si strinse la fronte, con la mano
sinistra afferrò la scrivania, come se gli girasse la testa e stesse per
crollare. Poi girandosi di colpo: «Ebreo… Anche lui…»
«Sì», disse
Ariel. «Ebreo. Anzi, Ebreo e Israeliano…»
«E io», chiese
Donato. «Io chi sono?»
«Questa è la
domanda alla quale sua madre voleva rispondere il giorno in cui lei stessa ha
ricevuto le risposte alle proprie domande. Vede, Donato, la vita non è così
semplice come noi vorremo credere. Anche Luca possiede il sangue dei suoi
nonni…»
«Adesso cosa devo
fare?»
«Non deve fare
niente. Deve solo andare avanti secondo la sua coscienza, ma si ricordi sempre
che sua madre è stata per me più di una moglie… Voi non sarete mai più soli;
avrete sempre una famiglia. Anche i suoi figli non saranno mai soli.»
«Avrei bisogno di
un po’ di tempo per pensare…»
«Certo… Lei, per
me, è come un figlio, non lo dimentichi. Io per lei ci sarò sempre.»
«Mia madre era
davvero così straordinaria?»
«Sì, era una donna
straordinaria. Veramente… Malgrado fosse nata in un ambiente povero e avesse
avuto esperienze difficili, era costruttiva, positiva; voleva ed era capace di
creare. Lei mi ha portato sulle ali della sua energia. Senza di lei, sarei
stato un fallito. In ufficio, in viaggio, ovunque e sempre, con la sua calma e
il suo buon senso, riusciva a far andare le cose per il verso giusto e dava
fiducia alle persone che l’avvicinavano. Era una grande personalità. Quando
abbiamo saputo dell’incidente… Le sue spoglie sono state portate a casa.
Abbiamo chiesto del giovane prete che si occupa adesso della parrocchia, dove
Nora si è rivolta quando è arrivata. Ormai, il vecchio parroco che aveva
accolto Nora è morto anche lui. Lei non frequentava assiduamente la chiesa, ma
non si è mai staccata completamente e ha sempre mantenuto un rapporto di
simpatia e di gratitudine per coloro che l’hanno aiutata quando ne aveva avuto
bisogno… Padre Fiorenzo ha celebrato il servizio funebre e noi tutti vi abbiamo
assistito. Ebrei in una chiesa cattolica, mi creda, non è una cosa di tutti i
giorni… In riconoscenza per quanto Nora ha fatto per Israele, anche noi abbiamo
celebrato una funzione nella nostra sinagoga; una cosa molto semplice, ma
eravamo presenti tutti. Abbiamo pregato per ringraziare Dio di averci dato
quella persona meravigliosa…»
«Sono tante cose
nuove per me», disse Donato, che faceva fatica a respirare. «Devo poterci
pensare… Però, se mia madre è stata ribelle e mio padre è stato militare, non
mi meraviglio più di essere combattivo anch’io…»
«Certo», disse
Ariel. «Anch’io devo pensare molto: fin quando Nora c’era, sembrava tutto normale, scontato, dovuto… Ora, il vuoto che
lascia dà la misura di quanto era importante nella nostra vita e soprattutto
nella mia vita. Non siamo mai stati veramente coscienti dell’intensità della
nostra relazione. È la prova per assurdo: è solo quando non c’è più che si
capisce che cosa significava quando c’era. »
«Ed io?» chiese
Donato. «Qual è la mia posizione nei confronti di questo mondo ebraico?»
«Se sua madre
fosse stata ebrea, lei sarebbe stato ebreo “di nascita”. Invece sua madre non
era ebrea; lo era suo padre. Allora niente, lei non è “ebreo di nascita”, però
attraverso la vita di sua madre ha molti amici nel mondo ebraico. Se un giorno
desidera avvicinarsi, diciamo, raggiungere il nostro modo di considerare il
rapporto tra il Creatore e il Creato, sarà benvenuto. Ci sarà chi risponderà
alle sue domande, ci sarà chi le darà l’istruzione e l’insegnamento. Ma questa
è una decisione molto importante; è un cammino che necessita serietà, impegno e
coerenza. In compenso, si accede a una visione del mondo e del senso della vita
che può condurre alla serenità… Lei finora è stato un uomo giovane, d’azione,
di spensieratezza, ma verrà un giorno in cui si chiederà che senso abbia questo
soggiorno sulla terra. Anche per me è stato così: ero egocentrico, non vedevo
che la mia musica e, lo confesso, anche il successo… Ora sono diventato vecchio
e capisco che, anche se la musica è l’arte più bella, passa e se ne va… Il
successo è effimero: vengono nuove generazioni che cancellano quelle vecchie…
Nora aveva ritagliato le critiche della stampa e le aveva incollate in un album
con tutte le fotografie. Quando guardo queste fotografie, rivedo quanto eravamo
pieni di vita e di forza, come gemme che esplodono in primavera. Sul momento,
una persona non ne è cosciente; è solo più tardi, quando è passato, che si
capisce come sia stato bello e quanto sia stato fuggente: un attimo, ed è tutto
passato… Noi stessi sulla terra non siamo niente. Non facciamo che passare, in
un baleno. Ora comincio a chiedermi quale senso abbia la vita… Che cosa sto qui
a fare? Nessun banchiere, nessuno scienziato, nessun artista può dare queste
risposte, ma noi possiamo cercarle nei Testi Sacri che contengono l’Antica
Saggezza… Donato, non si spaventi. Anch’io sono stato giovane. So che adesso
lei è totalmente estraneo a queste preoccupazioni. Purtroppo, noi uomini
abbiamo bisogno di sberle per aprire gli occhi, per distogliere il nostro sguardo
da noi stessi… La morte di Nora è stata per me la sberla più inattesa. Ha
richiamato la mia attenzione alla cosa più importante: qual è il senso della
vita? Non trovo consolazione in altre donne, né nell’alcol. E questo è ancora
più terribile: nemmeno più nella musica… Mi siedo nel silenzio… Sì, il
silenzio. Quando ne ho la forza, leggo i Salmi e loro mi danno un po’ di
consolazione… “Io grido a te Signore, dico: sei tu il mio rifugio, sei tu la
mia sorte nella terra dei viventi. Ascolta la mia supplica: ho toccato il fondo
dell’angoscia[46]”.
Non lo dimentichi: quando il giorno sarà maturo, noi ci saremo per lei e per la
sua famiglia…»
Donato rimase pensieroso e non
seppe che cosa rispondere. Si alzò e andò verso Ariel, che si era alzato a sua volta.
Si strinsero tra le braccia, a lungo, senza parlare, senza nemmeno sapere cosa
dire né cosa fare. Da una parte, c’era l’uomo vecchio che aveva imparato tante
cose e in ultimo la miseria della solitudine. Dall’altra, c’era l’uomo giovane,
spaventato dall’abisso che si era bruscamente spalancato attorno a lui. Erano
come i due estremi che si raggiungono, le due parallele che s’incrociano
all’infinito.
Ariel intravedeva
il tramonto della propria vita e poteva cominciare a fare un bilancio: dopo
mezzo secolo d’effimere glorie, aveva imparato a chinare il capo e a dire
umilmente: «Sia fatta la tua volontà…»
Donato, invece,
sulla soglia della propria vita d’adulto, scopriva quanto finora tutto fosse
stato futile. Quel giorno, per la prima volta, aveva guardato la vita in faccia
seriamente. Il sipario della sua sbadataggine si era alzato di colpo e
l’immensità del compito che si affacciava dall’altro lato lo spaventò.
«Ma voi vivevate
insieme? Non eravate sposati, ma vivevate come marito e moglie?»
«Sì, come compagni,
sarebbe più esatto. Buoni compagni. Ai tempi della nostra gioventù, vigevano
tante idee preconcette, tanti tabù. Il sesso… Le proibizioni che fanno sembrare
importanti le cose proibite. Poi ci si accorge che non sono così importanti,
anzi sono un grande spreco di energia e spesso fonte d’infelicità. Nora ed io
avevamo un rapporto semplice e le nostre priorità erano altre. Vivevamo insieme
da buoni compagni… Ed è per questo che adesso mi sento completamente smarrito».
Ariel se ne andò, gobbo sotto la
solitudine e le responsabilità. Dalla morte degli zii, era lui il capofamiglia.
Adesso non c’era nemmeno più Nora sulla quale poter appoggiarsi. Era da solo.
Pioveva e la pioggia cadeva fino
nella sua anima.
Si ricordò i
versi del poeta: “la pluie, la bonne e
douce pluie d’automne[47]…”
Sul volo del
ritorno, quando la hostess della Crossair gli tese il bicchiere di champagne,
egli alzò lo sguardo verso questa ragazza giovane, bella e sorridente. Gli
tornarono in mente tanti ricordi, anche loro giovani, belli e sorridenti. I
suoi occhi diventarono lucidi. Egli fece un grande sforzo per mandare tutto giù
e mormorare un «grazie» appena udibile. La hostess lo guardò con sorpresa, poi
sorrise gentilmente e, contrariamente a tutte le regole professionali imparate
a scuola, gli depositò affettuosamente una mano sulla spalla prima di
proseguire verso gli altri passeggeri.
«Ma guarda»,
pensò Ariel, «questa bambina così giovane che capisce così tante cose… Forse
rimane davvero la Speranza…»
Donato tornò a casa. Non disse
niente, non riuscì a parlare e, quando qualche giorno più tardi nacque la
bambina, la chiamarono Eleonora.
1990
Eva aveva ascoltato il nastro con
la storia del Signor Caliman fin quando ebbe registrato ogni dettaglio nella
sua memoria. Aveva anche studiato le cartine geografiche. Una mattina di
giugno, prese il treno per Locarno.
Dalla stazione,
scese fino all’imbarcadero senza uno sguardo né per le pasticcerie né per le
gioiellerie, nemmeno per le lussuose boutique di vestiti femminili dal gusto
troppo tedesco. Salì a bordo del traghetto che si chiamava “Stambecco”, prese
una gommina di Blackcurrant e si lasciò cullare dalla dolce navigazione sul
Lago Maggiore.
Il cielo era
limpido e il sole caldo, ma con la brezza fresca del lago era piacevole star
seduta all’aperto sul ponte di prua. Aveva annodato i capelli, ma una ciocca
ribelle ballava sopra il suo orecchio sinistro. I suoi occhiali da sole
riflettevano come uno specchio e, con la coda dell’occhio, osservava la ciocca
giocare nel vento.
Il battello
serviva i diversi villaggi sull’altra riva e, durante la lunga traversata, Eva
poté osservare le montagne. Di solito, si guarda il lago dalla terra ferma,
invece, vista dal lago, la montagna presentava un aspetto inconsueto. Eva tentò
d’immaginare la rete inestricabile di valli e sentieri e capì quanto fosse
impossibile ritrovare, in quel groviglio, una persona scomparsa.
Il battello tornò
verso la sponda destra, dove si trovavano Ascona e le isole meravigliosamente
fiorite di Brissago, poi scese a piccole tappe per arrivare a Stresa a
pomeriggio inoltrato.
Con le parole di
Mosè Caliman nella sua mente, Eva passeggiò sul lungolago e decise che avrebbe
pernottato là. Non aveva fretta: avrebbe compiuto il suo viaggio nel passato a
passi lenti, immedesimandosi nelle persone che riprendevano vita. Vicino
all’imbarcadero, si sedette sul bordo del molo coi piedi penzolanti sopra
l’acqua e provò a immaginare lo stato d’animo di chi ha perso tutto, è braccato
da nemici presenti ovunque, di chi scappa per salvare la propria pelle, arriva
in un posto credendo di trovarci la salvezza e invece s’imbatte in un lago che
sbarra tutto l’orizzonte.
Un cervo che
sarebbe arrivato lì, alla fine della corsa per scappare dalla muta di cani, non
avrebbe esitato; si sarebbe gettato nell’acqua e avrebbe nuotato fino all’altra
riva o fino all’esaurimento e alla morte.
Una persona, cosa
poteva fare? Un uomo, una donna e un piccolo bambino, che scelta avevano?
Nessuno dei due adulti aveva la libertà di scelta, perché con loro c’era il
bambino. Si sarebbero salvati tutti e tre o sarebbero morti insieme, ma non
potevano separarsi. Tutto o niente; era la regola, terribile.
Eva rimase seduta
a lungo. Sì, il lago, il freddo e la paura; si poteva capire benissimo: erano
stati presi in una tenaglia tra questa infinita distesa d’acqua e la morte. Il
mondo si era trasformato in una grande partita di caccia giocata tra cacciatore
e preda inerme. I cacciatori si sbranavano tra di loro ma, quando piombavano su
una preda, univano i loro sforzi e non lasciavano via di scampo. La logica
della forza distruttrice del branco prevaleva. Pas de pitié pour les canards boiteux, cioè nessuna pietà per le
anatre zoppe… Figuriamoci per le minoranze, per coloro che non erano dalla
parte giusta del mitragliatore. Follia, follia, bestialità e degenerazione
spaventosa.
Poi, la mente di
Eva cominciò a sfogliare il libro delle immagini inimmaginabili… Lei non aveva
vissuto queste immagini; le aveva “solo” viste nei libri e nei film, ma la loro
terribile storia, ora, davanti a quelle acque così tranquille, i profumi
inebrianti della primavera e i fiori quasi tropicali, esplodeva in tutta la sua
ripugnanza.
Finalmente, entrò
nell’Albergo delle Isole, riservò una stanza e, scesa nel ristorante, chiese
mezzo litro di vino bianco e dei filetti di pesce persico. “Loro” avevano avuto freddo e fame e
chissà dove avevano dormito. Forse nascosti in un camion.
Quell’albergo era
lussuoso, con enormi lampadari di cristallo e tessuti inglesi a sfondo rosa
pallido con ghirlande di fiori. Il bagno era di marmo rosa, con luce indiretta
e dolcissima: la negazione dell’orrore. In quella camera da bomboniera, non
potevano sussistere terribili ricordi. Non era successo niente. Era tutto
bello, pulito, nuovo, in ordine… Non poteva succedere niente. Qui, nessuna
coscienza era sporca; la felicità era scritta sui muri… La pace era merce da
vendere e i clienti si comperavano felicità. Bastava pagare…
Eva si sdraiò in
mezzo al letto rosa, spense la luce, respirò profondamente e iniziò la propria
seduta di training autogeno pensando intensamente: «Sono perfettamente
calma... Il mio corpo è pesante e caldo… Il mio respiro è lento… Il mio cuore
batte tranquillamente…»
In pochi minuti,
si era addormentata profondamente, come se avesse girato l’interruttore della
rete elettrica: si era staccata, con la ferma intenzione di recuperare tutte le
forze per affrontare le prove che l’aspettavano l’indomani.
I primi raggi del sole entrarono
in camera quando Eva stava già sotto la doccia. Il lago rispecchiava la
freschezza mattutina e le ultime nebbioline si rincorrevano per svanire nel
nulla come folletti colti di sorpresa.
Eva si vestì e
scese nella veranda, dove le tavole erano apparecchiate per la colazione.
Sembrava di stare in una serra tropicale, con altissime vetrate e piante
lussureggianti tutt’attorno. I tronchi esili dei Ficus benjamina dalla
folta chioma s’intrecciavano in alto come volte gotiche. Le tavole si
rincantucciavano nelle nicchie tra cespugli di Bougainvillea porpora.
Diversi grappoli di orchidee illuminavano le pareti ombrose. In un angolo, un
piedistallo di marmo bianco portava una vasca nella quale un sottile getto
d’acqua cinguettava dalla bocca aperta di un grosso rospo smeraldino che si
nascondeva tra gli enormi fiori di una Cattleya malva, terribilmente
sensuale e provocante.
Eva bevette il
bicchiere di succo d’arancia, poi sorseggiando il tè Earl Grey, sgranocchiò i
toast ancora caldi. “Loro” avevano avuto freddo e fame ed Eva pensò alla fame,
soprattutto dei bambini. Non avevano più soldi, non avevano più niente; i
passatori avevano preso tutto. Eva scese alla reception e pagò con la carta di
credito, senza nemmeno badare all’ammontare del conto, perché la sua mente era
in un altro mondo.
Con la corriera, risalì lungo il lago
in direzione di Cannobio. La strada correva tra i giardini e i parchi delle
ville lussuose che troneggiavano in mezzo ai prati verdi. I gerani dei balconi
erano già in piena fioritura. Le forsizie, le azalee e i rododendri erano già
sfioriti, ma ora avevano assunto tutte le sfumature dal verde chiaro allo
smeraldo più profondo. Le ortensie di ogni colore si alternavano ad aiuole di
rose e massicci di oleandri tra i muri di cipressi e i boschi di canfore, cedri
e palme. Lo strano miscuglio dei profumi del tiglio, della robinia e del
castagno ogni tanto sapeva di miele e ogni tanto di candeggina.
Il lago diventava
più stretto, poi si apriva di nuovo. Nei canneti, dove il fiume Toce si
riversava nel lago, svolazzavano nuvole di uccellini tutti preoccupati dai loro
riti nuziali, dalla costruzione dei loro nidi e dalla custodia delle loro
covate. Già diverse anatre nuotavano seguite dalla loro famigliola di
anatroccoli. L’effervescenza primaverile era al suo culmine e contrastava con
la calma determinazione, per non dire freddezza, che guidava il viaggio di Eva.
Dopo le Isole
Borromee e i loro lussuosi giardini all’inglese, apparvero le Isole di Cannero
con le severe rovine dei castelli medievali. Nella storia del Signor Caliman, i
fuggiaschi erano venuti fin qui, dove avevano trovato altre pattuglie,
probabilmente i fascisti. Non avevano potuto passare ed erano ripartiti per la
valle, che saliva con tanti tornanti…
Eva diede
un’ultima occhiata al lago, poi s’incamminò verso l’imbocco della Valle
Cannobina, che saliva un tornante dopo l’altro, tra pareti scoscese e boschi
scuri. La vecchia strada era stretta e probabilmente, negli ultimi secoli non
era molto cambiata. Eva salì a piedi. Forse non c’era nemmeno la corriera, ma
d’altronde lei aveva tempo. Anzi, a piedi, poteva guardare meglio e pensare di
più.
Centinaia di
metri più in basso, nel fondo della valle, scorreva il torrente impetuoso. I
ponti erano antichi e, ai fianchi delle montagne, erano aggrappati paeselli
completamente isolati dal resto del mondo. Eva camminò a lungo. Passava qualche
macchina e anche un gruppetto di ciclisti conciati come quelli del Tour de
France. Il rombo di un motore diventò sempre più forte e finalmente la
raggiunse.
«Hola!
Biondina, dove vai?» gridò l’uomo, che sedeva su un piccolo trattore tipo Henry
che tirava un carretto, sul quale era sdraiato un impressionante cane grigio a
pelo lungo e disordinato.
«Vado a Malesco»,
rispose Eva.
«Allora non sei
arrivata», disse l’uomo ridendo. «Salta su, che ti risparmi mezzoretta.»
Eva salì sul
piccolo rimorchio e si sedette vicino al cane, che depositò la sua testa contro
di lei e lei lo accarezzò. Era caldo e rassicurante.
Passarono davanti
al monumento alla memoria dei partigiani. L’uomo salutò alzando il capello di
paglia.
«Qui ne sono
successe di tutti i colori…» disse a Eva. «A Fondotoce, hanno fucilato
quarantatre ostaggi e a Finero hanno fatto fuori quindici partigiani. Senza
contare quei trecento patrioti che sono partiti sulla montagna e che non si
sono più rivisti… E tutti gli altri: imboscate, combattimenti, regolamenti di
conti… Io ero piccolo, ma ricordo. Quelle cose non si dimenticano e non si
perdonano nemmeno… Io le cose le so, ma è meglio stare zitti. Un giorno, i nodi
vengono al pettine e allora… Non c’è bisogno di premura. E poi non sono l’unico
che sa com’è andata…»
Era passato tanto
tempo, eppure quell’uomo aspettava pazientemente l’ora della vendetta e della
rivincita… Chissà quale vendetta e per quali misfatti rimasti impuniti…
«Qui vige la
legge del silenzio», disse l’uomo. «Ma un giorno, la montagna parla. E allora…»
Sopraggiunse una
jeep che suonò furiosamente: una vecchia Willis senza teloni. L’autista portava
un cappello da cowboy e
masticava uno dei sigari toscani che avevano tinto la sua barba grigia di un
giallo quasi marrone, come l’ambra.
«Ma va!» esclamò
il contadino fermando il trattorino in mezzo alla strada. Poi venne verso
l’autista, chiedendo: «Vai a Santa Maria? Portami una punta del nove per il
trapano, quella per il sasso… Già che ci sei, porta ‘sta ragazza fino a
Malesco. A piedi, non arriva mai più…».
Così Eva si trovò
seduta sulla jeep prima di poter fare una domanda. Era evidente che lì la gente
sapeva molte cose…
«È qua in
vacanza?» chiese quello della jeep.
«Sì e no», disse
Eva, che teneva lo zaino tra le gambe perché, a vedere la velocità con la quale
si facevano le curve, non si fidava di lasciarlo sul sedile posteriore.
«Qualche giorno… Non ero mai venuta. C’è un albergo a Malesco?»
«Sì! Qui di
alberghi ce ne sono dappertutto… Dopo la guerra, hanno ricostruito anche ciò
che non era mai stato costruito prima…»
Si tolse il
sigaro di bocca e sputò violentemente verso il bordo della strada, dove i
pennacchi bianchi delle graminacee abbassarono la testa per evitare la patacca.
Poi l’autista rimase silenzioso, fino a quando non arrivarono nel punto in cui
la veduta sulla valle del Melezzo si apriva sotto di loro. L’uomo fermò la jeep
e spense il motore.
«Vede, quella era
una valle bellissima. La chiamavano la Valle dei Pittori. Ebbene, oggi, è
diventata la Valle dei Costruttori… Costruiscono dappertutto: case, case, case…
Condomini, appartamenti… Sono chiusi tutto l’anno. Qui vengono solo i
vacanzieri per l’estate; milanesi… Vede lassù, sulla montagna? Hanno costruito
addirittura i “Resideins”. Distruggono tutto… Ci sono gli ambientalisti, ma
loro proteggono solo le zone umide, le pozzanghere per la rana rossa e il
tritone alpino… Tra poco non ci sarà più che cemento e catrame. E allora,
quando tutto sarà distrutto, i loro cari turisti andranno, dove ci sarà ancora
qualcosa da distruggere… È il futuro che avanza.»
«A lei non piace
il futuro?» si azzardò Eva.
«No, neanche un
po’. Non questo futuro, perché così non c’è affatto futuro.»
«E il passato?»
chiese Eva sperando di poter indirizzare la conversazione verso gli argomenti
che la interessavano.
«È ben a causa
del passato che oggi c’è il presente», mugugnò l’uomo mentre scuotendo la
testa, riavviava il motore per significare che il discorso era chiuso.
Si fermarono
davanti alla chiesa, Eva scese, l’uomo accennò un mezzo saluto militare, poi
ripartì senza voltarsi lasciando Eva piantata in mezzo alla piazza col suo
zaino depositato per terra e l’atteggiamento evidente di qualcuno che si
chiedeva: «E adesso, cosa facciamo?»
«Adesso», pensò
Eva. «Deposito questo sacco in un albergo e mi faccio una perlustrazione a
piedi.»
Quindi entrò
nell’Albergo delle Tre Stelle Alpine, chiese una camera, ci lasciò lo zaino e
si allontanò per le viuzze del villaggio.
Malesco era un piccolo villaggio
qualunque, con qualche enorme condominio chiuso e sproporzionato per le dimensioni
locali. Sotto il paese, scorreva un fiume dagli argini dubbiosi, sbarrato da
briglie disastrate come all’indomani d’un alluvione, col cemento sfondato e le
bacchette di ferro puntate in aria alla maniera di una dentiera che ha perduto
un dente su due.
Eva scese vicino
all’acqua, si sedette su un grosso sasso rotondo, appoggiò i gomiti sulle
ginocchia e, col binocolo, cominciò a guardarsi intorno fin quando,
all’improvviso, un furioso abbaiamento si scatenò ai suoi piedi.
«Rex! Vieni qua!»
gridò un signore che agitava le braccia invano. Il cane che mostrava i denti e
ringhiava era davvero brutto: nero, con la testa piccola, il corpo
sproporzionato e grasso e gambette sottili come un burocrate dal corpo obeso e
dagli arti degenerati. Gli mancavano solo gli occhiali.
Eva,
prudentemente, non si mosse fin quando non arrivò il padrone.
«Non si spaventi,
Signorina. Non è cattivo, è solo psicopatico: pensa che lei voglia rubargli la
pallina…»
«Morde?»
«No! Fa solo
fracasso…»
Difatti, sotto il
sasso giaceva non una pallina, ma un grosso bastone. Il signore lo prese e lo
scaraventò il più lontano possibile, fino all’altra riva del fiume. Il cane
partì in tromba col suo ridicolo codino mozzato in aria, si gettò nell’acqua,
attraversò la corrente come un siluro, afferrò un capo del bastone troppo lungo
e proseguì in una corsa sfrenata trascinando il resto del bastone dietro di sé
mentre il padrone gridava: «Dai, Rex! Dai, corri, corri…»
«Mi farà morire»,
sospirò poi rivolgendosi a Eva, che osservava in silenzio. «Questo ha
un’energia… Due volte al giorno devo farlo correre, altrimenti mi disfa la
casa…»
Poi riflettendo e
quasi per sé stesso, aggiunse: «E d’altronde… Non fuma, non beve, non va a
donne. Non fa che mangiare, dormire e rincorrere palline o, naturalmente,
bastoni…»
«Allora, lei
viene qua due volte ogni giorno?» chiese Eva.
«Tutto sommato
direi di sì…»
«Conosce bene la
regione?»
«Sì e no. Abito
qua, ma sono straniero», rispose l’uomo col tipico accento lombardo.
«Parla bene
l’Italiano per essere uno straniero…»
«Sono italiano,
ma qui se non ci sei nato e cresciuto da venti generazioni, sei straniero…»
Eva provò a farsi
raccontare quello che gli altri avevano sottinteso senza però esplicitare.
«Guardi»,
interruppe l’uomo. «Io mi chiamo Marco…»
«Ah, piacere. Io
mi chiamo Eva…»
Si strinsero la
mano e si sedettero vicino all’acqua che scorreva limpida e molto fredda tra i
ciottoli rotondi e bianchi, mentre Rex veniva ad annusare quella figura nuova.
Eva prese nel taschino la scatoletta metallica grigia e blu, la aprì e la porse
a Marco. Presero tutti e due una pasticca di Blackcurrant e si misero a
masticare pensierosamente.
«Non ero mai
stata qua», riprese Eva. «Mi sono meravigliata di questi grandi condomini tutti
chiusi… Qualcuno mi ha detto che sono delle case per le vacanze. A me sembra
strano… Non posso immaginare chi vorrebbe venire qui per le vacanze. Il posto
mi sembra così… squallido. Questo fiume martoriato, queste povere montagne
degradate da funivie e costruzioni, a dir poco oscene…»
«E quello è solo
quanto salta all’occhio a prima vista», disse Marco. «Il peggio è quello che
non si vede… Discariche, fognature…» E iniziarono una vasta discussione sullo
sfruttamento della natura.
«Ma qui, da dove
vengono i capitali?» interruppe Eva.
«Qui, prima della
guerra erano scavapatate»
«Durante la
guerra», chiese ancora Eva. «Sono successe strane cose?»
«Come dappertutto
in zona di confine», rispose Marco. «Traffici, bracconaggi, contrabbandi… E non
solo di merci, anche di gente.»
«Come di gente?»
«Di preciso io
non so, ma ogni tanto si sente qualcosa; qualche accenno, qualche sottinteso…
Qui la gente non parla, ancora meno con gli stranieri… Omertà… Si figuri che
quel tale ha ucciso un cane a bastonate e nessuno ha osato testimoniare! C’è
anche una storia strana di un aereo caduto… C’è chi racconta che il carico non
è mai stato ritrovato. Altre voci dicono che quando hanno trovato l’aereo, il
pilota non era morto, ma dopo non era nemmeno più vivo… Girano storie strane…»
«E durante la
guerra? C’erano passatori?»
«Passatori,
partigiani, fascisti, tedeschi, e poi i “liberatori”. Una grande confusione;
una grande anarchia nella quale i deboli, una volta di più, hanno pagato il
prezzo più alto…»
«Quale prezzo?»
«Tutto: denaro,
gioielli e qualche volte anche la vita…»
«C’erano Ebrei?»
«Sì, anche Ebrei.
C’erano anche donne e bambini…»
«Donne e
bambini?»
«Si racconta che
qui imperversava una banda di passatori; derubavano la gente, li portavano di
notte in un posto bruttissimo invece di condurli dall’altra parte del confine…
Insomma, li buttavano giù, nel burrone… Si racconta, ma chi sa se è vero…
Nessuno è mai tornato indietro per dire com’è andata.»
«Sì, sempre i
deboli pagano. Oggi non è cambiato niente.»
«È così in tutto
il mondo.»
«E qui? Dov’è
quel posto?»
«Chi lo sa…»
disse Marco pensieroso. «Quelli che sanno non parlano. I vecchi muoiono. Tra
poco più nessuno ricorderà. In queste montagne, ogni cinque anni viene una
grossa alluvione che spazza via tutto e non se ne parla più…»
«Senta», aggiunse
Marco. «Non vuol venire a casa mia? Mia moglie cucina bene, ci facciamo una
bella spaghettata, come diciamo noi, “un 5 di Barilla”…»
«Conoscevo il 5
di Chanel, ma il 5 di Barilla… Ammetto che m’ispira curiosità…»
La sera saliva dalle valli verso le
cime. Stava diventando frescolino. Marco ed Eva se ne andarono col cane bagnato
e l’acquolina in bocca, pensando agli spaghetti ai carciofi che Gina, la moglie
di Marco, stava cucinando.
«Allora», disse
Eva mentre arrotolava gli spaghetti attorno alla forchetta. «Lei s’interessa
della storia degli Ebrei?»
«Ma no!»
interruppe Gina scherzando. «Marco, gli Ebrei, gli odia! Se fosse per lui li
metterebbe tutti al rogo…»
«Come mai?»
«Beh», disse
Marco. «Non è facile da spiegare. È un sistema di autodifesa, un meccanismo
usato da molte persone. Se io dico “odio gli Ebrei”, basta: chiuso. Invece,
appena mi chiedo “Gli Ebrei… cosa ne penso?” si apre una breccia nelle mie
difese. Se mi chiedo cosa ne penso sono costretto a guardarli, studiare la loro
storia, andare a vedere i campi di concentramento, guardare i film e leggere i
libri… È più comodo ignorare…»
«Anche se non
guarda, comunque i drammi ci sono…»
Il discorso era davvero ampio, ma
sempre ritornava allo stesso nesso: non solo il confronto tra la vittima e il
carnefice, ma anche l’atteggiamento del testimone. Se il testimone fa silenzio,
diventa complice. Se invece reagisce, viene coinvolto in un vortice.
«Il peggio»,
disse Eva. «È diventare complice a causa del proprio silenzio».
Quella sera, Eva
tornò in albergo più decisa che mai ad andare fino in fondo alla sua storia.
Anche se gli elementi certi erano davvero scarsi.
Alle cinque del mattino, fu
svegliata dalle macchine dei frontalieri che passavano per andare a lavorare in
Svizzera. Si alzò e, quando fu pronta, partì anche lei, seguendo il piano
dedotto da quanto aveva potuto ricostituire, in direzione del confine elvetico.
Passò Rè e Meis, poi salì verso Dissimo e Olgia.
Eva portava
pantaloni, una camicia color kaki e degli scarponi da trekking. Sembrava in
divisa militare, ma senza mostrine. Il suo zaino conteneva l’occorrente per
sopravvivere una settimana, come aveva imparato nelle montagne del Sinai.
Poi, seguendo la
cartina geografica e masticando le gomme di Blackcurrant, risalì verso le
montagne con, nella mente, la voce lamentosa di Mosè Caliman e, accuratamente,
ricordò parola per parola:
“Era un gruppo. L’ho raggiunto a
Castiglione delle Stiviere. Volevano andare in Svizzera. Andavano verso Nord.
Camminavamo di notte oppure ci spostavamo nascosti in un camion. Il gruppo si
disfaceva e si ricomponeva. Ci separavamo per non farci notare. Ci nascondevamo
nei boschi e nelle case abbandonati. Andavamo sempre verso nord perché lì si
sapeva che c’era il confine, ma tutte le volte, prima del confine c’erano le
bande armate. Allora scappavamo di nuovo verso sud per ritentare verso nord
qualche chilometro più a ovest.
Ci avevano detto
che a Stresa si poteva passare il confine. Abbiamo impiegato nove giorni per
arrivarci. Siamo arrivati, ma lì non c’era Confine. C’era solo il lago, un lago
grandissimo. Abbiamo chiesto in giro, discretamente. Poi abbiamo trovato degli
uomini che volevano condurci. Ci hanno riso in faccia… quel Confine non era a
Stresa, ma a Ponte Tresa. Noi cosa ne sapevamo… Adesso eravamo a Stresa e qui
non c’era confine… Gli uomini volevano condurci. Non erano Ebrei. Erano
passatori. Lo facevano solo per soldi. Volevano i nostri soldi e noi non
avevamo più niente.
C’era un signore
che continuava a dire: “No Lea, non l’orologio di tua mamma”, poi hanno dato
l’orologio e anche la catenina del bambino… Hanno preso tutto quanto ci
rimaneva. Hanno detto che ci facevano attraversare il lago. Siamo stati ad
aspettare fino a tarda notte. Faceva freddo. I bambini si addormentavano, poi
piangevano. Non sopportavo di sentirli piangere. Quando piangevano, attiravano
l’attenzione. Ero terrorizzato che ci avrebbero traditi. Qualcuno li poteva
sentire e venire a controllare chi fossimo e arrestarci. Io avevo sentito dire
dove andavano i treni con gli Ebrei. Qualcuno è venuto e ha detto che non si
partiva perché c’erano troppe pattuglie. Ci hanno detto che, il giorno dopo, ci
avrebbero portati sulla strada lungo il lago. Un’altra notte di freddo e di
paura.
Siamo partiti con
un camion. Prima del confine, si sono fermati e ci hanno fatto scendere. Siamo
tornati indietro. Poi siamo ripartiti col camion su una strada che saliva.
C’erano molti tornanti. Durava tante ore. Quel giorno siamo rimasti nascosti in
una casa bruciata. Ci hanno dato da mangiare solo pane. Alla sera, siamo
ripartiti di nuovo verso il confine della Svizzera, ma anche lì c’erano “le
brigate”. Non si capiva chi: si diceva brigate, poi pattuglie, fascisti,
partigiani… Passavano anche aerei. Si davano la caccia tra di loro.
Noi, in mezzo a
tutta quella confusione, cercavamo solo di raggiungere il confine. Ci siamo
fermati, poi siamo andati a piedi, lungo una mulattiera che saliva. Abbiamo
camminato per ore. Le donne erano stravolte. I bambini piangevano. Non si
poteva fare rumore. Portavamo i bambini piccoli. Eravamo tutti stanchi. Siamo
passati in un villaggio. Lo abbiamo attraversato. Poi siamo saliti verso la
montagna, verso il bosco, su un sentiero largo che saliva per diverse ore. Poi,
abbiamo cominciato a scendere. In mezzo al bosco, c’era un piccolo prato. Ci
hanno fatto entrare in una vecchia casa di sasso senza finestre. C’erano delle
patate e dell’acqua. Eravamo talmente stanchi che abbiamo dormito tutto il
giorno: c’era del fieno.
Poi, uno di loro
ci ha detto: “Questa notte, il sentiero è tutto piano, fino a un’alpe. Da lì,
ci sono duecento metri fino al confine. Siete quasi arrivati. Poi, basta salire
cento metri e siete sul sentiero che va nei paesi svizzeri”.
Siamo partiti
verso sera. Il sentiero era davvero quasi piano, ma la pendenza della montagna
era ripida. Il sentiero si vedeva poco perché era pieno di foglie. Si
inciampava, si scivolava. E sempre la paura di cadere, perché saremmo rotolati
lungo quel pendio così impervio…
Quando siamo
arrivati all’alpe, ci hanno detto: “Ecco: da qui è dritto. Scendete dritti per
duecento metri, poi c’è il riale che fa da confine, lo attraversate e siete in
Svizzera. C’è poca acqua…”
“Non venite con
noi?” ha chiesto qualcuno.
“Per far cosa?
Scendete dritto; qua è tutta discesa… Non andremo mica fino in fondo per poi
dover risalire…”
Ci hanno lasciati
lì. Eravamo da soli. Non conoscevamo il posto. Non saremmo riusciti a tornare
indietro. Avevamo paura. Non c’era più il sentiero; si doveva scendere nel
bosco. Era tutto bosco e rocce e faceva buio. Abbiamo cominciato a scendere,
poi c’erano pareti di roccia, poi abbiamo girovagato, sempre più in giù. Si
cadeva, non si vedeva più niente, ma si sapeva che c’era il confine e si
sentiva scorrere l’acqua del riale, un piccolo riale. Poi, dopo era tutto
roccia… Poi quegli uomini hanno gridato: “Correte, correte, arrivano le
guardie!”
Hanno anche
gridato “Arrivano i fascisti!”
Abbiamo sentito
sparare. Eravamo così vicini… Ci siamo messi a correre, ciascuno per conto suo,
senza pensare agli altri, giù e giù. Ci siamo persi. Io sono caduto, sono
scivolato, sono rotolato e, quando mi sono fermato, ero mezzo incosciente,
vicino al riale. Ho preso l’acqua, ho bevuto, ho bevuto tanto. Ero sudato,
avevo paura, avevo anche male dappertutto. Sentivo gridare, gridare dal dolore
e qualcuno gridava: “Non lasciarmi qua!” Mi sono alzato e, e dall’altra parte
del riale, ho cominciato a salire. Mi trascinavo sulle ginocchia, a quattro
zampe. Volevo andare in su, solo in su. Sapevo dove andavano i treni; non
volevo lasciarmi prendere. C’erano rocce, grandi pareti di roccia.
E si sentivano le
grida terrorizzate.
Mi sono
trascinato sotto le rocce. Non mi sono più fermato perché avevo paura. Le mie
gambe tremavano. Sentivo sempre quella voce che gridava: “Non lasciarmi qua!”
Non volevo più sentirla. Andavo il più velocemente possibile, poi sono caduto,
forse sono svenuto. Quando mi sono ripreso, era già giorno. Ero da solo; non
c’era più nessuno e non sono tornato indietro per vedere dov’erano andati gli
altri… Stavo in piedi a malapena. Non avevo mangiato.
Non so quanto
tempo ho impiegato per arrivare alla strada… Io ho avuto fortuna: mi hanno
preso le guardie. Mi hanno portato via. In Ticino c’era quel politico, quel
Canevascini, un socialista. Ci hanno accolti; il Ticino ci ha accolti. In altri
cantoni, sono stati respinti… Io sapevo, dove andavano i treni… Quando la
guerra è finita, sono rimasto perché non avevo più nessuno. Non avevo più
nessun posto, dove andare… Non vedevo nessun posto, dove avrei potuto andare…
Sono rimasto, ho fatto tutti i lavori, poi sono finito come mi vede: vecchio,
malato, miserabile… Non sono tornato indietro per vedere cos’era successo agli
altri… E sento ancora adesso quella voce che supplicava: “Non lasciarmi qua…”
Di notte, mi sveglio perché quella voce mi chiama. In tutti i miei incubi, c’è
quella voce che chiama. Ho paura della notte perché ho paura degli incubi. Ho
paura di quella voce…
Non c’è più stata
pace, non ci sarà mai più pace… Credo di non avere altro da aggiungere…”
Eva attraversò il villaggio. Il
sentiero saliva su per prati ripidi e, finalmente, entrò nel bosco di faggi. La
sera scendeva lentamente; era ora di cercare un rifugio per la notte.
Il sentiero
proseguiva a zig-zag stretti. La pioggia aveva portato via la terra e non
rimanevano che sassi scomodi sotto le foglie secche; gli scalini erano
irregolari, si camminava male e lentamente. Arrivando in cima alla collina, il
bosco si aprì. Nel vasto prato stavano alcune cascine. Eva ne cercò una che
fosse aperta. Sembravano tutte chiuse con grossi catenacci.
Una stalla era
aperta. Non aveva nemmeno la porta; c’era poco fieno. Le capre e le pecore
erano entrate e avevano insudiciato tutto. Sul piano di sopra ci si poteva
sdraiare. Il pavimento era fatto di tronchi giovani depositati l’uno vicino
all’altro. Qualcuno era rotto e sui due pezzi che penzolavano c’erano un po’ di
fieno e tanta sporcizia. Eva cercò il fieno meno sporco, lo stese dove il
pavimento aveva resistito: avrebbe dormito lì. Lasciò il suo zaino, poi salì
verso il punto più alto della collina. Si sedette e col binocolo si guardò
intorno.
Era quella la
zona che aveva osservato quando, con Donato, aveva perlustrato l’altra sponda
della valle. Era qua che doveva cercare. La cartina marcava chiaramente tutti
gli alpeggi e tutti i sentieri. L’indomani, sarebbe partita dall’angolo del
prato per cercare il sentiero che saliva e che portava all’alpe. Per ora, Eva
non desiderava altro che sdraiarsi e dormire.
Si sdraiò nel suo
sacco a pelo. Il pavimento era duro, ma quel poco di fieno era quasi
confortevole.
Ripensò a Donato. Prima di
partire, gli aveva telefonato:
«Volevo farti le
mie condoglianze per tua madre.»
«Tu sai tutto di
me, vero?»
«Tutto forse no.
Qualcosa, sì…»
«Come fai a
saperlo?»
«Lo Zio Ariel…»
«Lo stesso Signor
Ariel Levi che conosco io?»
«Sì.»
«È tuo Zio?»
«È lo zio di mio
padre.»
«Viveva con mia
madre…»
«Sì. In qualche
modo, tu ed io siamo fratelli, o almeno cugini…»
«Sono successe
troppe cose. Non riesco a capire il corso degli eventi. Vorrei parlare con te.»
«Sì,
dobbiamo parlare. È importante. Gli
adulti di oggi siamo noi. Quello che loro hanno fatto non era per loro; l’hanno
fatto per noi e noi lo faremo per i nostri figli… È importante parlare insieme
e che tu capisca. Quando ritornerò…»
«Vai via?»
«Sì.»
«Tu sai tutto
anche di mia madre?»
«Non tutto.»
«E tu, chi sei?
Non vuoi dirmi chi sei?»
«Chi sono io non
è importante, l’importante adesso è che tu possa capire chi sei tu. Se vuoi, ti
aiuterò.»
«Sì, avrò bisogno
di te. Ero così sicuro di me. Adesso non mi riconosco più. Mi sento estraneo a
me stesso. Ho vissuto quarant’anni come orfano. Oggi ho una madre e un padre,
ma non saranno mai qui per rispondere alle mie domande. Molte persone sanno
tutto di mia madre e di mio padre ed io, che sono il loro figlio, sono l’unico
a non sapere niente… Mi sembra d’impazzire. Sono sempre stato solo e oggi mi
trovo una famiglia di cui non so niente… È come se avessi vissuto in un altro
mondo. Qual è il mio mondo? Ho bisogno di certezze. Voglio conoscere la verità…»
La notte era fresca. I ghiri
giocavano tra le travi del tetto. Gli animali della notte si svegliavano e
cominciavano le loro perlustrazioni alla ricerca di cibo.
Prima dell’alba,
Eva sentì un rumore strano che si ripeteva a cadenza regolare: sembrava il
gorgheggiare di una bottiglia, seguito da un soffio potente. Senza far rumore,
si alzò, si vestì, lasciò tutte le sue cose, uscì dalla stalla e cercò la
provenienza di quel rumore che non conosceva.
Veniva dall’alto.
Lei salì, poi raggiunse un avvallamento che era come un anfiteatro nel quale
rimaneva una chiazza di neve: quattro grossi uccelli neri salivano e
scendevano, si sfidavano, si rincorrevano, poi partivano ognuno per conto suo
prima di ricominciare. Rovesciavano la testa all’indietro per cantare, poi
ripartivano a testa bassa, le ali stese e la grande coda nera aperta come un
ventaglio in un fremito minaccioso. Era la parata dei maschi[48].
Due gallinelle si tenevano in disparte. Eva si sedette a osservare la danza.
Una volpe venne a vedere se poteva sorprendere qualcuno. Poi arrivarono i primi
raggi del sole. Bruscamente, tutti volarono via e fu di nuovo il silenzio.
«Bello… È così
che la vita continua…» pensò Eva mentre tornava alla stalla per far bollire due
tazze di acqua sul suo fornellino a gas.
Prima si preparò
una tazza di fiocchi di cereali, poi una tazza di tè. Faceva freddo. Eva aprì
le cerniere del suo sacco a pelo e se lo mise intorno alle spalle a mo’ di
scialle, poi riprese in mano la cartina per studiare il seguito del percorso.
Dopo la frugale
colazione, Eva prese il suo zaino in spalla e si avviò. Lasciando il prato, si
doveva salire sul fianco destro del monte, ma il sentiero si perdeva sotto le
foglie di faggio. A tratti era totalmente cancellato.
Tornò indietro.
Il sentiero che saliva sulla sinistra portava a un’alpe. Era un sentiero largo
e comodo, anzi, una mulattiera. Dopo l’alpe, seguivano prati, rocce, pietraie,
boschi radi. Doveva essere un posto di vipere. Una cascina era crollata. Eva
salì in cima al prato, poi si sedette e col binocolo esaminò la valle che
scendeva a est verso i muraglioni di roccia. Era evidente: la valle che cercava
si trovava ai piedi di quelle pareti. Ne era separata dalla vasta distesa di
foresta nella quale si poteva gironzolare per giorni, incappare nelle rocce,
dover risalire e ricominciare.
C’era un altro
sentiero marcato, quasi orizzontale, e di là sarebbe stata tutta discesa,
proprio sullo spartiacque. Anche se il sentiero si perdeva, bastava rimanere
sulla costa. Eva decise di tornare indietro verso sud seguendo questo sentiero.
Un po’ si vedeva, un po’ s’indovinava. Quando arrivò alla bocchetta, capì che
era sulla strada giusta.
Mentre si
camminava nel bosco, non si vedeva niente. Non c’era modo di trovare punti di
riferimento: si era immersi nella vegetazione. Arrivata sul monte, poté
riorientarsi e ripartire verso est. Difatti, sullo spartiacque, trovò le tracce
di un sentiero che scendeva dritto e, quando scomparve completamente, lei
continuò a scendere nel bosco dritto davanti a sé e finalmente sboccò sul
prato.
Eva si fermò all’alpe. Avrebbe
bivaccato lì e, l’indomani, avrebbe deciso il da farsi o forse il giorno dopo… ma qui, c’era davvero una voce che la
chiamava: la sentiva nella sua anima.
«Non lasciatemi
da sola. Non lasciatemi qua».
Eva si sedette
sul prato davanti alla cascina e si raccolse in profonda meditazione: voleva
dare tutto lo spazio a quella voce perché potesse uscire dalla notte, dal suo
subconscio e dall’orrore.
Eva recitò il suo
mantra e ci aggiunse: «Nonna, sono venuta perché mi chiami. Guida i miei passi.
Sto camminando verso di te. Ti ascolto, guidami verso di te…»
L’alba si alzava prestissimo
perché la primavera si avvicinava al solstizio. Eva riaccese il fuoco nel
focolare della cascina, scaldò l’acqua, bevette il tè Earl Grey molto forte,
mangiò lentamente i fiocchi di cereali gonfiati dall’acqua bollente, poi
richiuse tutto nel suo zaino e si orientò.
La foresta era
rasserenante; sul fondo del prato, pascolavano due camosci: una femmina gravida
e il suo piccolo nato l’anno prima. Gli uccelli cantavano come impazziti e il
loro chiasso sfrenato dava corpo al silenzio.
Eva guardò sopra
di sé le pareti vertiginose color melanzana che si slanciavano nel blu turchese
che segue la porpora dei primi raggi del sole. Le valli erano ancora scure. Il
contorno delle cime cominciava a luccicare. Le pareti sarebbero diventate
gialle e poi bianche, splendenti, un
granito magnifico e maestoso, pareti immense frastagliate di torri che
svettavano nel cielo; placche e guglie, spigoli e profondi canali tuttora
invasi dalle ombre e dagli spiriti.
Sopra di lei, si
drizzava la fortezza che custodiva troppi segreti. Eva decise di scendere verso
il buio, di scendere in sé stessa e nel passato lontano; di scendere nel
ricordo e nell’abisso dove le anime si uniscono e non sono più che una sola. Là
sapeva che avrebbe incontrato sua nonna. Nel fondo della sua anima, c’era
quella di sua nonna.
Guardò il cielo,
si orientò e cominciò a scendere senza pensare, senza guardare. Scendeva col passo
leggero e sicuro sulla strada che nel suo intimo conosceva; quella strada che
aveva imparato ad ascoltare durante le pattuglie notturne, le missioni nel
deserto o le marce nelle montagne.
Certi lo
chiamavano “istinto”. Eva la chiamava la “voce della vita”. Le bastava seguire
la voce della vita che la guidava, perché la sua energia era in perfetta
sintonia con le vibrazioni della terra, degli alberi, degli animali che
tranquillamente seguivano i cicli delle stagioni.
Arrivò sopra le
rocce e sapeva di dover voltare a sinistra. Lì avrebbe dovuto trovare un
canale: lo sentiva all’aria fresca che scendeva lungo l’avvallamento. C’era un
passaggio e vide che una cengia stretta permetteva di scendere fino all’acqua
del torrente. Eva si mise in ginocchio, prese l’acqua tra le mani e si lavò il
viso, poi bevve. L’acqua era buona, ghiacciata. Conosceva la sete del deserto.
Invece qui, l’acqua scorreva semplicemente tra i sassi come un lusso arrogante
e nessuno ci faceva caso; nessuno capiva il suo valore…
Il bosco era
lussureggiante, l’odore delle foglie di faggio quasi marce era acre e il loro
colore rosso, scuro come il granato. Quel posto era bellissimo ed era fatto per
riposare in pace. Ad ogni buzza[49],
i torrenti cascavano dalle pareti e si concentravano in quel piccolo riale, che
allora diventava un torrente furioso che spazzava via tutto e rendeva alla
roccia il suo biancore impietoso. C’erano state molte buzze e l’alluvione del
‘78: i corvi, le volpi e i cinghiali avevano cancellato tutto. Era quella la
valle della Ribellasca. Eva se la ripeteva come una filastrocca: ribelle, bella, fuggiasca…
Come aveva
imparato durante marce estenuanti, notti fredde, accampamenti precari,
sorveglianze rischiose e allenamenti spietati della vita militare, una volta di
più Eva avviò il protocollo del training autogeno. Fece il vuoto, si
lasciò penetrare dall’incanto e la sua anima si lasciò invadere dalle piante e
dai muschi, dalle rocce e dal fiume tra quegli enormi sassi rotondi che da
millenni seguivano la strada verso la pianura.
Se qua uomini e
donne erano morti, non poteva essere che guardando verso l’alto, dal fondo di
quel burrone, verso la luce che splendeva tra le cime.
A destra, a pochi
passi, alla base della parete strapiombante, era crollata una vena di roccia
più morbida e gialla, lasciando dietro sé un’apertura come una grotta.
Ora le era tutto
evidente. Eva entrò nella grotta e si sedette. I suoi occhi si adattarono alla
luce più dolce. Il vento aveva soffiato le foglie morte che si erano
ammucchiate in un angolo. Non c’era da trovare nulla di materiale, bensì
l’intima convinzione che, qui, le cose erano successe…
Era compiuto tutto: Eva aveva
risposto alla chiamata e compiuto il suo dovere. Ora si sentiva in pace.
Si sarebbe ancora
fermata a parlare con Donato: coi suoi dubbi, le sue inquietudini e i suoi
molteplici “chi sono io?”.
Finalmente, Eva
si sentì libera; libera di partire e riprendere il suo posto nei servizi
segreti che, discretamente, continuavano a indagare sui crimini perpetrati contro
il suo popolo, che ora si stava costruendo una vita nuova.
Epilogo
Molti anni sono passati.
Donato e Sigried
vivono in un angolo sperduto del Montana, ai piedi di grandi montagne, nel ranch
che Nora aveva comperato con l’intento di trascorrerci gli anni tranquilli
della vecchiaia. Producono miele, principalmente di larice.
Per Eleonora e
Luca, il tempo libero è poco, perché si preparano a entrare a Harvard, dove era stato riservato loro un posto.
Eleonora è appassionata di cavalli, mentre Luca pratica l’arte della pesca alla
mosca. E in mezzo scorre un fiume….
Da loro, Ariel
ritrova il calore della famiglia e tutti si rallegrano quando Eva sbarca
all’improvviso con regali fantasiosi ed avventure rocambolesche da raccontare.
Solo dopo il loro trasferimento negli Stati Uniti, il Signor Ariel Levi
mi diede il permesso di raccontare la storia della sua famiglia.
In Belgio, fino al dramma della
guerra, i Levi erano stati i nostri vicini di casa.
FINE.
Finito di raccontare venti anni dopo, il 5 luglio
Bibliografia
Israele
«La Bible» tradotta da André Chouraqui
«Bibbia ebraica» a cura di Rav Dario Disegni
«The Constant Feud» by E.G.Ban
«My life» autobiography by Golda Meir
«Rise and kill first» by Ronen Bergman
«Israele - I Luoghi e la Storia» Annie Sacerdoti, Edizioni White Star 1998
- ISBN 88-8095-317-6
«Breendonk, les débuts» P. Buch, R. Linthout, F. Selleslagh, Buch Edition -
1997; ISBN 2-930180-04-8
«Le Livre des Camps» Ludo van Eck, Ed. Kritak, 1979,
« L’Europe face à
l’islam » Alain Wagner.
«Stallag XVII
Kaisersteinbruch» Anne Lauwaert https://www.moosburg.org/info/stalag/lauwaert.html
http://www.terredisrael.com/infos/la-synagogue-de-lugano-un-petit-monde-a-part-par-anne-lauwaert/
Congo
«Comment j’ai retrouvé Livingstone» par Henry Morton Stanley
«Stanley, the making of an African explorer» by Franck McLynn
«Autobiography» by Tippo Tip
«Mon Père m’a dit» par Elliott Roosevelt
«Chief of station Congo» by Larry Devlin
«Souvenirs d’enfance» Anne Lauwaert
https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/p/congo.html
Diamanti
«Rhodes» by Antony Thomas
«The Courtney & Ballantyne novels» Wilbur Smith
Documentazione del Hoge Raad voor Diamant di Antwerpen
«Antwerp Facets» Hoge Raad voor Diamant, sept. 1999, nr. 32
Valle Onsernone
«La Voce Onsernonese»
Della stessa autrice:
«I Giorni della Vita Lenta» CDA - Torino 1994
«La Via del Drago» - CDA - Vivalda - Torino 1995
2a edizione 2008
Iconografia vedi www.claudiobarbier.be
Premio Letterario Leggimontagna 1° rango, 2009
«Allarme in Valle Onsernone» - presso l’autrice 1995
«Les Oiseaux Noirs de Calcutta» -Ed. Tatamis - Paris - 2012
«Le Grimpeur Maudit» - Ed. Tatamis - Paris - 2012
«Des Raisins trop Verts…» - Mon Petit Editeur - Paris - 2014
Illustrazione di vari libri di Malca Levi
Numerosi articoli e racconti.
Vedi https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/
Quarta di pagina:
Il destino conduce Nora dalla Valle Onsernone a New York,
dove incontra diamantari ebrei di Anversa e la musica che la condurrà
attraverso capitali europee ed avvenimenti politici come la nascità dello stato
di Israele per, finalmente, ritrovare la persona che è stata il perno della sua
vita: suo figlio.
Anne Marie Georgette Lauwaert, detta Anna, è nata il 2 febbraio 1946 a Ninove, nelle Fiandre.
Scrittrice svizzera di origine belga, fiamminga ma di
lingua madre francese, vive in Ticino dal 1980. Fisioterapista, ha studiato in
Belgio e Svizzera, ha trascorso parte della sua infanzia in Congo, viaggiato in
Sud Africa, Pakistan e India.
Oltre a scrivere, Anna dipinge, studia musica, filosofia
e pratica il giardinaggio.
[1] Bacìo, versante della montagna all’ombra.
[2] Gabinetto.
[3] Alambicco.
[4] Linguaggio popolare per “comunione solenne”.
[5] Sbruffone.
[6] il salmo 121
[7] “Se vuoi la pace, prepara la
guerra.”
[8] “Perché era lui, perché ero io”.
[9]«Il giorno in cui la pioggia verrà, noi saremo, tu ed io, i più ricchi del
mondo. Gli alberi piangenti di gioia offriranno tra le loro braccia i frutti
più belli del mondo».
[10]«Balliamo perché nei granai si ripone il grano, è l'ultimo giorno della
mietitura, balliamo senza più pensare allo sforzo che abbiamo fatto, balliamo.»
[11] «Se gli affari vanno male, è colpa degli Ebrei…»
[12] «Questi sporchi Ebrei… Non è vero, Signora?»
[13] «La stupidità umana dà un'idea dell'infinito.»
[14] Portafortuna, amuleto
[15] «Sì, sì! Un Top Wesselton… senza dubbio…»
[16] «È quello… River… Mmh… Sì, sì…»
[17] «Molto, molto piccole impurezze…»
[18] Inclusioni difficili da osservare ad occhio nudo.
[19] Incrinatura di sfaldatura.
[20] Lente che non deforma l’immagine e non scompone la luce
[21] Tipo di pinzetta.
[22] Torre di sorveglianza nelle prigioni e nei campi di concentramento.
[23] Centro di “accoglienza” cioè detenzione
[24] “Circuiti riverberanti” , cf. Lawrence Kubie; “e non
racconto nemmeno tutto...”
[25] «Speriamo che duri…»
[26] «Quando il nostro cuore ha fatto una volta la sua vendemmia…»
[27] Quinta sinfonia di Beethoven: la
la la fa
[28] «Sì, quelli sono tipi in gamba…»
[29] Celebre canzone: “Gerusalemme d’Oro.”
[30] Piccoli escrementi.
[31] “Santo cielo! Il mio marito!”
[32] Fine lastra di granito usata come
tegola sui tetti.
[33] “Quelli che ballano nudi.”
[34] Superpuma, Puma, Kamov, Lama e Alouette sono modelli di elicottero.
[35] «Né visto, né conosciuto».
[36] Letteralmente «fico d’India, cactus». In senso figurato, si dice di una persona
ebrea nata in Israele dopo la costituzione dello Stato d’Israele.
[37] «La musica addolcisce i comportamenti».
[38] «Aria di monti limpida come vino e fragranza di pini
portata nel vento del crepuscolo, con una voce di campane, e in un sonno di
albero e di pietra, prigioniera del suo sogno, sta la città che siede
solitaria, nel cuore della quale sta un muro...» (canto tradizionale
israeliano).
[39] «Gerusalemme d'oro, di bronzo e di luce, forse che io non
sono un violino per tutte le tue canzoni?»
[40] Dialetto della Svizzera tedesca.
[41] Deformazione in linguaggio familiare tedesca della parola francese «adieu».
[42] Pastiglie al ribes nero, da una ricetta originale
inglese del 1850.
[43] «Ciao ragazzino».
[44] «Ciao gattina».
[45] Scialle usato durante la preghiera nei rituali ebraici.
[46] Salmo 141
[47] «La pioggia, la buona e dolce pioggia d’autunno…»
[48] Parata di fagiani di monte.
[49] Buzza = acquazzone
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