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Diamanti Amari - Romanzo




 

Diamanti Amari

 

Anne M. G. Lauwaert

 


Questo libro è ispirato a fatti storici realmente avvenuti. Tuttavia, ogni riferimento a persone esistenti, là dove non esplicitamente precisato, nel loro affettuoso ricordo, è puramente casuale.

 

Dedico questo racconto alla Valle Onsernone per il suo silenzio e l’energia emanata dalle sue montagne.

 

I miei più sentiti ringraziamenti vanno al signor Bollag e alle numerose persone che hanno contribuito alla stesura del testo, tra cui il Hoge Raad voor Diamant di Antwerpen per la folta documentazione; Renato Fiscalini per i preziosi consigli concernenti il dialetto, la caccia e la natura nonché Pascale Binamé per la fedele collaborazione.

 

Chiedo che mi venga perdonato qualche leggero anacronismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prefazione

Quando Anna Lauwaert mi chiese se poteva sottopormi il suo libro, che allora non aveva ancora un titolo, rimasi sconcertato dal compito. Non mi era mai capitato di dover esprimere un parere su di uno scritto ancora inedito. Inoltre, era un periodo in cui avevo perduto la salutare abitudine di leggere buoni libri, accontentandomi perlopiù della lettura, molto meno impegnativa, della stampa. Perciò, cortesemente, accettai l’incarico col pensiero già confezionato di mettere il dattiloscritto in cima alla mia cattiva coscienza, cioè a quella catasta di libri non letti che stanno, ormai coperti dalla patina dell’inedia, dietro al mio cuscino - in attesa di una lettura prevista, magari, in una prossima vita. Ma avevo fatto male i conti: quello che avevo depositato vicino al mio giaciglio non era un libro stampato; era carta vergine non ancora letta. Qualcosa mi invitava inconsciamente ad accarezzarne almeno la copertina, per arrivare a sbirciare, pur senza entusiasmo, ma con quella curiosità che spinge l’uomo verso la cosa nuova, a sollevare con pudore le prime pagine. Non ricordo quante pagine avevo ormai letto con avidità prima d’accorgermi d’essere assorto nel testo come ai vecchi tempi.

Ammetto ora che mi sono lasciato trasportare dal turbinio d’azione che marchia l’inizio della storia, ma poi, quando tutto si calma e s’inizia a chiedere il perché delle cose e a cercare il filo del raziocinio, il libro diventa storia raccontata. Ci si accorge d’esser stati presi e condotti per mano in luoghi sconosciuti, ma che colpiscono per il calore e l’amorevole tenerezza usati dall’autrice. Con amore e severità, Anna Lauwaert dipinge i luoghi in cui tutto nasce, dove gli interpreti del romanzo calcano la dura roccia e i luminosi fili d’erba della montagna. È con un amore quasi protettivo che porta poi la protagonista al di là del mare per emigrare verso l’America, senza mai tagliare il sottile filo che la lega indissolubilmente a Vergeletto, un anonimo villaggio in disuso ai confini del Ticino. A New York, la protagonista rinasce a nuova vita mescolando la dura educazione cattolica ticinese alle libere ed elastiche tradizioni americano-giudaiche.

Mi son lasciato trasportare dal racconto come da un fiume, a volte calmo, a volte rovinoso, e ho portato queste pagine con me, approfittando d’ogni occasione per arrivare alla conclusione, non per terminarlo al più presto, ma per capire una storia troppo vera per esser solo frutto della fantasia.

Alla parola Fine si arriva trafelati, senza la perfetta coscienza d’aver letto un buon libro o visto un buon film.

 

Elio Bollag,

della Comunità Ebraica di Lugano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diamanti Amari

 

Nel 1980, Antonio, un abitante delle Centovalli, mi raccontò che durante la guerra ‘40 - ‘45 erano successe “delle cose”. Tra queste, vi era anche la storia di un orologio d’oro…

 

 

1. Wilbur

 

1945

 

Nora uscì dalla casa. Faceva freddo ed era già buio. Se non fosse stato per la mucca, Nora sarebbe rimasta seduta davanti al camino ad ascoltare la nonna recitare il rosario. Rocco sarebbe forse venuto a farle la corte. Pensavano al matrimonio per maggio.

La neve calpestata era gelata e scivolosa. Nora aprì la stalla e depositò la lanterna su di un secchio rovesciato. La mucca era sdraiata e ruminava tranquillamente. Il gatto dormiva sul mucchietto di fieno. Nora, per non disturbarlo, salì nel fienile per buttare altro fieno di sotto. Arrivò in cima alla scala. Il pavimento, fatto da esili tronchi di larice, oscillò sotto i suoi passi. Quando si girò per chinarsi e prendere il fieno in braccio, vide l’uomo seduto nella penombra. La lanterna era rimasta di sotto, ma la poca luce bastò a farle riconoscere l’uomo intravisto quella mattina.

L’aveva visto alto, magro, coi capelli neri e ricci. I suoi occhi erano intensi. Era giovane e vestiva di verde scuro, come un contrabbandiere o un militare. Portava uno zaino e sotto il lungo cappotto nascondeva probabilmente un fucile. L’uomo stava immobile tra due cataste di legna. Non aveva fatto segno né di voler fuggire, né di volersi avvicinare. Non si era mosso. Nora aveva fatto finta di non vederlo. Aveva preso tre pezzi di legna ed era ritornata in paese.

Adesso, l’uomo stava seduto davanti a lei nel fienile. Aveva steso il cappotto sul fieno e ci si era sdraiato sopra. Non disse niente. Nora sapeva che lì egli stava al sicuro e al caldo, ma di notte, la temperatura sarebbe scesa. Senza riflettere, lei si avvicinò, si tolse il grande scialle di lana pesante come una coperta e lo tese all’uomo che non si mosse.

«Prendete», disse Nora. «Questa notte farà freddo.»

L’uomo rimase immobile. Lei pensò che avesse paura o che non capisse la lingua, quindi si avvicinò per dargli lo scialle. Quando fu vicina, l’uomo alzò la mano, prese lo scialle e il braccio di Nora.

Gentilmente, la fece sedere vicino a lui. Se avesse voluto, Nora avrebbe potuto resistere e andar via. Lui non la forzava, anzi, si muoveva lentamente e dolcemente, come per invitarla, come per chiedere il suo consenso. Lei non fece niente per resistere. Si sedette vicino all’uomo che non disse niente. Egli si limitò a cingerle le spalle col braccio destro. Con la mano sinistra, seguì il braccio di Nora, nudo nella larga manica.

La mano salì fin quando l’ascella impedì di proseguire. Poi, le accarezzò ancora il braccio nudo e abbassò la manica. Senza fretta, tranquillamente, depositò la mano sinistra sulla parte interna della caviglia sinistra di Nora, per poi risalire lungo la calza di lana e abbassarla.

Strinse leggermente la sottile caviglia nuda nella sua grande mano. Lentamente risalì lungo la gamba nuda, l’incavo di pelle tenera dietro al ginocchio, poi l’interno della coscia. Quando infine sfiorò il vello morbido e umido, non ebbe né sorpresa né esitazione. Allora, le donne portavano le gonne lunghe, ma non le mutande.

Senza nemmeno un fremito, strinse a piena mano la zolla calda e untuosa come un panetto di burro. Nora si era lasciata andare indietro mentre arcuava il fondoschiena e tendeva con tutta forza i muscoli delle gambe divaricate, come per spingere in avanti e verso l’alto il vortice infuocato che aveva invaso tutto il suo corpo.

L’uomo non aveva fretta, proseguiva lentamente, con determinazione e destrezza, una mossa dopo l’altra, logicamente, inesorabilmente, come il prestinaio che lavora la pasta fin quando sente sotto le sue mani il lievito impaziente di lasciar esplodere l’eccesso d’energia accumulata.

Il corpo della ragazza era nudo nella perfezione dei suoi quindici anni. L’uomo strinse la vita sottile tra le sue mani enormi e scivolò lungo l’arco dei glutei induriti, poi risalì lentamente lungo la schiena e appena sfiorate le scapole allentò la stretta per richiuderla sui seni piccoli ma sodi ed eretti come melograni aggressivi. Quando sentì tra le labbra la durezza dei capezzoli, raggiunse il colmo del proprio turgore e, in un movimento solo, afferrò il bacino della ragazza e la penetrò d’un colpo esperto e potente.

Nora tese le braccia in alto e si arcuò seguendo il movimento dell’uomo per offrirgli tutta la sua recettività e, quando sentì il flusso caldo inondarla, si lasciò crollare con un sospiro di profonda soddisfazione. Capì che era proprio questo che aveva bramato giorno dopo giorno. Né Rocco né alcun altro ragazzo del paese aveva osato, anzi, si erano trincerati dietro scuse ridicole di peccato, preti, matrimonio, età… Ma Nora sapeva come andavano le cose quando la gatta o la mucca o altre femmine erano in calore…

«Thank you», sospirò l’uomo esausto prima di addormentarsi.

Quando Nora riprese conoscenza, la lanterna si era spenta. A tentoni, cercò i suoi vestiti e si coprì alla bell’e meglio prima di tornare in casa. La nonna sonnecchiava col rosario tra le mani davanti al camino quasi spento. Nora entrò senza far rumore, si sdraiò sul suo giaciglio e si addormentò, completamente soddisfatta.

 

Alla mattina seguente, tornò nella stalla per la mucca. Non cercò l’uomo, perché sapeva che non c’era più. Certamente, anche lui era partito per il fondo della valle. In seguito, malgrado la neve, sarebbe salito sulla montagna e sull’altro versante avrebbe varcato il confine e trovato la libertà o avrebbe raggiunto i partigiani. Era la fine della guerra: si parlava regolarmente di capitolazioni, di conferenze e trattati e poi si riparlava di altri bombardamenti. Nessuno ci capiva qualcosa e l’unica cosa certa era che qui sul confine continuava ad andare e venire gente strana.

 

La vita proseguì come prima. Niente era cambiato. Rocco veniva, si sedeva sulla panchina. Non parlava. Non c’era niente da dire. In maggio si sarebbero sposati perché Nora era orfana e così si sarebbe sistemata. Lui sarebbe ripartito a fare il gessatore a Berna. Avrebbe mandato qualche soldo e il bucato sporco da lavare. Nora sarebbe andata avanti col fieno e la vecchia nonna e la Zia Celestina. La mucca sarebbe andata all’alpe fino a settembre. Si sarebbero raccolte le patate e le castagne. Sarebbe andato avanti così, uggiosamente, come andava avanti da sempre.

 

1946

 

Passò Natale e Capodanno e la guerra era davvero finita. A gennaio nevicò abbondantemente. Poi venne un gran freddo e l’acqua gelò nella fontana. Il 24, precisamente come ogni anno, il primo raggio di sole colpì la cima del campanile. Il peggio dell’inverno era passato, Da quel momento in poi, il giorno si sarebbe allungato. Il sole si sarebbe alzato e, progressivamente, sarebbe tornato a riscaldare e a far sciogliere la neve fino al fondo della valle, che durante tutti questi mesi era rimasta nel buio.

Alla fine di febbraio fu la terza volta che a Nora non erano venute le sue cose. Una sera, Rocco si sedette davanti al camino.

«Non devi stare qua», disse Nora. «Quando partono gli altri, devi partire con loro.»

«Quest’anno non parto», rispose Rocco. «Partirò dopo il matrimonio.»

«Non ci sarà matrimonio.»

«E perché?»

«Perché non ci sarà.»

Rocco si era alzato, era uscito e non sarebbe più tornato.

 

«Perché non vuoi più sposarti?», chiese il prete.

«Perché non voglio più sposarmi», rispose Nora.

Rocco partì con gli altri emigranti ai primi di marzo. Nora non ebbe nemmeno il sentimento di aver tradito la sua promessa. Era capitato così. Era solo capitato.

 

Nora continuava con la mucca e la vecchia nonna. Sotto le sottane, la sua pancia si arrotondava lentamente. Ormai, tutto il paese sapeva. Se n’era parlato e le pettegole erano state felici di una così grande novità. Nora non diceva niente. Non rispondeva alle domande. Volevano tutte sapere chi era stato. Nora diceva che non lo sapeva. Avevano guardato Rocco di traverso e lui si era arrabbiato perché, oltre a non aver fatto il danno, si prendeva la beffa. I suoi amici l’avevano preso in giro e lui finì per non uscire più di casa.

Poi tutto si era calmato. Il dubbio rimase e Nora non disse mai chi era stato perché questi erano affari suoi.

La mucca partì per l’alpe. Nora andò tutte le mattine a monte con le altre donne a tagliare il fieno. Alla sera scendevano con enormi carichi che portavano direttamente nei fienili. Alla domenica andavano a messa. Più durava a lungo, più avevano tempo per riposare. Quando il primo fieno fu tagliato, si cominciò a tagliare il secondo: il rescidiü.

 

A metà agosto, dopo pranzo, Nora ebbe un paio di violenti crampi, poi si ruppero le acque e si sedette nel prato all’ombra di un castagno. Le altre donne continuarono a rastrellare. Poi, la Zia Celestina venne ad aiutare. Era un maschietto, piccolo e magro. Aveva la pelle scura, i capelli neri e strillava.

Quando le altre donne scesero in paese, Nora riempì un po’ meno il suo gerlo, ci depositò il bambino avvolto nel suo fazzoletto e scese anche lei.

Tutte le mattine, saliva a far fieno col bambino sdraiato nel gerlo. L’importante era riempire il fienile per poter tenere la mucca durante l’inverno.

 

Il bambino fu dichiarato in municipio e battezzato in chiesa.

«Donato, Wilbur, Antonio. Padre: sconosciuto», scrisse Nora con la sua calligrafia scolastica.

«Cosa vuol dire Wilbur?» chiese il prete.

«Non lo so», disse Nora. «Era scritto nel cappotto.»

Lo chiamarono Donato perché non aveva padre e Antonio perché Sant’Antonio era il santo che proteggeva gli animali e faceva ritrovare le cose perse.

 

«Dovrai lavorare per mantenerlo», disse la Zia Celestina, che non aveva rifiutato di essere la madrina.

«Lavorerò», disse Nora.

 

1947

 

Quando gli emigranti partirono, Nora partì per l’America come molti altri avevano fatto prima di lei.

Donato rimase con la mucca, la nonna, la Zia Celestina e le primule che cominciavano a sbocciare nei prati appena si ritirava la neve.

Nora non scrisse mai. Non si seppe mai se era arrivata, dov’era andata, né cosa faceva. In paese nessuno pensava più a lei. Era come se non fosse mai esistita.

 

Una mattina, dopo diversi anni, il postino venne a bussare.

«Celestina, c’è un assegno per voi…»

L’assegno era sostanzioso. Non portava né firma né nome del mittente; solo il timbro della posta: Saint Louis Obispo.

Da allora, puntualmente, ogni sei mesi, arrivava un assegno, ogni volta più importante.

Celestina non era più in grado di lavorare come prima, ma gestiva l’assegno con drastica parsimonia ed evidente piacere di vedere l’ammontare del capitale sul libretto di risparmio salire lentamente ma costantemente.

 

1953

 

Donato era diventato un ragazzetto sveglio che correva su e giù per i monti con gli altri bambini e imparava i trucchi che si trasmettevano di generazione in generazione. Così imparò a prendere le lepri nei lacci, a sparare ai merli che rubavano le ciliege e a pescare le trote con le mani nei riali. Non era per sport, né per divertimento, ma per fame.

A scuola, Donato non era tra i primi della classe. Era una scuola piccola con un solo maestro per i cinque livelli. Quando i ragazzi finivano il ciclo, sapevano leggere, scrivere, fare i calcoli e avevano qualche nozione di storia e geografia. Dopodiché partivano anche loro per imparare un mestiere ed entravano nella vita dell’emigrazione come i loro genitori.

 

1957

 

Quando Donato stava finendo la scuola elementare, il parroco venne a parlare con la Zia Celestina.

«Monsignor Vescovo ha ricevuto una richiesta venuta dall’estero. I Padri di Don Bosco hanno riservato un posto per il bambino nel loro collegio.»

Poi chiese al bambino quale mestiere avrebbe voluto imparare.

«Andare in montagna», disse Donato.

«A far la fame», commentò Don Alberto. «Hai l’occasione d’imparare un mestiere e andrai in collegio… È un ordine venuto dall’alto.»

Quell’anno, grazie a un generoso donatore, si poté imbiancare la chiesa.

 

Il primo di settembre, il prete venne a prendere Donato.

«Cerca di comportarti bene», disse Zia Celestina. «E di farci onore.»

Scesero a Locarno con Pino, l’uomo della Camilla, che faceva i trasporti col suo camion Ford verde e con Gregorio, che andava a vendere il formaggio al mercato. Don Alberto si sedette vicino al Pino, mentre Donato fu sistemato con la sua piccola borsa tra una cadola e due sacchi che contenevano non si sapeva cosa. A lui non importava nemmeno di sapere cosa c’era: si sentiva una forma di formaggio tra le altre, tutte destinate a essere vendute e tagliate a pezzi prima di essere mangiate da quella gente di città che aveva i denti lunghi e aguzzi e forse mangiava anche i bambini. Donato non era mai andato a Locarno, né da nessun’altra parte.

L’estate era stata molto calda ed era piovuto poco. Molti alberi iniziavano a diventare gialli e le foglie cominciavano a cadere. I giorni si erano già accorciati; a breve, il sole non si sarebbe più alzato abbastanza da poter superare la montagna e tutta la valle di Vergeletto sarebbe rimasta nell’ombra fredda fino a metà gennaio dell’anno successivo.

Invece, il paese di Gresso, che stava molto più in alto, riceveva il sole tutto l’anno. D’inverno, quando fa freddo, il sole è importante. Chissà perché quelli di Vergeletto non avevano pensato al sole quando avevano costruito il paese…

Pino e i suoi passeggeri passarono davanti alla chiesa, poi all’osteria e di fronte a loro, sul monte dall’altra parte del fiume, c’era gente che tagliava la legna. Era un primo segno dell’autunno: fare una bella scorta di legna.

Anche la caccia segnava la fine dell’estate. A metà settembre, si sentivano le schioppettate rimbombare nelle valli. Ogni anno, Zia Celestina riceveva un pezzo di selvaggina che veniva cucinato in umido e mangiato con la polenta. Era un pranzo da festa, particolarmente lussuoso. Non si mangiava quasi mai carne; qualche volta un coniglio o una gallina, ma non c’erano soldi per comperare la carne del macellaio. A Vergeletto di macellai non ce n’erano nemmeno.

La valle era profonda e molto stretta. Sulla sponda sinistra, bellissimi prati salivano verso Gresso, mentre sulla sponda destra del Ribo, che era anche oviga[1] e riceveva poco sole, la montagna era alta, ripida, piena di rocce e coperta da foreste di faggio, da qualche abete e da tanti larici, belle piante, buona legna. I faggi soprattutto davano la migliore legna da ardere e le loro foglie secche servivano per riempire i materassi.

Tutte le foglie degli alberi servivano. Lo strame veniva rastrellato meticolosamente e usato nelle stalle come lettiera per le bestie. Serviva anche per il comad[2] della gente: ogni giorno, si buttava un po’ di strame che copriva tutto, toglieva l’odore e le mosche. In primavera, il tutto diventava un ricchissimo letame da spandere su prati e orti. Gli alberi erano preziosi, senza parlare dei noci e dei castagni! Non si poteva nemmeno immaginare la vita senza castagne.

 

Arrivarono alla biforcazione che saliva verso Gresso. Di solito si andava a Gresso in ottobre per la festa patronale di Sant’Orsola. Ogni paese festeggiava il suo Santo protettore. Tutta la gente veniva dai villaggi vicini; si andava a messa e poi c’era la festa in piazza con la maccheronata.

Erano belle feste, attese da tutti con impazienza. I ragazzi ne approfittavano per guardare le ragazze. Le ragazze si facevano belle per attirare gli sguardi dei ragazzi… Qualcuno suonava la fisarmonica e si ballava. Si approfittava per stringersi e magari per rubare un bacetto: era molto eccitante. Mentre gli adulti erano occupati a discutere, i bambini sfuggivano alla sorveglianza e si scatenavano nelle birichinate più fantasiose.

A Vergeletto festeggiavano Sant’Anna e, per quell’occasione, la Zia Celestina faceva sempre la torta di pane.

Al bivio per Gresso, Erna e Adelina aspettavano. Vestivano tutte e due gonne larghe e lunghe e, sulla testa, un fazzoletto nero con fiorellini bianchi e rossi. Pino fermò il camion per caricare una cesta che conteneva due conigli vivi, anch’essi destinati al mercato. Ripartirono. Subito la strada diventava terribile: scendeva in modo ripidissimo. Si doveva essere capaci di controllare sia il camion sia la strada stessa. Il sedime di terra e sassi poteva fare brutti scherzi e, con un salto nel vuoto, camion e passeggeri sarebbero finiti in mille pezzi nel greto del fiume, trecento metri più in basso…

Pino mise la prima marcia. Lentissimamente il camion scese, una curva dopo l’altra, fino al ponte dove la strada riprendeva una pendenza più cristiana. Passarono davanti alla segheria della Coletta. I tronchi erano accatastati e aspettavano di essere tagliati per fare travi e assi; tutta bella legna d’opera. La legna da ardere, ognuno se la tagliava a seconda dei lotti che il forestale marcava nei boschi del patriziato.

Finalmente, la strada diventava quasi piana. A destra, in alto sul monte di Pombino, si sentivano le campanelle delle capre; anche dall’altra parte della valle, sul monte di Quiello, l’attività era febbrile. Ormai le mucche erano già scese dagli alpeggi e davano un bel da fare: si doveva lasciarle uscire alla mattina, controllare che avessero abbastanza acqua, sorvegliare che non entrassero in qualche orto, mungere e fare ancora qualche formaggella, farle pascolare in modo da risparmiare l’erba.

Il fieno era per l’inverno. Non c’era da annoiarsi. Nemmeno fare l’alpigiano era facile. Quando ci sono cento mucche e cinquanta capre da mungere, scaldare il latte, fare il formaggio, tenere tutto pulito, rincorrere le bestie che andavano troppo lontano, far legna e così via… Si ballava giorno e notte.

Le buone stagioni erano rare: o pioveva troppo e faceva freddo e l’erba non cresceva, o faceva troppo caldo e secco e la poca erba bruciava. Una buona stagione richiedeva il caldo, abbastanza pioggia, niente malattie né incidenti e gente a sufficienza per poter far fronte agli impegni. Raramente tutti gli elementi erano presenti; mancava sempre qualcosa… Si tirava avanti come si poteva. L’autunno cominciava a settembre e tante volte faceva freddo fino a maggio. Era una valle dura e gli uomini erano costretti a cercare lavoro nella Svizzera interna.

Pino e i suoi passeggeri erano arrivati al Ponte Oscuro, un ponte altissimo di sasso. In fondo ai dirupi, tra le pareti di roccia, scorreva il fiume che ad ogni temporale si trasformava in un torrente impietoso. A destra, la strada saliva verso Crana e verso la valle nella quale nasceva il fiume Isorno. A sinistra, si saliva verso Russo.

Russo era quasi una città: tante case, tanta gente, il prestinaio, la scuola, una bellissima campagna e il più bel ristorante della valle. Si fermarono perché Gregorio doveva discutere dei suoi affari con Vittorio e tutti si sedettero sulle panchine di granito, davanti ad una tavola anch’essa di granito, sotto i portici che davano sulla piazza. I balconi e le finestre erano abbondantemente fioriti, per lo più di gerani.

Gli uomini bevvero un bicchiere di Barbera e per Donato ci fu una gazzosa, come in un giorno di festa. A Russo, la valle era più larga; tutto sembrava più chiaro e in paese c’era un grande via vai.

Risalirono sul camion e scesero verso Mosogno. Non si vedevano i monti sopra la strada, perché la montagna era ripidissima e poi venivano subito le pareti rocciose del Pizzo della Croce. Erano pareti verticali, talmente alte che facevano paura e spesso si sentiva il fracasso di frane mostruose echeggiare in tutta la valle. Di fronte a Mosogno, si stendeva il più bel monte dell’Onsernone: si chiamava Oviga, perché era all’oviga; era forse l’unico posto un po’ pianeggiante con grandi terrazze e magnifici prati.

Nel centro di Mosogno, si passava a malapena perché la strada era stretta tra le case e la chiesa. Il paese era lunghissimo e finiva al Cioss, dove si trovava la chiesetta di San Giacomo, quello di Compostela. Donato lo sapeva perché lì si festeggiava il giorno prima di Sant’Anna. C’erano le mele di Sant’Anna e la composta delle mele e San Giacomo ne faceva la compostella, il giorno prima di Sant’Anna, ovviamente. Una volta era venuto alla festa con la Zia e avevano mangiato le torte delle bisce: grandi torte ricoperte di confettura sulla quale erano depositate strisce di pasta come un intreccio di bisce. Che buone!

Di Berzona non si vedeva niente perché il paese era molto più in su, sulla sinistra della strada. Bisognava volerci andare veramente, un po’ come a Gresso.

Passarono sopra il ponte del mulino ed entrarono a Loco. Questo sì che era un bel paese; addirittura, la strada era pavimentata coi dadi! Faceva molto più caldo che a Vergeletto e c’erano anche fichi e pergolati con la vigna. Se non fosse stato per Loco, Donato non avrebbe mai mangiato né un fico né un acino d’uva.

A Loco, facevano il vino! E durante l’inverno, si rinchiudevano in una specie di cantina molto buia e accendevano il fuoco sotto il lambic[3] e distillavano la grappa, quella che si mette nel caffè o, quando si è malati, nel latte bollente col miele. La chiesa, poi, era enorme e magnifica! Tutti gli anni, la Zia veniva per la festa di Santo Crocefisso, la festa più importante della valle, perché era un crocefisso miracoloso. Non si sapeva più perché, ma sui miracoli non serve discutere. Veniva moltissima gente anche dalle Terre di Pedemonte e dalle Centovalli. Donato era venuto fin qua, ma non aveva mai superato Loco.

A Loco, c’erano addirittura una macelleria e una bottega. Si fermarono davanti alla bottega. Ursula uscì, si piantò i pugni in vita e disse scocciata: «Era ora che mi portavi il formaggio! Guarda che a quest’ora le capre di Domenico non fanno più i formaggini. Cosa posso vendere ai miei clienti se i fornitori sono tutti come te?»

«Eh, vabbè», borbottò Gregorio. «Quando vengo mi vedi e quando non vengo…» Poi scaricò due enormi forme di formaggio dell’alpe Categn e diverse formaggelle.

Attraversarono il paese; in alto, troneggiava la Chiesa. Passarono sotto la casa anziani tenuta dalle Suore e poi scesero la strada ripida fino al mulino dei Paolott. Il peggio della strada era passato; da lì in avanti, non c’erano più discese pericolose. Passando davanti alla chiesetta della Madonna delle Sponde, tutti fecero il segno della croce perché questa Madonna faceva continuamente dei miracoli. Faceva arrivare i bambini alle coppie che non erano capaci di farseli da soli. Poi, passarono Auressio. Dall’altra parte della valle, c’erano tutte le case e le terrazze coi prati e i campi delle Vose. Nell’angolo di un prato, stava un albero enorme: uno degli ultimi superstiti dei murai, quegli alberi le cui foglie servivano a nutrire i bachi da seta. In tempi remoti, li avevano allevati anche lì.

Ma la valle Onsernone era conosciuta soprattutto per il lavoro della paglia. La paglia veniva intrecciata in lunghe bindelle che poi servivano a fare delle scatole, delle ceste, dei sottopiatti e - naturalmente - dei cappelli di paglia, che venivano venduti in tutto il Ticino, in tutta l’Italia e in tutto il mondo.

Ora, anche per l’industria della paglia si annunciavano tempi duri: le macchine rubavano progressivamente il lavoro alla gente che senza lavoro non aveva denaro e ritornava alla povertà. Chissà poi se la gente avrebbe continuato a portare i cappelli o se, peggio ancora, fosse venuta la moda di cappelli fabbricati altrove.

La Valle era sempre stata povera. C’erano anche state carestie, talmente terribili che la fame dell’Onsernone era diventata proverbiale, tanto quanto l’altezza del campanile di Intragna. Nel secolo precedente, un vulcano era esploso in Indonesia e le sue ceneri avevano provocato in Europa “l’anno senza estate”, con un maltempo tale che in Ticino i raccolti andarono male e la gente dovette addirittura mangiare l’erba, come le bestie, e tanti morirono di fame.

La Valle Onsernone era senz’altro molto bella e pittoresca per i visitatori che ci venivano in passeggiata, ma per la gente che ci viveva, questa natura grandiosa e selvaggia era anche spietata, con valanghe devastatrici, precipizi traditori, alluvioni micidiali che travolgevano ogni cosa. La vita quotidiana era tutt’altro che poesia… L’unico ricorso era la religione: implorare Dio, tutti i suoi Santi e tutte le Madonne per chiedere tempi migliori e consolazione ad ogni nuova disgrazia.

Mentre Don Alberto era assorbito da quei pensieri, scesero lentamente nel bosco fitto di castagni che erano carichi di ricci quasi maturi, fino a Cavigliano. Qui terminava la Valle Onsernone e si entrava nel vasto mondo sconosciuto che Donato aspettava con apprensione.

L’idea del viaggio gli faceva paura, quella della città lo terrorizzava e quella del collegio lo faceva sentire come una pecora che si va a sgozzare sull’altare di un qualche dio; esattamente come aveva letto Don Alberto in quel grosso librone polveroso rilegato in vecchio cuoio, che non aveva più doratura sul taglio consumato.

Pino fermò il camion sulla Piazza Grande di Locarno, dove si teneva il mercato. Gregorio entrò al ristorante Verbano, dove aveva appuntamento con Remo, che commerciava in formaggi. Don Alberto e Donato continuarono a piedi verso la stazione. Sotto i portici, c’era tantissima gente; loro camminarono in mezzo alla piazza. Donato aveva infilato la sua manina in quella del prete e si teneva incollato alla larga sottana nera, pronto a nascondersi al primo allarme.

Partirono in treno da Muralto per un lungo viaggio. Per la prima volta, Donato salì su un treno. Le panchine erano di legno. Fu anche la prima volta che vide il Lago Maggiore, che gli sembrò grandissimo. Dovettero aspettare e cambiare treno. Donato si addormentò diverse volte.

Poi, il paesaggio cominciò a cambiare. Le case diventarono strane: molto alte, con tetti di tegole rosse. Soprattutto, non c’erano più montagne, tutt’al più qualche collina coperta da lunghi filari paralleli.

«Sono i vigneti», spiegò Don Alberto. «Qui coltivano l’uva per fare il vino, non come a Loco. Qui lo fanno alla grande…»

Si vedeva così lontano che non si distingueva più niente. Donato non avrebbe immaginato che esistesse un paese così strano, uniforme, monotono senza neanche una montagna e così caldo.

Scesero dal treno. Donato era troppo sconvolto per cogliere il nome del paese nella stazione e camminarono a lungo. Costeggiarono un muro molto alto. I cancelli di ferro battuto erano chiusi e ugualmente alti. Il prete tirò la maniglia appesa a una catena, la campana suonò. Il frate portiere venne ad aprire e richiuse a chiave.

Entrarono in un parco perfettamente curato. C’erano palme e altri alberi altissimi, con grandi foglie lucide come se fossero state lucidate col lucido delle scarpe. Più tardi, Donato avrebbe imparato che queste erano canfore. Un altro era pieno di fiorellini bianchi piccolissimi, ma che davano un profumo inebriante. Più tardi, ne avrebbe saputo il nome latino: Olea fragrans. Il viale di ghiaietta era appena stato rastrellato e conduceva ad una grande costruzione di quattro piani; una scala monumentale di granito saliva verso l’entrata. La metà destra della porta era aperta. Entrarono…

Entrarono in una saletta. Si sedettero sulle sedie ricoperte da velluto rosso.

«Il Padre Superiore vi aspetta nel suo ufficio», disse il frate.

Entrarono nell’ufficio del Padre Superiore.

«Reverendo, vi porto il ragazzo di cui Monsignor Vescovo…»

«Sedete, sedete…»

Il Superiore consultò incarti vari.

«Donato?»

Il bambino era terrorizzato. Prima di partire, Zia Celestina gli aveva tagliato i capelli cortissimi; le sue orecchie sembravano enormi. Il vestito della domenica gli stava stretto e scomodo. Era chinato in avanti, seduto sopra le sue mani, con le punte delle dita che si toccavano. Sotto le sue cosce, seguiva con l’indice destro i peli fitti e dritti del velluto che si piegavano e raddrizzavano e gli entravano sotto le unghie. I piedi non toccavano per terra. Tra i pantaloni troppo corti e le calze di grossa lana, apparivano le sue gambette magre che sembravano pallidissime. Donato guardava con occhi spalancati e pieni di spavento e non aveva ancora capito cosa gli stava succedendo.

Un altro frate entrò nella stanza.

«Vieni, Donato. Ti conduco nella tua nuova casa.»

Il bambino esitò a seguirlo e si girò diverse volte verso il parroco, che era già immerso in una grande discussione col Superiore.

«Vai, Donato. Vai e, mi raccomando, facci onore», disse ancora Don Alberto.

Donato strinse la sua borsa tra le braccia e seguì il frate.

Entrarono in un’altra grande casa, salirono diverse scale e infine fecero ingresso in una sala immensa. Lungo i muri, stavano un letto, un armadio, un letto, un armadio… tantissimi…

«Ecco», disse il frate. «Questo è il tuo letto e questo il tuo armadio. Adesso, togli i tuoi vestiti e indossa la nostra uniforme.»

Vedendo il bambino perplesso, aggiunse: «I vestiti appesi nell’armadio.»

Il frate aiutò il bambino, che si sentiva totalmente perso. Per di più, i vestiti nuovi erano troppo grandi e così strani!

Infine, scesero in un cortile, dove stavano giocando altri bambini. Erano tutti vestiti nella stessa maniera. Si assomigliavano tutti… e parlavano italiano.

«Questi sono i tuoi compagni. Puoi giocare con loro. Quando suona la campana, vai con loro; ti faranno vedere come devi fare…»

«Come ti chiami?» chiese qualcuno.

«Donato…»

«Da dove vieni?»

«Da casa…»

«Non sei venuto con tua mamma?»

«Non ho la mamma. Ho la nonna e la Zia Celestina», disse Donato nel suo dialetto.

«Che lingua parla! È uno straniero! Non ha la mamma, è un orfanello», esclamarono gli altri bambini.

Per la prima volta, Donato capì che c’era qualcosa di strano. Lui non parlava italiano, ma il dialetto di un paesello che si trovava lontano, tra le montagne. Non aveva mai pensato alla mamma; gli erano sempre bastate la nonna e la Zia… E il suo papà? Chi sa se aveva anche lui un papà? E dov’era la sua mamma? E adesso doveva stare qui? Come avrebbe potuto chiedere alla Zia dov’era la sua mamma se doveva restare qui?

È così che Donato cominciò a pensare. Fino ad allora, non aveva mai pensato; aveva giocato, aveva vissuto un giorno dopo l’altro senza pensieri né domande ed era andato bene così. Dal confronto con altri bambini, nascevano tante domande e lui rimaneva perplesso, perché non sapeva rispondere e non c’era nessuno a cui chiedere; nessuno che potesse rispondere.

Donato aveva seguito gli altri bambini nella classe, nel refettorio, nel dormitorio, nella chiesa, di nuovo nella classe… Seguiva automaticamente, senza sapere… seguiva…

Seguiva in tutto; l’unica cosa che era quasi come a casa era la messa. Anche lì era in latino e non ci si capiva niente. Bastava star seduto in silenzio, alzarsi quando gli altri si alzavano e borbottare con gli altri le parole imparate a furia di sentirle, ma che nessuno aveva voglia di capire davvero. Ogni sabato pomeriggio, una classe dopo l’altra andava nella chiesa. Ci si sedeva in ginocchio sui banchi vicino al confessionale.

Il prete indossava il camicione di pizzo bianco e la sciarpa ricamata e stava seduto nel suo sgabuzzino. Un bambino dopo l’altro entrava dietro alla tenda di velluto nero e s’inginocchiava. La porticina scivolava, appariva la faccia del prete, l’alito che sapeva di aglio e cipolla, e si doveva confessare le bugie, la pigrizia, la golosità, qualche pugno e tutti gli altri peccati in pensiero, in azione e per omissione… Immancabilmente, seguivano la penitenza e i tanti Ave Maria da recitare. Alla domenica, tutti andavano a comunione, come in paese.

Ogni mattina, ci si lavava la faccia nel lavandino. I lavandini avevano due rubinetti: uno con acqua normale e l’altro con acqua calda. Alla sera ci si lavava anche i piedi. A turno, un gruppo di allievi in mutande e con l’asciugamano sulle spalle scendeva al pian terreno per fare la doccia. Era senz’altro stata una veranda, ma adesso a destra e a sinistra c’erano tre gabbiotti di metallo chiusi da una tenda. Si entrava nella doccia, e quando tutti erano nudi, il frate gridava: «Apro!»

Allora, l’acqua fredda schizzava dal soffione col fracasso di un acquazzone su di un tetto di lamiera. I bambini gridavano dalla sorpresa e dal freddo, poi lentamente l’acqua diventava tiepida e piacevole. Ci si bagnava completamente.

«Chiudo!» diceva il frate. Col grosso sapone di Marsiglia, ci si insaponava dalla testa ai piedi fino a essere completamente bianco di schiuma. Il sapone era straordinariamente morbido. Il frate apriva la tenda e controllava che si era integralmente schiumeggianti, anche sotto le braccia e anche tra le dita dei piedi.

«Sciacquare!» annunciava il frate, che riapriva i rubinetti.

Allora cominciava la parte più bella. Con le mani, si agitavano i cappelli per far uscire tutta la schiuma. L’acqua calda scorreva lungo il corpo ed era sempre troppo presto quando il frate avvertiva: «Attenzione, un minuto e chiudo.»

«No…» gridava il coro dei bambini. Poi, tutti fuori con l’asciugamano intorno alla pancia e le mutande sporche nella cesta del bucato. Poi in fila indiana e il frate pettinava i bambini uno dopo l’altro prima di spedirli nel dormitorio. La doccia, per Donato, era davvero una grande invenzione.

Anche durante i pasti, ci furono diverse novità. A casa, Donato aveva imparato poche cerimonie. Invece, lì, si usava la scodella per il caffellatte, la tazzina per il caffè, il bicchiere per l’acqua, la fondina per il minestrone, il piatto normale per il pranzo e soprattutto si doveva usare la forchetta nella mano sinistra e il coltello nella mano destra… Senza appoggiare i gomiti sulla tavola, non parlando mai con la bocca piena, anzi, si mangiava in silenzio mentre un frate, dal pulpito, leggeva ad alta voce la vita dei santi.

Donato osservava gli altri e faceva come loro, ma non era facile parlare come loro. In paese, lui aveva sempre sentito dire «Io e mio fratello, Io e mia madre, Io e mia zia, Io e gli altri…» Invece, in collegio, il maestro correggeva sempre: «Non si dice “io e gli altri”. Si dice prima l’altra persona, poi sé stessi; una persona educata non si mette davanti agli altri. Si lasciano passare le altre persone per rispetto e si dice “il mio amico Marco ed io”, o “mia mamma ed io”. Addirittura “il mio cagnolino ed io”. Sono questi i piccoli accorgimenti che faranno di voi persone educate e, il giorno in cui andrete a presentarvi per un impiego, sarà importante far vedere che voi siete delle persone decenti.»

Donato approvava pienamente il senso del discorso, ma era la forma - cioè l’accento - che gli riusciva difficile da imitare.

«Non dovete ridere», aveva detto il maestro in classe. «Il vostro nuovo compagno viene da lontano. Anche lui imparerà a parlare in italiano.»

Donato fece sforzi considerevoli. Una sera, il maestro disse di accendere la luce. Donato si precipitò, girò l’interruttore e annunciò molto fiero: «Maestro, l’ho accendiata», provocando un mormorio ammirativo tra i suoi compagni e l’imbarazzo del maestro per dover correggere uno sforzo linguistico così notevole.

Il giorno in cui il maestro aveva chiesto che cosa volesse fare da grande, Donato aveva risposto senza esitazione: «Andare in montagna», suscitando la perplessità generale.

«Non vuoi imparare un mestiere?»

«No.»

«Quale mestiere ti piace? Falegname? Muratore? Idraulico?»

«Nessuno.»

«Ebbene», disse il maestro. «Sei molto giovane. Ora cominciamo col ciclo di osservazione e in seguito l’orientatore professionale saprà suscitare nuovi interessi ed evidenziare le tue doti.»

«Quando posso tornare a casa?» chiese Donato.

«Non ti hanno spiegato che adesso sei in collegio?»

«No. Io voglio tornare a casa.»

Il maestro desolato guardò il bambino e lasciò uscire gli altri, che corsero a giocare col pallone nel cortile.

«Vedi, Donato», disse il maestro. «Adesso tu hai la fortuna di essere in collegio. Una persona importante paga tanti soldi perché tu possa stare qua e imparare un mestiere. Questo durerà diversi anni. La tua casa è lontana e là non c’è che la vecchia prozia… Starai qua tutto l’anno, ma potrai tornare in paese per le vacanze d’estate. Dovrai abituarti a vivere con noi… Avrai amici, imparerai cose belle e importanti…»

«Quanti anni?»

«Quattro, cinque, forse sei anni… Fin quando non sarai diventato un giovanotto con un buon mestiere. Poi presterai il servizio militare e allora sarai veramente un uomo…»

«Ma allora», disse Donato spaventato. «Io non sono più un bambino…»

«No», disse il maestro. «Non sei più un bambino. Non sei ancora diventato grande, ma non sei nemmeno più piccolo… Stai diventando un ometto.»

Donato non si era aspettato una catastrofe così grande. Era passato il tempo dell’infanzia ed era passato così velocemente! Da allora, lui doveva diventare serio. Non avrebbe più potuto correre nei prati, saltare nudo nei pozzi del fiume, arrampicarsi sul ciliegio… Non sarebbe mai più stato a casa per vedere fiorire il ciliegio… Non avrebbe più fatto parte della vita del paese. La nascita dei vitellini e dei capretti, la panna sul secchio di latte, la torta di pane, i merli in umido, le serate davanti al camino…

«E io?» chiese Donato. «Ce l’ho la mamma?»

«Certo», disse il maestro. «Tutti hanno la mamma.»

«Dov’è la mia mamma?»

«Non sai dov’è la tua mamma?»

«Non l’ho mai domandato…»

«Chiederò un incontro col Padre Superiore.»

Donato si sentì terribilmente solo e infelice, come se tutte le montagne della sua valle gli fossero crollate addosso… Anzi, fu molto peggio, perché se le montagne della sua valle gli fossero crollate addosso, almeno sarebbe stato a casa sua. Qui, invece, era straniero in terra completamente straniera… Prigioniero, esiliato, disperato… e anche ingannato.

Pochi giorni dopo, fu chiamato nell’ufficio del Padre Superiore.

«Siediti», disse il Superiore. «Se hai delle domande da fare, a me puoi chiedere tutto quello che vuoi.»

«Dov’è la mia mamma?»

«Quanti anni hai, Donato?»

«Undici», rispose il ragazzetto, che stava raggomitolato sulla grande sedia come un gattino spaventato.

«Non sei più un bambino. L’anno prossimo farai la grande comunione[4]… Posso parlare con te da uomo a uomo… Voi siete gente molto povera. Quando sei nato, tua mamma è andata via dal paese per lavorare e guadagnare abbastanza soldi per poterti mettere in un collegio come il nostro: educarti, insegnarti un mestiere dignitoso, perché mai più dovessi patire la fame.»

«Dov’è la mia mamma?»

«Tua mamma è in America.»

«Dov’è il mio papà?»

«Tuo padre… non si sa», disse il Superiore pensieroso. «C’era la guerra. Anzi, era la fine della guerra e c’era una grande confusione. Forse è morto… Non si è mai saputo… Non è tornato.»

«Mia mamma quando tornerà?»

«Non lo so, Donato. Posso solo dirti che lei veglia su di te da lontano. Manda i soldi perché vuole che frequenti una buona scuola. E io conto su di te per non deluderla. Ti chiedo di impegnarti ogni giorno, a seconda delle tue capacità. Com’è scritto nel Santo Vangelo: “A ciascun giorno basta la sua pena”. Se avrai delle difficoltà, non chiedere agli altri bambini; chiedi al tuo maestro e ricorda che io sarò sempre qui per risponderti…»

Donato capì di essere in trappola.

 

1958

 

Passarono i giorni, le settimane, i mesi, le feste di Natale e Pasqua… Poi, un giorno vennero la fine dell’anno scolastico e la distribuzione dei premi. Donato non era il primo della classe, ma ricevette il primo premio per il disegno e per la disciplina.

«C’è qualcuno che ti cerca», gli disse un compagno.

Donato si guardò in giro e vide con sorpresa Don Alberto e Zia Celestina, che erano venuti a prenderlo per le vacanze.

Donato lasciò cadere i libri ricevuti in premio, corse verso Zia Celestina, si gettò tra le sue braccia e pianse disperatamente tutta la disperazione accumulata durante tutto l’anno.

«Non ti avevo riconosciuto», disse Don Alberto, che aveva comperato un’automobile. «Sei cresciuto così tanto!»

«Non entro più nei miei vestiti», disse Donato guardandosi nella divisa della scuola, alla quale si era ormai abituato.

«Per le vacanze, ti troveremo qualcosa di più comodo», disse Zia Celestina, che era diventata vecchia.

 

Donato tornò a casa dopo quasi un anno. Era cresciuto e cambiato. La casa gli sembrò piccola e strana. In collegio, aveva imparato un’altra alimentazione, altri interessi, altri impegni. Si sentì a disagio nella propria casa, che non aveva nemmeno l’acqua corrente: si doveva andare alla fontana, al lavatoio o nel riale. Aveva dimenticato come le foglie di faggio scricchiolassero nel materasso e, quando per colazione trovò la scodella di latte con castagne, rimpianse pane, burro, confettura e caffellatte che riceveva nel refettorio. In collegio, nei giorni di festa, i bambini ricevevano addirittura la treccia, che aveva un delicato gusto di anice. C’era anche il latte con cacao e tante volte c’era l’ovomaltina, che andava direttamente al cervello e ti faceva fare i calcoli mentali più velocemente del maestro.

«Vedi», disse la Zia. «Ho tenuto le castagne specialmente per te, perché so quanto ti piacciono.»

Donato non osò dire che le castagne non gli piacevano più e che avrebbe volentieri mangiato una michetta fresca, ancora calda, con un bel po’ di burro e una grossa fetta di prosciutto! Dell’ovomaltina non osò parlare, perché la Zia non sapeva nemmeno cosa fosse e lui non voleva darle dispiacere. Donato sapeva quanto la Zia gli voleva bene. Ma ovviamente, la Zia non era stata in collegio…

La cosa più difficile era vedere la nonna e la Zia con altri occhi. Prima, erano state “normali”, ora, con quelle lunghe gonne nere, sembravano fuori posto, come dei personaggi dei tempi antichi sbarcati per sbaglio nel ventesimo secolo. In città, le uniche donne vestite così erano quelle “in costume onsernonese” che accompagnavano i gruppi folcloristici per attirare i turisti alla festa della vendemmia.

Prima, erano state loro a educare Donato. Adesso, lui si sentiva terribilmente diverso e a disagio quando la nonna si sporcava mentre mangiava o la zia soffiava sulla minestra troppo calda o succhiava rumorosamente dal cucchiaio. Tutte e due parlavano con la bocca piena e si vedevano i pezzettini di cibo schizzare in tutte le direzioni. Donato voleva loro tanto bene, ma provava anche schifo e la contraddizione tra questi sentimenti lo sconvolgeva.

In più, nella casa, c’era un odore acre. Non capiva se sapesse di urina o solamente di vecchio - quell’odore delle persone vecchie che non fanno mai la doccia e cambiano poco i vestiti. Anzi, sapeva del sudore rancido che impregna la maglietta di lana portata giorno e notte durante tutta la settimana. Né la nonna né la Zia erano mai andate sotto la doccia e, quando Donato raccontò come stavano nudi sotto l’acqua calda e abbondante, le due donne si guardarono incredule.

«Anche i cappelli?» chiese la nonna.

«Eh sì! Anche i cappelli. È quello il più bello!» rispose Donato.

«Ogni settimana?»

«Io lo farei anche tutti i giorni», disse Donato.

«Gesù madre!» mormorò la nonna scuotendo la testa. «Ti farà male…»

Donato cominciò a intuire l’enorme distanza che ogni giorno si allargava tra il mondo del passato nel quale sopravviveva la vecchia nonna e il mondo del futuro verso il quale si sentiva intensamente attratto. Le due donne anziane si ritirarono in un prudente silenzio ed evitarono gli argomenti che non potevano approvare e nemmeno influenzare. Quella guerra aveva scombussolato tutto. Zia Celestina pensò con nostalgia ai suoi quindici anni e alla grossa treccia di lunghissimi cappelli lucidi e sani che non venivano lavati che una volta per trimestre e che, ciononostante, non erano mai stati sporchi.

Donato non seppe se dovesse essere contento di tornare a casa o se preferisse tornare in collegio.

In paese, la gente parlava in dialetto; in collegio, lui aveva dovuto imparare l’italiano, che adesso gli veniva naturalmente, ma che qui suonava falso. La gente gli rideva in faccia perché sembrava che lui volesse fare “il Signorino”, il blagone[5]... Diverse volte, sentì anche commenti cattivi, del tipo: «Per un bastardo che non sa nemmeno chi è suo padre c’ha troppa puzza sotto il naso». E quando parlavano di “quella troia”, gli sembrava che parlassero di sua madre. Una volta, sicuramente, aveva sentito e capito una donna dire: «Faceva la puttana qua, sarà andata a fare la puttana là. Altrimenti come fa a mandare soldi...»

Donato non sapeva cosa fosse una puttana, ma a vedere l’espressione di quella donna, capì che non era una cosa bella e si sentì triste perché sua mamma non se la ricordava e quando ci pensava la vedeva come una di quelle Madonne… come la Madonna di Re, con un bimbo seduto sulle ginocchia. Il bimbo era lui, Donato. Chissà se qualche volta era stato seduto sulle ginocchia di sua mamma, prima che lei andasse via… E chissà poi perché era andata via… Certo che se in paese la gente era stata così cattiva con lei, aveva avuto ragione di partire.

Ma perché era andata via da sola? Perché non l’aveva portato con sé? Loro due sarebbero stati bene insieme e se una donna avesse detto qualcosa di cattivo, lui le avrebbe risposto male… Non era nemmeno facile capire la propria mamma. Chissà dov’era e perché se n’era andata da sola…

Quando lo chiese alla Zia Celestina, quella rispose che l’avrebbe capito quando sarebbe diventato grande… Mah! Come se i bambini che vanno in collegio non potessero capire le cose… Lui, l’ovomaltina la capiva.

Dopo quei pochi mesi passati in collegio, Donato era tornato in paese come uno straniero. Il fatto che andasse in collegio e che il postino portasse l’assegno provocava gelosia e cattiveria. Gli altri bambini si tenevano in disparte e, quando lui si avvicinava, parlavano sottovoce e si giravano per evitarlo. Non c’era più nessuno per giocare come prima. Donato finiva per sedersi da solo in un angolino nascosto a leggere dei libri, molti libri, uno dopo l’altro.

«Non vai con gli altri a far fieno?» chiese Zia Celestina, quasi con un tono di rimprovero.

«Devo fare i compiti per la scuola», disse Donato, che del paese non faceva più parte.

 

1958, ancora.

 

Donato fu sollevato quando poté tornare nel convitto. Ritrovò i suoi compagni, le sue abitudini, i suoi interessi e le comodità di una vita molto più moderna.

«Quest’anno devi decidere», disse il Padre Superiore. «Hai pensato a quale mestiere vuoi imparare?»

«Elettricista», disse Donato senza esitazione, perché l’elettricità gli sembrò il colmo della modernità. Per lui, era il modo categorico con cui voltare la schiena al passato, alle cose vecchie e al paese di Vergeletto, dove tutti erano stati antiquati e cattivi.

Donato diventò sempre più indipendente e autosufficiente, prima di tutto perché quando si è soli ci si deve arrangiare e poi per far vedere che non aveva bisogno di nessuno. Lui se la sarebbe cavata, malgrado tutto e tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Nora

 

1947

 

Nora era partita, il viaggio fino a Genova era stato lungo e penoso. La guerra, che era finita da appena due anni, aveva lasciato il segno. Mancavano ponti, le strade erano interrotte, i villaggi erano in rovina e le persone erano cambiate. Sembrava che mai più si sarebbe ripreso a ridere.

L’euforia della liberazione aveva presto lasciato il posto alla valutazione della catastrofe. Né la gente né il mondo sarebbero tornati come prima. I regolamenti di conti continuavano con vendette, crudeltà e cattiverie. Si doveva ricominciare e ricostruire tutto, ma ciò richiedeva anche tanto denaro e c’era gente alla quale non era rimasto niente. Altri erano diventati ricchi sfruttando ogni traffico, ogni opportunità e spesso anche la disperazione dei propri concittadini.

 

Nora seguì gli altri migranti, rinchiusa nel proprio silenzio, spaventata dall’ignoto e aggressiva a causa della paura. Eppure, sarebbe andata avanti e avrebbe proseguito a testa bassa. Non c’era nemmeno la possibilità di tornare indietro.

Giunsero a Genova e aspettarono una nave che tornava da Haifa. Alloggiarono in due piccoli alberghi. Nora che viaggiava da sola ed era minorenne fu affidata alle Suore. Per pagare la sua permanenza, dovette lavorare. Alle sei, il mattino cominciava con la messa, poi bisognava preparare la colazione agli orfanelli, poi lavare i pavimenti e poi svolgere i lavori in cucina. Alla sera, crollava sul suo letto senza più pensare né a casa né all’America, nemmeno alla paura del viaggio sulla nave. Era esausta, un ramoscello in balia della buzza. Sapeva da dove era partita, non ricordava da dove era passata e non aveva nessuna idea di dove sarebbe andata a finire. Tutto le era indifferente. Questa vita era troppo dura.

Una mattina, prima dell’alba, i migranti furono radunati. Faceva freddo ed era umido. Andarono a piedi lungo le strade buie fino al porto. Tutto a un tratto, eccolo lì: il bastimento, enorme, scuro, dipinto di grigio con lunghe colate di ruggine. Lo scafo troppo alto strapiombava sopra il molo e la prua sfidava gli sguardi intimoriti, come uno sperone di roccia. Catene enormi uscivano dalle cubie e in grandi lettere tonde era scritto “Zuiderkruis”, in una lingua che nessuno capiva, ma che significava “la croce del sud”, quella meravigliosa costellazione di cinque stelle che da sempre guida i viaggiatori.

La gente avanzava lentamente verso la passerella. Ognuno portava il proprio misero fagotto. Nora aveva solo una borsa di tappezzeria con due maniglie di cuoio. Non pesava niente perché non possedeva niente: solo le carte per il viaggio, il passaporto, il certificato di buona salute, un paio di calze di lana, il vestito della festa e il rosario della nonna. Al collo, nascosto sotto i vestiti, portava una borsettina con qualche soldo. Faceva freddo e Nora strinse il grosso scialle intorno alle spalle.

La lunga coda di persone passava tra le transenne e saliva sulla passerella. In cima, gli ufficiali controllavano le carte e indirizzavano ognuno verso il suo posto. La prima classe alloggiava al piano di sopra. Nora dovette scendere una scala strettissima e poi ancora una, poi la fecero entrare in una cabina. A destra come a sinistra, c’erano due cuccette a castello con le sponde di legno e, nella parete di fronte, un oblò con diversi spessori di vetro saldamente fissati in grossi cerchioni di ottone con enormi viti di ferro. Appena sotto l’oblò, c’era l’acqua… il verde glauco e lugubre degli abissi. Nora si avvicinò. Dunque, era lì che vivevano i mostri marini, gli squali e le balene che il Maestro Guido aveva descritto con tanta eloquenza.

Nora pensò ai laghetti nelle sue montagne - Salei, Alzasca, Sfill - ai girini e alle trote, ai campanacci delle mucche, ai fiori dei larici.

«Sarà meglio che non ci pensi, se no mi vien male…»

«Tu sei giovane», disse una delle tre altre donne con le quali condivideva la stanza. «Andrai sul letto in alto.»

Nora salì sulla scaletta e si sedette sul suo lettino. C’era spazio appena per star seduta, ma qui almeno era il suo posto e lo spazio bastava anche per la borsa. Da quel momento in poi, non c’era altro che aspettare: non poteva più far nulla; era rinchiusa in questa scatola di ferro galleggiante. Con la Grazia di Dio, e se non incontravano una mina vagante superstite della guerra appena finita, sarebbero arrivati in America. Dopo d’allora, chissà?

Si sdraiò, si addormentò e non sentì né il rombo dei grossi motori né la sirena né gli addii gridati mentre la nave si staccava dal molo. Così non fu nemmeno sconvolta dalla malinconia: era partita senza rendersene conto. I rimorchiatori, nascosti dietro al loro enorme pennacchio di fumo nero, trainarono la nave verso l’alto mare. La sirena fischiò ancora, i motori diventarono assordanti e tutti cominciarono a soffrire il mal di mare.

Nora era abituata all’aria fine delle montagne, agli odori freschi dei boschi e al profumo caldo e rassicurante delle bestie nelle stalle. L’ambiente chiuso della cabina diventò presto insopportabile. Quando una delle donne cominciò a vomitare, i suoi rantoli disgustosi e la puzza provocarono la nausea anche a Nora, che uscì nel corridoio alla ricerca di un angolino all’aperto.

Il primo ponte riservato ai passeggeri di prima classe era vietato all’accesso. Nora dunque percorse il secondo ponte, poi il terzo, e in poppa scoprì le gabbie nelle quali viaggiavano gli animali, per lo più i cani dei signori della prima. Nora si sedette vicino alle gabbie e ripensò ai cani che facevano parte della vita in paese. Piergiorgio, l’alpigiano di Porcareccio, aveva due cani pastori bergamaschi: Ondo era grigio chiaro e Miro era tutto nero. Da giugno a settembre, erano in montagna, ma per il resto dell’anno scorrazzavano tra la stalla del Zardin e il paese. Nora amava l’odore acido del loro pelo lungo e morbido e più che accarezzarli li strigliava con le dita, come una spazzola meccanica.

Uno dei cani delle gabbie era piccolo, scuro e tozzo. Aveva dei grandi occhioni neri e rotondi. Il suo pelo irsuto e corto era nero sul corpo ma rosso e lungo sulla faccia, con dei baffoni smisurati e un nasino schiacciato. Le sue orecchiette, invece, stavano dritte come le corna di un diavoletto birichino. Doveva essere uno strano miscuglio: aveva il naso da pechinese, la faccia da bulldog e il corpo sembrava di una razza totalmente estranea, come se gli avessero incollato una testa sbagliata.

«Povero diavolo», gli disse Nora. «Sei proprio brutto, anche se simpatico: tu ed io ci assomigliamo.»

Due volte al giorno, un marinaio portava ogni cane a passeggio. Facevano i loro bisogni, che venivano lavati via con acqua e abbondanti quantità di “creolina” per disinfettare e poi, a meno che i loro proprietari non venissero a far loro visita, tornavano di nuovo nella loro gabbia.

 

Il secondo giorno, si vide di nuovo la terra, poi la nave si avvicinò alla costa.

«Siamo già arrivati?» chiese Nora.

«No», rispose qualcuno. «Quella è Gibilterra…»

«Gibilterra», ripeté Nora scuotendo la testa.

Dopo Gibilterra, cominciarono le cose serie, con raffiche di vento e onde profonde. La nave piombava in avanti, poi s’impennava come un cavallo rabbioso.

Più che mai, Nora cercava di star fuori per sfuggire al vomito e all’odore fetido della stiva.

Una mattina, mentre stava accarezzando il brutto cane, arrivò un giovane signore. I suoi capelli castani e ondulati gli cadevano sulle spalle. Era abbronzato e i suoi occhi erano scuri. Indossava pantaloni di tela bianca che tremavano nella brezza come una bandiera e portava un maglione strano con righe orizzontali bianche e blu. Aveva i piedi piccoli rinchiusi in scarpette di tela bianca, con le stringhe e la suola di gomma. Sicuramente, quello era un signore elegante. Uno così, a Vergeletto, avrebbe fatto scalpore.

Nora si raddrizzò e fece qualche passo per liberare il passaggio.

L’uomo aprì la gabbia del brutto cane e attaccò il guinzaglio al collarino.

«Bonjour, Mademoiselle», disse l’uomo sorridendo.

«Buongiorno», rispose Nora indietreggiando.

«Le piace il mio cane?» chiese l’uomo mentre faceva uscire quest’ultimo per spazzolarlo.

«Lei parla Italiano», disse Nora sorpresa.

«Sì.»

«Come si chiama il cane?»

«Si chiama Chai.»

«Cosa vuol dire?»

«Significa “La Vita”. E gli sta bene, perché mi ha davvero salvato la vita…»

«Mah», pensò Nora. «Strano nome per un cane…»

«Scusi», disse l’uomo. «Non mi sono presentato. Mi chiamo Ariel Levi.»

«E io Nora. Nora Bietri.»

Nora si sentì fuori posto, come se fosse stata sorpresa a rubare nell’orto dei vicini e timidamente propose: «Posso aiutarla?»

«Se vuole», disse il signore. «Ho visto che avete già fatto amicizia. Magari, tenga il collarino. Lui pensa solo a giocare e qui è tutto così scomodo e stretto…»

Il cagnolino spazzolato fece due passi, una pipì e tornò nella sua gabbia. Nora si allontanò per educazione e il signore ringraziò e se ne andò.

Tutto sarebbe finito così se, una mattina, Nora non avesse trovato il cane sdraiato mezzo morto nella sua gabbia. Stentava a respirare e il suo nasino scottava.

«Devo parlare col Signor Levi», gridò Nora al primo ufficiale che incontrò sul ponte più alto.

«Signorina, qui è la plancia di comando. Lei non deve essere qua.»

«Lo so, ma devo parlare col Signor Levi.»

«Ci sono mille persone su questa nave.»

«Ci sarà anche il suo nome.»

«Non posso disturbare a quest’ora.»

«Allora lo farò io.»

Alzando con la mano sinistra la sua lunga gonna grigia fin sopra le ginocchia magre e pallide, Nora scese la ripidissima scaletta a tutta velocità e bussò alla prima porta gridando: «Signor Levi! Signor Levi!» Mentre l’ufficiale le correva dietro imbarazzato e gridava: «Signorina! Signorina…»

«Cosa succede?» chiese un signore anziano spalancando bruscamente la porta della sua cabina.

«Devo parlare col Signor Levi! Il suo cane sta morendo!»

Ci fu confusione, gente in vestaglia e coi capelli spettinati uscì dalle cabine, una signora gridò: «Mon Dieu, mon Dieu

Nel lungo corridoio, una dopo l’altra, le porte si aprivano e finalmente apparve una cameriera che, senza esitare, corse a bussare alla porta giusta.

Il Signor Levi arrivò. Portava il solito pantalone bianco ed era a torso e piedi nudi, con un lungo asciugamano bianco intorno al collo. Prima che egli potesse scusarsi per la tenuta inadeguata, Nora gli disse seccamente: «Il suo cane sta morendo!»

Il Signor Levi scese di corsa, prese il cane in braccio e si precipitò verso l’infermeria gridando all’ufficiale che seguiva: «Il medico! Subito!»

Entrò nell’infermeria senza nemmeno bussare.

«Abbiamo un’urgenza?» chiese l’infermiera per far notare che si poteva almeno bussare.

«Sì!» esclamò il Signor Levi. «Estrema urgenza. E siccome dubito che ci sia un veterinario a bordo… Corro da lei!»

«Ma figuriamoci», fece l’infermiera scocciata. «Guardi che noi abbiamo alle spalle, oltre agli anni di normale pratica medica, cinque anni di guerra! Io, di animali, ne avrò forse curati di più della gente, perché durante la guerra nessuno può permettersi il lusso di fare lo schizzinoso. È sopravvivenza per tutti, anche per gli animali. E spesso, loro sono più riconoscenti della gente. Mentre aspettiamo il dottore, le racconto una delle storie che sono capitate a me. Nel ’42, facevo l’infermiera in un quartiere povero di Bruxelles. Una mattina, io arrivo in una famiglia già disastrata per tanti motivi. Il padre faceva il rigattiere e, per aiutarlo a tirare il suo carretto, aveva un grande cane pastore, un Malinois. Ebbene, quella mattina, vi fu un dramma totale, perché un pentolone di acqua bollente era caduto dalla stufa in pieno sulla schiena del cane, che era atrocemente bruciato. Arrivo e sento le urla sia del cane sia della gente. Non ho curato la gente, ma ho curato il cane come ho potuto e poi sono successe altre cose… La vita era quello che era… Sicché, diversi mesi dopo, passo nel quartiere per un’altra faccenda e, tutto d’un tratto, vedo un enorme cane che parte da lontano e mi carica come impazzito. Ho pensato che mi avrebbe sbranata, ma mi è saltato addosso e mi ha buttata per terra. Ma, invece di aggredirmi, saltava dalla gioia e mi ha leccata dappertutto, fin quando non è arrivato il suo proprietario tutto entusiasta. “Ma non si ricorda Signorina? È Paddy! Il cane bruciato che lei ha guarito!” Io non ci pensavo più, ma lui non mi aveva dimenticata… Era guarito bene ed era più forte che mai. Invece, certa gente non si ricorda che le ho salvato la vita rischiando la mia. Non è di certo grazie a questi che ho ricevuto una decorazione. Anche il dottore, sapesse il bene che ha fatto… La sofferenza è sofferenza, anche per gli animali…»

«Ah!» esclamò il medico che infilava il camice bianco. «Ecco il paziente…»

Il cane, sdraiato sul lettino, non respirava quasi più. Il medico ascoltò con lo stetoscopio.

«Temo sia grave», disse il dottore molto preoccupato. «Broncopolmonite… Li conosco, questi. È una razza molto sensibile all’umidità.»

«Lo curi come se fosse una persona», disse il Signor Levi.

«Ma è un cane…»

«Lo curi con tutti i mezzi di cui dispone.»

«È questo che volevo sentire… Abbiamo una cosa nuova che si chiama penicillina. Posso provare, ma c’è poca speranza.»

Il Dottore fece una puntura.

«Ogni quattro ore, un’altra. Se la febbre non si normalizza entro stasera, non ci sarà più niente da fare. Dovrebbe bere molto.»

Un marinaio portò un materasso in un ripostiglio, ci sdraiarono il cane. Nora si sedette vicino e, con una spugna, lasciò sgocciolare dell’acqua nella bocca socchiusa dell’animale.

«Signor Levi, sono abituata con le bestie. Starò qua io.»

«Mi chiami Ariel…»

Ogni quattro ore, Ariel scese con la siringa preparata dal Dottore. Col fresco della notte, la febbre cominciò a scendere e il cane tentò di muoversi.

«Se beve, è salvo», disse Nora. «Se no, si bloccheranno i reni…»

Nora si addormentò sdraiata vicino al cane. Ogni volta che lui si muoveva, lei provava a farlo bere, poi si riaddormentavano. Alla mattina, Chai aveva vuotato tutta la scodella e, quando Ariel scese, lo videro tentare di scodinzolare col suo codino mozzato.

«Lei non ha dormito», disse Ariel a Nora.

«Quando la mucca deve fare il vitello, si dorme con lei.»

«Avrà altri vestiti?»

«I vestiti della domenica.»

Ariel fece salire Nora e l’affidò a una delle cameriere della prima classe. Nora non aveva mai visto una sala da bagno come quella, ma era partita da casa con la ferma risoluzione di cambiare vita e di “riuscire” in America, quindi si lasciò guidare attraverso i complicati rituali della toilette.

Un po’ intimidita, si lasciò spogliare e andò a sedersi nell’enorme vasca da bagno che traboccava d’acqua calda e profumata. Non disse niente quando la cameriera le versò l’acqua sui cappelli con una brocca di porcellana e le insaponò diverse volte la testa, sciacquando i capelli con acqua e aceto fin quando non furono come seta. Nora ne uscì trasformata. Invece della camicia grigia con le righe scure, che ormai era diventata ben sporca, e della lunga gonna grigia, che furono spedite in lavanderia, ora portava un abito di cottone azzurro con fiorellini bianchi, appena scollato, con maniche corte a sbuffo. La gonna larga le arrivava a metà polpaccio e una cintura dello stesso tessuto evidenziava la sua vita stretta. Nelle sue scarpette di cuoio marrone con le stringhe, portava dei calzini bianchi. Aveva anche un golfino di lana blu marina semmai facesse più freddo. La Zia Celestina aveva comperato il tutto da un venditore ambulante che veniva direttamente con la nuova moda dall’Italia. Ma quello che la cambiava ancora di più era la pettinatura: invece dei capelli grassi tirati indietro in una grossa treccia rozzamente arrotolata in una crocchia, ora aveva i capelli pulitissimi, lucidi e leggeri, legati sulla nuca con un lungo nastro blu come un mazzo di fiori.

«Lei è qua da sola?» chiese Ariel con un sorriso gentile che approvava il cambiamento.

«Sì.»

«Anch’io sono da solo. Dove andrà quando saremo arrivati?»

«Non lo so. Seguirò quelli che vanno in California. Quei Fiscalini delle Centovalli, che portavano le mucche sui nostri alpeggi, sono andati a Saint Louis Obispo. Non so dov’è, ma da qualche parte devo andare…»

«Io andrò da mio zio, vicino a New York. Se volesse, potrei chiedere che trovi un impiego anche per lei.»

«Sì», disse Nora. «Preferirei non andare in California. Non mi piace viaggiare.»

 

Da taciturna, Nora era diventata muta. Andava nella sua cabina solo per dormire. Il resto del tempo, lo passava coi cani oppure guardando l’oceano, appoggiata al bastingaggio: così grande, così sconfinato, così infinito… E quando dall’orizzonte salivano i grandi nuvoloni bianchi, sognava le montagne della sua Valle Onsernone, pensando: «Che magnifiche alpi, che magnifiche montagne…»

Con la mente, vagava sui sentieri della Val Camana, su per gli alpeggi di Ribbia, Categn e Doia, per poi scendere verso il laghetto d’Alzasca. Poi pensava ai mirtilli e alla panna sui secchi di latte ancora caldo, e al Marcolino che chiamava le capre, e al Totti che cantava e suonava la fisarmonica e alla Doddi, sempre così buona…

Nora sentiva una qualche pesante maledizione pesare su di lei: perché mai era dovuta partire? O forse era come diceva Don Alberto: «Se il grano non muore, non produce frutto; ma se il grano muore, allora germoglia e produce ricche spighe…»

Ariel veniva regolarmente a curare il suo cane e, alla sera, quando gli altri passeggeri erano scesi nel salone, conduceva Nora - che per l’occasione metteva i vestiti della domenica - sul ponte di poppa. Si sedevano in silenzio e guardavano le stelle. A quell’ora, la nave era bella. Il ponte superiore era poco illuminato e si notavano particolarmente i segnali luminosi propri della navigazione. In mezzo al ponte, si drizzava un enorme camino. Sulla prua, si trovava il posto di comando, nel quale stavano gli ufficiali coi binocoli, i sestanti e la barra del timone, quella grande ruota che un bel ragazzo in divisa bianca girava per guidare la nave. Sul ponte di poppa, invece, intorno a una piccola piscina, si trovavano poltroncine e sedie a sdraio, sulle quali i signori si sdraiavano per prendere il sole, mentre con una lunga cannuccia succhiavano grandi bicchieri di spremute di limone. Nora e Ariel non parlavano, come se sapessero che c’era troppo da dire.

Una sera, venne l’ufficiale di guardia.

«La Signorina è mia ospite», aveva detto Ariel e questo era bastato, poi tutti si erano abituati a vederli seduti nel buio. Per ore, stavano appoggiati al bastingaggio della poppa, vicino alla bandiera che svolazzava nel vento. Osservavano per ore la scia di schiuma che la nave lasciava dietro di sé e le onde che tracciavano sul mare una lunga V.

«I suoi genitori…» iniziò Ariel una sera.

«Sono morti», disse Nora. «La grippe…»

«Anche i miei», disse Ariel.

«Non ha nessuno?»

«Avevo una sorella, ma è scomparsa durante la guerra. Mi è rimasto solo lo zio a New York…»

I giorni si susseguirono e con loro i pesci volanti e i delfini e una volta una balena e, sempre nella scia schiumeggiante della nave, le pinne degli squali.

Il tempo si mantenne bello, anche se fresco. Una mattina, apparve una nube di gabbiani schiamazzanti, poi una linea scura si alzò all’orizzonte: era l’America.

Tutti salirono sui ponti, guardarono l’America che si avvicinava e finalmente entrarono nel porto sfilando davanti all’enorme Statua della Libertà.

«Chissà», pensò Nora. «Chissà com’è la libertà…»

 

Lo sbarco fu lungo e complicato, perché c’era la quarantena e gli immigrati dovevano riempire i formulari, passare le visite mediche, rispondere alle domande e la lingua era un mistero a sé.

Ariel tenne parola e passò da un ufficio all’altro per le sue carte, poi quelle del suo cane e poi quelle di Nora. Difatti, non era migrante, ma un semplice viaggiatore. Anzi, andava a casa propria. I portatori seguivano col bagaglio e tenevano il cane al guinzaglio.

«No», disse all’ufficiale. «La Signorina non cerca lavoro. È già impiegata; garantisco io per lei…» Dovette firmare e pagare i bolli e i portatori, ma alla fine uscirono dal porto.

Davanti a loro, si apriva l’America, con le sue lunghe strade, le case altissime, la folla fantasiosa e tutta una colonna di taxi… Ariel si sedette vicino all’autista, Nora prese posto dietro col cane. Il loro bagaglio fu legato sul tetto della macchina e partirono per l’indirizzo dello zio.

A vedere la confusione, il traffico e tutta quella gente, Nora disse: «Sono contenta di non essere da sola».

«Qui non sarà mai più da sola», disse Ariel. «Qui siamo tutti amici o parenti e uno dei nostri non è mai da solo.»

 

Il taxi si fermò davanti a una grande casa con balconi di ferro battuto, una scala monumentale e tante finestre. Un servitore corse giù per prendere il bagaglio e salirono fino a una vastissima hall. Una signora di una quarantina di anni vestita elegantemente entrò e, aprendo le braccia, gridò: «Ariel!»

«Zia!»

Si abbracciarono a lungo. Avevano lacrime agli occhi. Non parlarono ma la zia fece di sì con la testa, come per dire che non serviva dire cose che si sapevano. Poi, girandosi verso Nora che aspettava imbarazzata, Ariel disse: «Zia, questa è Nora. Abbiamo fatto il viaggio insieme. Lei ha salvato la vita del mio cane… Zia, ho pensato che avremmo trovato un lavoro per lei nella nostra famiglia.»

«Portate il bagaglio della signorina al piano mansardato; ci sono due stanze libere, scelga lei…» Nora seguì il domestico, mentre la zia copriva il nipote di esclamazioni, interrogazioni, risposte, pianti, benedizioni e preghiere…

«Che strana gente», pensò Nora. «Ma se bisogna incominciare si può anche cominciare da qui, invece di attraversare tutta l’America con un treno che non si sa nemmeno se arriverebbe.»

Nora si sedette sul suo letto. Il tavolo, la sedia, il comodino, tutti i mobili erano di legno scuro e dello stesso stile. Il guardaroba era alto quanto il muro, uno specchio copriva l’anta destra e tre cassetti occupavano la parte inferiore. La finestra era un lucernario: la vista spaziava su tutto il quartiere. Le case si assomigliavano tutte. Di fronte, avevano gli stessi giardinetti separati da muretti e recinti di ferro battuto e, sul retro, lo stesso tipo di giardinetti, ma con molti alberi. L’insieme assumeva un aspetto ordinato e dignitoso.

I passanti erano vestiti con cura; soprattutto le signore, che portavano gonne abbastanza lunghe, molto ampie e colorite, calze di nylon, scarpe coi tacchi alti e cappelli enormi, alla moda di Parigi. Nora era davvero in un altro mondo.

«Signorina, la signora vuole parlare con lei», disse la cameriera. «La aspetta in salotto».

Nora scese e andò verso la porta aperta, dalla quale si sentiva parlare.

«Venga, Nora», disse Ariel. «Venga a sedersi con noi.»

«Ecco», disse Zia Rachele. «Vorremmo sapere quali sono i suoi progetti.»

«Non ho progetti», rispose Nora. «Devo lavorare per mandare dei soldi a casa, tutto qui.»

«Che cosa è capace di fare?»

«Noi viviamo in montagna; abbiamo la mucca, il fieno, i campi, le bestie… Per quello pensavo di andare in California, dove vivono altri Ticinesi, nei ranch. Ma il viaggio non mi piace, se potessi lavorare qui, per me sarebbe meglio.»

«Qui non abbiamo campagna, ma c’è da fare in casa. Se vuole può aiutare la cameriera, così imparerà tutto quanto è necessario per governare un’economia domestica. Le sarà anche utile per quando si sposerà.»

«Io non mi sposerò…»

«No, non adesso, ma col tempo… La vita va avanti…»

Poi, la signora chiamò la cameriera.

«Ruth, questa è Nora. Starà con noi. Conto su di lei per insegnare l’andamento della nostra casa. Per cominciare, domani mattina andrete dalla sarta a comperare dei vestiti decenti.»

«Il cane?» chiese Nora.

«Il cane ha la sua casetta nel giardino. Non sempre può stare in casa: deve poter correre», disse Ariel, «ma se lei lo desidera, potrà portarlo a spasso. A lui piace.»

«Anche a me piace.»

«Ancora una cosa importante», disse Zia Rachele. «Lei è cattolica? Noi siamo ebrei. Non siamo particolarmente osservanti, ma abbiamo i nostri riti; lei non è obbligata a partecipare. C’è una chiesa cattolica qui vicino. Ruth sarà libera il venerdì sera e il sabato, lei sarà libera il sabato sera e la domenica.»

Nora seguì Ruth nella cucina. Questa era una vita tutta nuova, con gente diversa e abitudini estranee.

«Come mai parlano italiano?» chiese Nora.

«Siamo italiani», disse Ruth. «Siamo venuti qua prima della guerra. Adesso, siamo americani e parliamo anche l’americano. Gli ebrei parlano sempre tante lingue: l’ebraico per via delle preghiere, la lingua del paese nel quale vivono, l’Inglese che è la lingua internazionale del commercio, e spesso si ricordano pure la lingua del paese da cui provengono. Di solito, si hanno parenti sparsi in tutto il mondo e ognuno parla un po’ tutte le lingue. Faresti bene a cominciare subito a imparare anche tu; è la cosa più importante per capire la gente e farti capire. Più lingue si conoscono, più si ha possibilità di trovare un impiego. E poi, sei giovane… Guarda: il Signor Josef parla anche il fiammingo, perché loro sono stati molti anni in Belgio…»

«Nel mio paese», disse Nora. «La gente si lamenta perché i bambini devono imparare una seconda lingua a scuola…»

 

Si sentirono degli schiamazzi.

«È il Signor Josef che torna dall’ufficio», disse Ruth. «Era molto inquieto per suo nipote e sarà felicissimo di vederlo».

Difatti, zio e nipote si abbracciarono affettuosamente.

«Dov’è il cane?» chiese Zio Josef prima di chiedere ad Ariel come stava. Quando il cagnolino entrò a grandi saltoni in salotto, facendo le feste allo zio che non conosceva nemmeno, questo esclamò commosso: «Piccolo amore! Piccolo amore!»

Il cane gli saltò in braccio e si diedero baci e carezze a vicenda.

«Calma, calma», disse Zia Rachele. «Fai più festa al cane che a tuo nipote…»

«Ariel è come me; anche lui ama i cani… È un bravo ragazzo. Sono sollevato di vedervi qua con noi.»

Chai si era sdraiato sulle ginocchia dello zio, che lo accarezzava gentilmente mentre iniziava a esaminare Ariel con occhi sorridenti. Poi cominciò lo scambio di domande, risposte, silenzi e tanta emozione difficile da reprimere. Molto tempo era passato, molte cose erano successe. C’era tanto da dire, ma ci sarebbe voluto molto tempo prima di riuscire a parlare.

 

Quando Nora ebbe indossato i vestiti nuovi, sembrò americana anche lei.

Ogni sera, prendeva il cane al guinzaglio e usciva allargando progressivamente la sua esplorazione del quartiere. Scoprì la chiesa cattolica e i corsi per gli stranieri organizzati la domenica pomeriggio dalla parrocchia.

Cominciò a imparare la lingua, l’educazione civica, il codice di comportamento e tutto quanto le sarebbe servito per poter chiedere la cittadinanza.

«Vuoi chiedere la cittadinanza americana?» aveva chiesto il prete.

«Non voglio tornare indietro», aveva detto semplicemente Nora.

 

La casa aveva un andamento tranquillo. Ogni mattina, il Signor Josef partiva per l’ufficio. A mezzogiorno, c’era solo un pasto leggero, mentre alla sera tutti si vestivano bene per la cena, che durava a lungo. Poi andavano in salotto; gli uomini bevevano un bicchiere di qualcosa di forte mentre parlavano e le signore bevevano un bicchierino di Bols Cherry, che veniva dall’Olanda. Qualche volta, si faceva una partita a scacchi o si giocava a bridge. C’erano poche visite ed erano quasi sempre lo stesso genere di persone. Parlavano, indifferentemente, Inglese, Italiano o la lingua degli ebrei. Il venerdì sera e il sabato erano particolari: loro avevano la domenica al sabato: dicevano delle preghiere e gli uomini mettevano sulla testa un piccolo cappellino rotondo.

 

Nora era partita da un paesello sperduto tra le montagne, dove le novità arrivavano con cinquant’anni di ritardo. Di colpo, dopo il viaggio con la nave, era arrivata in una famiglia moderna, nella città più moderna del paese più moderno al mondo. Le nuove esperienze erano innumerevoli, eppure a lei tutto sembrò normale, perché in America è tutto moderno ed è normale che sia così; altrimenti, non sarebbe l’America.

I grattacieli erano enormi, i ponti lunghissimi, le strade larghissime; a Vergeletto o in Ticino sarebbe stato strano, ma in America non c’era da meravigliarsi poiché l’America era così. Nella casa di Vergeletto, aveva pochi mobili, l’acqua si prendeva alla fontana e i pasti semplicissimi si cucinavano sul fuoco nel camino. Nora scoprì la vita moderna in pochi giorni e senza meravigliarsene. Le sembrò perfettamente normale che l’acqua uscisse dai rubinetti, calda e fredda, che ad ogni piano della casa si trovasse il telefono, che i panni sporchi andassero nella macchina da lavare e poi venissero stirati col ferro da stiro elettrico a vapore. Non si meravigliò né del frigorifero né della cucina elettrica né della radio e nemmeno della televisione, perché in America tutto era possibile. E, quando imparò a cucinare secondo la tradizione ebraica della famiglia Levi, si convinse che quella era la moda americana e che tutti gli americani mangiassero in quella maniera.

Nora aveva la mente aperta e flessibile della gioventù: le bastava vedere e riproduceva senza difficoltà. Tutto sommato, non si meravigliò di quanto trovò nel nuovo mondo. Quando capì che non tutti gli americani mangiavano nello stesso modo, ridimensionò le sue vedute pensando: «Eh già, avrei dovuto saperlo. Con tutte le razze di persone che ci sono qua, avranno tutti gusti diversi…»

A Vergeletto, la vita era stata molto monotona. Qui, invece, s’incontravano anche negri e cinesi e si sentivano tutte quelle lingue diverse! Questa era la cosa più divertente: anche se si parlavano le lingue più strambe del mondo, tutti finivano per capire quello che diceva l’altro. Dopo pochissimo tempo, Nora fu convinta di aver fatto bene a cambiare vita e si integrò nella sua nuova casa e nella sua nuova famiglia con una facilità sconcertante.

 

Una sera, ci fu una riunione importante. Gli uomini erano rimasti nel salotto, mentre le signore si erano ritirate nel salottino. Nora aveva portato il tè e il caffè, poi era rimasta seduta a disposizione nel corridoio, caso mai avessero desiderato altro. Così, aveva ascoltato e tentato di capire le strane cose che dicevano.

«Ariel è qua da diversi mesi», disse il Signor Josef ai suoi ospiti. «Ho rimandato questo incontro perché il ragazzo è ancora sconvolto da quanto è successo. Tuttavia, dobbiamo deciderci; aspettare non cambia più niente. Anzi, prima siamo informati e prima prendiamo delle decisioni, meglio sarà per tutti noi. Ariel, te la senti di rispondere alle nostre domande?»

«Proverò a rispondere, ma eravamo in una situazione strana. Non sapevamo tutto. Quando i tedeschi hanno invaso il Belgio, pensavamo fosse finita. Invece, allora si sentivano delle voci. Portavano gli ebrei in Germania per lavorare. Si parlava di campi di concentramento, di sterminio. Non capivamo. Tutta la vita era scombussolata. Il lavoro, trovare cibo… Era una lotta continua.»

«Ma già prima si capiva che Hitler stava diventando pericoloso, in Germania. In Belgio, già nel ’36, Degrelle ebbe un grande successo elettorale col suo Rexismo… Il movimento Rex era un facsimile del fascismo in Italia!» disse un signore. «È ben per quello che siamo partiti. Non capisco perché tuo padre non abbia voluto venire con noi».

«Mia sorella era fidanzata con David», rispose Ariel. «Mio padre teneva ai legami con quella famiglia veneziana. Lea si è sposata nel ‘39 ed è andata a vivere a Venezia. Poi, anche lì, sono successe cose spaventose, ma non abbiamo mai pensato che la situazione si sarebbe aggravata tanto.»

«Tuo padre era cocciuto», disse un altro. «“Mein Kampf” era lì da leggere già nel ‘25. Dopo l’invasione dell’Austria e della Polonia, ci si poteva ben aspettare che non si sarebbe fermato. Tanto più che, anche in Italia, andava così; Mussolini aveva pieno potere. E poi, l’asse Berlino-Roma…»

«Mio padre non voleva abbandonare la casa di Anversa, l’atelier, i nostri operai e il macchinario nuovo… Avevamo buoni contatti con un cugino da parte di mia madre che ci forniva dei diamanti di qualità straordinaria. Sapete come mio padre fosse affascinato dai diamanti. Quel Rosenbaum aveva un filone di diamanti azzurri. Erano meravigliosi, di una limpidezza come non avevamo mai visto. Mio padre impazziva a ogni nuovo arrivo. Tagliava lui stesso la pietra grezza; la sentiva, la vedeva ancora prima della lavorazione e, quando l’ultima levigatura era finita, rimaneva per ore rinchiuso nel suo studio a contemplare la sua opera, con un fascio di luce che aveva adattato lui stesso e che dava alla pietra tutto il suo fuoco… Lo sapete com’era. Non voleva nemmeno venderli. Se non fosse stato che riusciva a comperarne di più belli, li avrebbe tenuti tutti in una vetrina… Zio, mio padre era tuo fratello, lo sai com’era. Se fosse stato per lui, non avrebbe nemmeno usato macchinari moderni e avrebbe fatto tutto a mano, come cinquecento anni fa!»

«Sì», disse lo zio. «Di tutti noi, era l’unico a fare questo mestiere per la passione della bellezza. Diceva che il fuoco del diamante è come il fuoco di Dio che parlò a Mosè. Ma vedi, Ariel, noi non siamo artisti; siamo commercianti. Però, noi abbiamo salvato la pelle e quella della nostra famiglia. Tuo padre ha fatto il contrario…»

«Era troppo occupato per rendersi conto di quanto succedeva fuori, o non voleva pensarci…» continuò Ariel. «Quando ha capito, era troppo tardi. Eravamo in trappola. Poi abbiamo dovuto abbandonare la casa e tutto il resto e nasconderci. Prima da conoscenti fiamminghi. Frans e la sua famiglia non rischiavano niente; si vedeva da lontano che erano puri ariani, tutti biondi con grandi occhi azzurri. Erano cattolici fanatici che pregavano a tutti i momenti, anche prima e dopo i pasti. Venivano da loro delle suore e dei preti e parlavano male degli ebrei; dicevano che ciò che succedeva era un castigo di Dio poiché gli ebrei avevano ucciso Gesù. Possedevano una grande casa e ci nascondevano nel loro solaio: riuscivano a ingannare addirittura le SS e i collaborazionisti che denunciavano i loro compatrioti. Non potevamo uscire, né andare vicino ai lucernari, né accendere la luce di sera o di notte. Solo papà scendeva qualche volta a parlare con loro. Venivano altri uomini e discutevano. Per la loro vecchia nonna veniva un’infermiera. Lei era protestante. Qualche volta, dopo il coprifuoco, era scortata da soldati tedeschi. Poi, un giorno, la casa è stata circondata. I tedeschi hanno fatto uscire tutti, li hanno portati via… Papà ci ha fatto scappare: il solaio comunicava con quello dell’autorimessa, poi con i giardini, che confinavano con un canale. In seguito, siamo rimasti nascosti in una barca nel porto».

«Cos’era successo?» chiese un signore che era rimasto silenzioso.

«L’infermiera era una partigiana. Col suo mestiere, poteva circolare facilmente a tutte le ore. Portava i documenti per quelli della resistenza e per far scappare gli ebrei; è andato tutto bene fin quando lei stessa è stata tradita: un uomo che lei non voleva l’ha denunciata alla Gestapo per gelosia… È stata seguita, ma non hanno potuto fermare tutta la rete, perché quando lei ha capito ha potuto ancora avvisare qualcuno, che ha dato l’allarme…»

«Sono stati deportati?» chiese lo zio.

«No. Fucilati, tutti… Anche la vecchia nonna…»

«E tuo padre?»

«Papà era in contatto coi partigiani. Quando Frans e la sua famiglia sono stati massacrati, papà ha voluto ripagare quello che loro avevano fatto per noi…»

Seguì un silenzio pesante. Era una storia banale che si era ripetuta all’infinito durante tutta la guerra in tutta Europa. Le stesse disgrazie avevano colpito tutte le famiglie: ebrei, partigiani, innocenti, uomini politici, artisti… Nessuno era stato risparmiato. Ma quando si trattava di amici o parenti, era ancora più terribile.

«Se permetti, Ariel», disse uno dei signori che era seduto in disparte e non aveva ancora detto niente. «Adesso che tutto è passato, possiamo parlarne. Forse ti aiuterà ad accettare quanto è successo… Tuo padre era in contatto con una rete d’informazione dell’armata segreta belga. Durante la Prima Guerra Mondiale aveva fatto parte della “Dame Blanche” e, quando si è visto come evolvevano le cose, non ha voluto fuggire dal Belgio perché il suo dovere era di rimanere al suo posto… Tuo padre era un tassello dell’organizzazione “Clarence”, uno dei servizi segreti più importanti e più efficaci.»

«Come?» esclamò lo Zio Josef. «Quel sognatore era un partigiano? Non dire sciocchezze… Mio fratello Simon non ha mai fatto una cosa seria. Era totalmente irrazionale, fantasioso, sbadato. Anzi, era uno svampito totale: un artista!»

Si guardarono stupefatti, perché avevano il ricordo di un giovinastro spensierato sempre pronto allo scherzo; la testa fra le nuvole e i piedi raramente per terra. Simon aveva fatto la parte dello scapestrato in quella famiglia severa e dignitosa.

«Mio padre era un partigiano dall’inizio?», disse Ariel pensieroso, anzi, incredulo.

«Anche prima dell’inizio», disse quel signore, che adesso si era alzato e camminava lentamente parlando come a sé stesso, mentre le immagini del passato scorrevano nella sua memoria. «Lui era una delle persone più coscienti della realtà della situazione… Ha fatto il suo dovere. Si è sacrificato. È stato molto bravo a camuffare la sua attività, fin quando è stato scovato anche lui.»

«Ha anche sacrificato la mamma…» mormorò Ariel.

«Tua madre lo sapeva. Anche lei aveva il suo ruolo… Le persone dall’apparenza più banale erano le più utili… I partigiani hanno fatto l’impossibile per salvaguardare Anversa, che era molto importante perché porto di mare. Tuo padre aveva una posizione privilegiata: il commercio dei diamanti era la copertura ideale per viaggiare e ricevere i viaggiatori che trasportavano non solo diamanti, ma anche documenti e preziose informazioni.»

«Allora è per questo che sono stati internati in Belgio, nel campo di Breendonk, come i prigionieri politici e non sono stati mandati nei campi tedeschi come gli altri ebrei?» intervenne Ariel come se avesse intravvisto un inizio di chiarificazione.

«Per quanto ne ho potuto sapere… Sì. Ma non so tutto nemmeno io…»

Si guardarono silenziosi.

«Io non ho più saputo niente», mormorò Ariel. «Non ho più rivisto né la mamma né il papà…»

Quel signore che sembrava più informato degli altri continuò: «I prigionieri venivano torturati per estorcere loro informazioni e per poter arrestare altri militi… Spesso, morivano sotto tortura o venivano abbattuti… Certo, non se ne parla molto, ma anche il Belgio ha qualche scheletro nascosto nell’armadio… Si parla di Auschwitz o Dachau, ma c’è anche stato Breendonk. Nell’orrore, non c’è graduatoria: orrore è sempre orrore… Un piccolo campo di concentramento o un grande campo di concentramento rimane sempre un campo di concentramento… Tu quanti anni avevi?»

«Nel ’44, avevo 22 anni. Non volevo pensare a queste cose. Mi rinchiudevo nella cantina di un amico col mio violoncello e le mie partiture. Alla mattina, studiavo Bach, intensamente, ma la mia vera preoccupazione era di suonare la musica di Glenn Miller. Alla sera, suonavamo un po’ di classico, poi facevamo le jam sessions. Avremmo fatto qualunque cosa pur di sfuggire al mondo che si scatenava sopra le nostre teste. Per me, quel mondo poteva crollare… Ma lei, come sa queste cose?»

«Ero in contatto con tuo padre. Poi, dopo la liberazione, abbiamo saputo il resto dagli archivi e dai sopravvissuti…»

«E Lea e David e il loro bambino Joshua… Non abbiamo più saputo nulla», insistette Ariel.

«Sappiamo che sono fuggiti da Venezia. Volevano rifugiarsi in Svizzera, ma era difficile perché tutta la fascia di frontiera era occupata da gruppi di partigiani, di fascisti, di tedeschi. Alla fine, c’era una confusione totale… Le tracce di tua sorella si perdono a Stresa, in Piemonte…» continuò lo stesso signore che decisamente ne sapeva di più di quanto lasciava apparire.

«E me, chi mi ha fatto fuggire?»

«Noi ti siamo sempre stati vicini. Discretamente, perché sarebbe bastato uno sguardo per tradirci e farci arrestare. Eri rimasto solo, la casa e tutti beni erano stati confiscati, rubati o distrutti. C’è anche stato un incendio… Bombardamenti… Sei una forza giovane con già tanta esperienza e buone ragioni per aderire al nostro progetto. Abbiamo bisogno di giovani come te per costruirci una patria: un paese nel quale vivere, trovare la sicurezza. Mai più pogrom o ghetti; mai più matricole bruciate nella nostra pelle, né stella di Davide stampata sui nostri vestiti come simbolo di vergogna… Per noi, la stella di Davide è quella di un nuovo mattino, del nuovo Israele. Per quello e per riconoscenza verso tuo padre, ti abbiamo aiutato a raggiungere la Palestina…»

«Io non so cosa devo pensare, cosa devo fare… Non riesco a dormire. Ogni notte, sono gli stessi incubi: nascosti in quella piccola barca a vela, le retate delle SS, la mamma… L’avranno torturata… Non ho potuto fare niente. Non c’ero nemmeno quando sono stati arrestati. Lea… Dov’è mia sorella? Non me ne frega niente d’Israele. Voglio solo ritrovare Lea…»

«Adesso basta», mormorò Zio Josef. «Basta per ognuno di noi. Il ragazzo è esausto. Non è il momento di parlare di politica. L’unica cosa che gli è rimasta è il suo cane… Ha perso tutto, perfino il violoncello. Se mio fratello avesse almeno mandato via suo figlio… Poteva fare l’eroe, ma almeno mettere i suoi figli in salvo…»

«Andrete avanti ancora alla lunga?» chiese Zia Rachele quando il tono delle voci si era alzato.

«No cara, metto un termine a questa discussione alquanto penosa. Per ora, Ariel resterà con noi e, quando il tempo sarà maturo, anche lui saprà discernere il suo dovere… Gradirei un tè, se qualcuno in questa casa è ancora sveglio per prepararlo.»

 

 

Mentre raggiungevano le signore nel salottino, un signore che durante tutta la serata era rimasto pensierosamente silenzioso disse a mo' di conclusione: «Eh sì… Adesso è facile dire che i pessimisti sono venuti in America mentre gli ottimisti sono finiti ad Auschwitz… Adesso è tutto facile, all’epoca non lo era…»

Nora scese in cucina. Mentre aspettava che l’acqua bollisse, tentò di ricapitolare le cose straordinarie che aveva sentito. Tutti erano seduti in salotto, lo Zio e la Zia e altre cinque coppie… Dodici persone in tutto, perché bastarono le dodici tazzine del servizio di porcellana blu. Ariel era uscito; aveva preso il cane ed era andato via dicendo semplicemente: «Buonanotte, Nora…»

«Buonanotte…»

 

«Mia cara Susanna», disse lo Zio Josef con un po’ d’enfasi. «Dopo il ricordo dell’orrore, ci canti qualcosa che possa lenire le nostre sofferenze?»

Zia Rachele si sedette al pianoforte e fece un paio di andare e venire con le mani sui tasti. Nora rimaneva sempre interdetta davanti alla velocità delle dita e ai suoni che producevano. Suonare il pianoforte; questo le sarebbe piaciuto e decise di chiedere alla Signora. Poi, all’improvviso, la voce di Susanna si alzò nel salotto, si espanse nel silenzio, invase gli animi e Nora sentì la pelle di gallina prima sul collo, poi lungo le spalle. Anche se non capiva le parole, pianse dall’emozione.

«È bellissimo», pensò Nora mentre si sedeva lentamente sulla scala, appoggiando la testa contro la balaustra di ferro battuto. Si lasciò trasportare dalla voce luminosa di Susanna, che riprese una volta ancora: «Shir hama’alot[6]…» … «Alzo il mio sguardo verso la montagna…»

Nora rimase sconcertata e si convinse progressivamente di non aver capito l’argomento.

 

Col passare del tempo, la sua posizione nella casa era diventata bizzarra. Da una parte, era solo una cameriera, come Ruth e suo marito; dall’altra, si sentiva vicina ad Ariel e credeva di poter capire le sue preoccupazioni, perché erano tutti e due  estranei in quel ambiente che non era il loro mondo.

Una sera, Ariel venne a prendere il cane per la solita passeggiata.

«Vengo anch’io… Se permette…» disse Nora.

«Certo…»

Camminarono in silenzio lungo il marciapiede. Arrivati al giardino pubblico, che a quell’ora era deserto, Ariel lasciò correre il cane senza guinzaglio ed entrambi si sedettero su una panchina.

«Il cane», disse Nora. «Perché le ha salvato la vita?»

«Da solo, sarei stato sospetto, invece con lui ho fatto la parte del barbone imbecille e in due abbiamo attraversato il territorio occupato fino alla salvezza in un porto del sud della Francia. Ogni volta che rimanevo paralizzato dal terrore, lui mi guidava, mi proteggeva. Piccolo com’è, è stato davvero eroico. Poi con la sua faccia un po’ buffa faceva ridere. Faceva addirittura le capriole; sviava i sospetti… Quando si è accompagnati da un cane, la gente è subito più gentile, ben disposta…»

«Ma è così brutto…»

«Brutto? È una razza così. Anzi, è di pura razza. È un griffone belga, una razza antica, che è stata addirittura raffigurata dai grandi maestri fiamminghi del quindicesimo secolo. Van Eyck, Rembrandt… Il cagnolino che abbaia contro il tamburo nella Ronda di notte è un griffone di Bruxelles.»

Ma Nora non conosceva i grandi pittori fiamminghi e nemmeno sapeva  dove fosse Bruxelles.

«L’altra sera», disse Nora cambiando bruscamente argomento. «Non avrei dovuto ascoltare, ma ormai l’ho fatto… Non ho capito cosa dicessero… Volevo dire che mi dispiace che lei stia male… Se posso…»

Ariel alzò lo sguardo. Non aveva mai veramente guardato Nora, ma adesso vide che non era più una ragazzina ed era anzi diventata una giovane donna, con occhi scuri e profondi. La forma quadrata del suo viso le dava un’espressione seria e decisa.

«Diamoci del tu», disse Ariel. «È vero: sono in una situazione difficile e non so nemmeno con chi parlarne. I miei genitori sono morti, mia sorella è scomparsa. Non ho più niente né nessuno. I miei zii mi ospitano per spirito di carità. Si aspettano molte cose da me e io non sono in grado di farle. Mi sento un parassita e non ho il coraggio di andar via. Non mi sento la forza per affrontare la vita. Sono un vigliacco…»

«Il tuo paese dov’è?»

«Anversa, in Belgio.»

«Perché non torni là?»

«E tu, torneresti nel tuo paese?»

«No.»

«Allora, anche tu hai delle cose difficili da dire e da ricordare…»

«Sì…»

«Vuoi parlarne?»

«No.»

«Per me è lo stesso. Forse col tempo riuscirò a chiarire le mie idee.»

«Come mai eri sulla nave? Non veniva dal Belgio?»

«Veniva dalla Palestina. Sono stato là, ma non ce l’ho fatta. Sono andato via per venire qui, perché non saprei dove altro andare.»

«Perché la Palestina?»

«Migliaia di anni fa, gli ebrei abitavano in Palestina, ora è una colonia inglese. Gli ebrei sono un popolo strano; abitano in tutto il mondo, con delle cittadinanze diverse, ma hanno la stessa religione. Anzi, sono ebrei prima di essere cittadini. Da sempre hanno fatto cose importanti e da sempre hanno subito persecuzioni. Nel secolo scorso, molti ebrei russi sono fuggiti per ritornare in Palestina. Negli anni Trenta, in Europa, la situazione è diventata grave e molti sono andati via, come mio zio Josef, che è venuto qui in America. Altri hanno deciso di ritornare in Palestina, da dove erano venuti.»

«Mi sembra giusto», disse Nora.

«Non è facile da capire.»

«Ma se è il loro paese…»

«Anch’io pensavo così. Quando i miei genitori sono stati uccisi, i partigiani mi hanno aiutato a fuggire nel paese che sembrava il più logico: in Palestina…»

«È bello laggiù?»

«Sì, è molto bello, ma non era un paese vuoto. In Palestina, vivono altre persone: i Palestinesi, che per la maggior parte sono arabi e di religione musulmana.»

«Hanno occupato il vostro posto?»

«No, vivono lì da sempre anche loro… Il paese è sempre stato occupato da potenze straniere. Una volta i Romani, una volta i Turchi, adesso gli Inglesi… Anche i Palestinesi vogliono essere indipendenti, avere il loro paese per se stessi… Adesso che gli Inglesi stanno per andare via, arrivano gli Ebrei… Sono altri colonizzatori.»

«Perché non fanno come noi in America? Gli americani sono contenti che veniamo a lavorare qua.»

«Nora, non è lo stesso; gli Ebrei che vanno in Palestina non vogliono diventare palestinesi sotto un governo palestinese. Vogliono ritornare nel loro paese da dove sono partiti duemila anni fa, praticare la loro religione, parlare la loro lingua. Vogliono possedere la terra, mandar via gli Arabi… In più, questi Arabi non sono una nazione coerente, ma un insieme di tribù che addirittura si combattono tra di loro.»

«Perché questi Ebrei sono così cattivi?»

«Non sono cattivi. Hanno paura… Hanno sofferto troppo e adesso vogliono un posto, dove sentirsi a casa propria, dove avere un esercito per difendersi e dove poter prosperare. Hanno molti scienziati e artisti, sono esperti commercianti… Vogliono lavorare, ma non più per altri. Il frutto del loro lavoro, lo vogliono per se stessi e per il loro popolo.»

«Non ti sembra giusto?»

«Sì, da una parte è giusto. Guardami: non ho più niente, non ho nemmeno un paese dove vivere… D’altra parte, i Palestinesi non possiamo semplicemente mandarli via. Noi Ebrei vogliamo fare coi Palestinesi quanto gli altri hanno fatto con noi. È complesso. Questo è il fondo del mio problema. Sono stato lì e non ce la faccio. Ho paura. Ci sono già stati violenti scontri. Ci saranno guerre, altra violenza…»

«Perché non rimani in America?»

«Non lo so. Prima della guerra ero ancora un bambino. Adesso devo decidere di cose che non sono in grado di gestire. Forse sono ancora troppo giovane…»

«Quanti anni hai?»

«Ho venticinque anni. Alla mia età, mio padre, anche se era stravagante, dirigeva un’impresa… Spesso penso di essere un fallito, che non realizzerò mai niente.»

«Io ho diciassette anni… Neanch’io so cosa fare, ma di una cosa sono certa: non voglio essere una fallita, voglio riuscire nella mia vita. Sai, da noi, troppe volte ho mangiato patate e cipolle o castagne… Polenta e latte, mai più… Io non so molte cose, come te. Sono andata a scuola solo in paese… So contare, leggere e scrivere, ho una bella calligrafia. Tutto qui… Ma ti assicuro che non lascerò passare nessuna occasione: io farò qualcosa!»

Ariel guardò Nora con sorpresa.

«Come sei decisa. Non avrei mai pensato che tu fossi così forte… Allora è per questo che non vuoi sposarti.»

«Per questo e per altro…»

 

1947, seguito.

 

«Zio Josef», disse Ariel una sera dopo cena. «Avrei una richiesta da farti».

«Sentiamo…»

«Si tratta di Nora. È una ragazza intelligente; si merita di meglio che fare semplicemente i nostri letti e servire a tavola.»

«Non ha diplomi, qui almeno può imparare a comportarsi in società.»

«Non ha diplomi, però è volonterosa, lavora tutta la settimana e la domenica va a scuola… È anche ambiziosa. Perché non possiamo trovarle un impiego nella nostra azienda, magari come segretaria? Sono certo che seguirebbe i corsi serali.»

«Come mai t’interessa tanto questa ragazza?»

«Mi fa impressione perché è l’opposto di me. Non è educata, ma è piena di energia e di speranza. Io mi sento così fiacco.»

«Fin quando non ti imporrai una disciplina, liberamente consentita ma rigida, non farai niente della tua vita. Comincia a sforzarti di andare ogni mattina in ufficio e a interessarti di quanto succede. Vedrai che ti lascerai prendere dall’ambiente e tornerai a sentirti partecipe e utile.»

«Non è possibile affidarci un compito nel quale Nora ed io potremmo lavorare insieme?»

«Non sono il solo a decidere; ne parlerò al prossimo consiglio d’amministrazione.»

 

L’anno stava finendo. Ovunque apparivano decorazioni natalizie. Nelle strade, altoparlanti diffondevano canti e ad ogni angolo risuonava Jingle Bells.

Faceva freddo, quando non pioveva c’era nebbia e poi una mattina tutto era bianco di neve. Più brutto era il tempo fuori, più in casa l’atmosfera diventava calorosa e piena del via vai degli amici di Sara e Jona, i figli degli zii che erano tornati dal collegio per le vacanze.

«Non festeggiamo Natale come voi», disse Zia Rachele a Nora. «Noi festeggiamo Chanukkah, la Festa delle Luci. Ti starai sentendo sola e triste… Volevo proporti di festeggiare con noi. Sarai la nostra ospite.»

«Non voglio disturbarvi.»

«Non disturbi, anzi. Sei ormai diventata parte della nostra famiglia… D’altronde, la nostra religione ci prescrive di accogliere gli stranieri perché anche noi tante volte siamo stati stranieri. Sara, potresti spiegare a Nora cosa simboleggia la festa di Chanukkah

«Euuu», cominciò Sara. «È una festa molto importante, perché Ruth prepara i biscotti al sesamo, le mele nel miele e le gretchenes latkess e Papà beve anche il vino…»

«Che confusione», la interruppe Jona. «Non ascoltarla. Questa vive solo per il suo stomaco, anzi è uno stomaco parlante… Chanukkah è quando gli Ebrei si sono ribellati, hanno fatto fuggire i cattivi e hanno riaperto il Tempio. Ma quelli avevano usato tutto l’olio, non sarebbe bastato che per un giorno. Allora, l’olio ha fatto un miracolo, perché invece di durare solo un giorno è durato otto giorni. Per questo noi facciamo festa per otto giorni…»

«È ben quello che dicevo», interruppe Sara. «Per otto giorni, Ruth cucina i biscotti nell’olio.»

«Sarei felice di poter mangiare i biscotti con voi», disse Nora iniziando a osservare le belle e strane tradizioni che non conosceva. Le piaceva soprattutto il rituale della channukkiyah, il candelabro a nove bracci. Una candela stava indietro e dava la luce per accendere le altre, una la prima sera, due la seconda e così via. Poi, il candelabro veniva depositato sul davanzale della finestra per far partecipare alla festa tutte le persone che passavano per strada.

 

Una sera, dopo cena, tutti andarono in salotto, dove trovarono un grande pacco avvolto da carta variopinta con un nastro e un enorme fiocco.

«Ecco», disse la Zia Rachele a Nora. «Noi non facciamo regali come si usa adesso. Gli Ebrei scambiano i regali alla festa di Purim, che è un po’ come il vostro carnevale. Tuttavia, per ricordarti le feste nel tuo paese, abbiamo due piccole sorprese: Ariel, questo è per te!»

Il pacco per Ariel era alto un metro e mezzo, largo un metro, profondo un altro metro.

«Grazie dei cioccolatini», disse Ariel, che voleva fare lo spiritoso.

«Non sono cioccolatini… Provate a indovinare.»

Tutti vennero a guardare, gridando le proposte più fantasiose: «Un’automobile tascabile», disse subito Sara.

«Arnesi da giardinaggio per tornare in un kibbùtz», disse Jona con un sorriso provocatorio.

«Una penna da direttore per andare in ufficio», replicò Sara, scherzando.

«Non prendete in giro vostro cugino», intervenne finalmente Zio Josef. «Provate a dimostrare un po’ di amore fraterno, specialmente oggi!»

Ariel tagliò il nastro, poi strappò la carta, poi un angolino del cartone ed esclamò: «Questa è la custodia di uno strumento…» E, incredulo, mentre alzava gli occhi pieni di speranza verso Zio Josef, aggiunse sottovoce: «Sarà un violoncello?»

Lo guardarono in silenzio ed era davvero una grande custodia nera coi fermagli d’ottone. Quando Ariel la aprì, apparve un violoncello nuovo fiammante che troneggiava nella fodera di satino bianco, sulla quale era stampato in caratteri dorati il nome di un artigiano di Cremona.

«Ooooh!» esclamò la famiglia in coro. Sara, con sguardi d’invidia non poté reprimere un: «Un regalo così bello!» Al quale subito Jona aggiunse: «Non serve essere invidiosa, perché tu non hai la costanza per imparare… L’unica cosa che sarai mai capace di suonare è lo squillo del telefono… Diventerai una ragazza squillo!»

«Psssst!» fece Ruth stringendo le sopracciglia e mettendo l’indice sulle labbra mentre Sara cacciava fuori la lingua a suo fratello. La Zia sospirò e lo Zio alzò gli occhi al cielo.

«Solo chi ha dei figli può capire che Abramo voleva sacrificare il suo invece di una bella pecora», pensò lo Zio Josef. «Oddio, aiutami a sopportare questi due scalmanati… Ma se sono tremendi, è colpa mia; voglio loro troppo bene, li vizio troppo…» Poi sorrise, perché era felice di vedere la sua famiglia così vivace ma anche generosa.

 

Ariel rimase in ammirazione, poi guardò i suoi zii col viso illuminato dalla gioia, incapace di dire una parola… Era semplicemente troppo.

«Ero stufo di vederti sempre depresso», disse Zio Josef. «Rachele, mi raccomando, i duetti col pianoforte…»

Ariel si sedette sul bordo di una poltroncina, prese lo strumento tra le braccia e iniziò ad accordarlo. Sentiti i primi suoni sgraziati e cacofonici, Jona e Sara gridarono:

«No, no, basta! Un boogie-woogie! Un fox-trot, un charleston…»

«Che selvaggi!» disse Zio Josef. «Spendo un capitale per metterli in collegio ed ecco il risultato!»

Ariel, intanto, si ricordò le prime note di un’étude di Bach e Zia Rachele andò a frugare nelle sue partiture.

«Cosa preferite?» chiese la zia. «Una sonata di Debussy, una Fantasia di Schumann o Il Cigno di Camille Saint-Saëns?»

«Il Cigno», disse Ariel commosso perché evidentemente i suoi zii avevano anche pensato a comperare le partiture, tra le quali il suo prediletto Cigno di Saint Saëns. «Credo di ricordarlo a memoria».

Seguì il Cigno, romanticissimo, armonioso e talmente sentimentale. Era ovvio che anche la Zia l’aveva studiato, appositamente e di nascosto; il suo accompagnamento al pianoforte fu senza alcuna esitazione.

 

«Ho un regalo anche per te», disse Zio Josef a Nora dopo gli applausi. «Perché tu possa sentirti di più nel Natale della tua tradizione. Ma devi ringraziare Ariel. Lui l’ha chiesto ed io posso dartelo. Tuttavia, sei libera di rifiutarlo se non ti piace».

Intimidita, nella sua camicetta a fronzoli e nella sua gonna in tessuto scozzese, Nora si raddrizzò sulla sedia e tutti la guardarono mentre lo Zio Josef le disse con benevolenza: «Ariel ha chiesto per te un posto di lavoro nella nostra società. Visto che non hai nessuna qualifica, abbiamo deciso di farti venire in ufficio. Per cominciare starai un mese in ogni dipartimento. Intanto seguirai dei corsi intensivi d’inglese, di dattilografia e stenografia. In seguito, vedremo dove potrai essere più utile.»

Nora, tutta confusa, si alzò come per rispondere, fece qualche gesto con le mani e poi, senza poter parlare, si lasciò cadere sulla sedia.

«No, no, no», disse Zio Josef. «Non ringraziare. Noi, con te, facciamo un investimento. Adesso, ti diamo una formazione; dopo, dovrai far fruttare il capitale che noi abbiamo investito. È una specie di mercato. Perciò, non rispondere adesso; hai il tempo di pensarci. Hai il diritto di rifiutare e di continuare il servizio qui in casa. Se invece accetti, saremo esigenti e pretenderemo il meglio… Quindi non è né beneficenza, né è gratuito…»

«Dopotutto», aggiunse ridendo. «Noi siamo Ebrei…»

E tutti batterono le mani, ridendo di buon cuore.

Poi, lo Zio continuò: «Se sei d’accordo, Ariel ti condurrà e comincerai il due di gennaio alle ore otto nel mio ufficio, con la firma del contratto che ci vincolerà a vicenda.»

«Io non ho niente per contraccambiare. E poi, a casa mia, noi eravamo talmente poveri che di regali non ce n’erano… Io, di regali non ne ho mai ricevuti», disse Nora, imbarazzata e commossa. «In più, sono stata ben poco a scuola. Dovrei imparare tutto…»

«Se riesci a portare mio nipote in ufficio ogni mattina, sarà più di un regalo… Per quanto riguarda la scuola, noi sappiamo che segui già la scuola della domenica e che sei volonterosa. Evidentemente, non comincerai con cose complicate: è meglio cominciare dal basso e salire progressivamente, come d’altronde abbiamo fatto tutti noi.»

Sara, che era la più estroversa della famiglia, corse da Nora, le gettò le braccia attorno al collo e la baciò sfrenatamente col suo solito flusso di parole iperboliche: «Tu sei un regalo per me ed io sono un regalo per te! Non sono io la più carina delle sorelline?»

Così, Chanukkah diventò veramente una festa gioiosa, piena di luce e di speranza. Nora cominciò a intravedere un futuro: l’impiego di segretaria era un buon inizio.

Tornata in cucina, riprese il suo lavoro abituale.

«Sono contenta per te», disse Ruth. «Sei giovane, impari velocemente. Diventerai una bella donna. Hai tutte le carte in mano. Se sei capace di gestire tutto quanto, farai carriera. Questa famiglia è generosa, purché non la si deluda».

«Faccio conto di non deluderla.»

 

1948

 

Passarono tutte le feste, Chanukkah, Natale e Capodanno e il 2 di gennaio, alle ore 08.00, Ariel introduceva Nora nell’ufficio dello Zio Josef, Chairman della Diamond Board.

«Ecco, signorina Bietri», disse Zio Josef con tono rigorosamente professionale. «Questo è il suo contratto. Legga, ci pensi, faccia le sue obiezioni e firmi.»

Nora prese il documento. Mentre cominciava a leggere attentamente, sedeva con la naturalezza dell’ingenuità sulla poltrona Mies van den Rohe, che continuava a oscillare seguendo l’elasticità della sua struttura d’acciaio.

«Che cosa intende con segreto professionale?» chiese Nora.

Lo Zio assunse un’espressione austera: «La nostra è una compagnia di commercio del diamante. Abbiamo fornitori e clienti. Tra le nostre mani, transitano grandi quantitativi di merce e capitali. Il primo fondamento sul quale riposa la fiducia delle persone che lavorano con noi è il silenzio. “Sentire, vedere e tacere”. Ognuno di noi sottostà a questa legge, anche dopo aver lasciato il proprio incarico nella nostra compagnia. Abbiamo anche un tipo di sorveglianza per assicurarci che il nostro personale non contravvenga a questa regola, non frequenti ambienti pericolosi che potrebbero provocare fughe d’informazioni, ricatti e così via… Come vede, siamo organizzati. Prima di entrare, lei deve sapere che entra in una grande casa molto esigente. In compenso, la controparte è cospicua, non tanto per lo stipendio quanto per lo spirito di coesione, di fratellanza.»

«E se voglio dare le dimissioni?»

«Sarà sempre possibile, a condizione di rispettare gli accordi presi. Lei comincia al livello più basso; se le sue capacità si dimostreranno all’altezza, la sua posizione migliorerà, ma anche le sue responsabilità aumenteranno. Se raggiungerà posti importanti, sarà poco probabile che desidererà lasciarci, quindi è un’eventualità ipotetica: è possibile, ma poco probabile…»

«Lo credo anch’io», disse Nora firmando in fondo alla pagina.

«Anche il luogo e la data… Bene. Questo è il suo esemplare, questo è il nostro. Benvenuta nella Blue Star!» disse lo Zio Josef mentre tendeva la mano chinandosi sopra la larga scrivania.

«Grazie», disse Nora ricambiando l’energica stretta di mano.

«Signora Feldman, le presento Nora, la nostra nuova stagiaire. Per cominciare, provveda a un vestiario dignitoso», aggiunse lo Zio mentre immaginava quanto un vestito elegante avrebbe trasformato la ragazzina in giovane “donna in carriera”.

«Tailleur Chanel?» chiese la Signora Feldman.

«Per l’ufficio, Chanel. Per la sera, qualcosa di più seducente. Quel New Look di Dior mi pare adatto. “Vitino di vespa”, gonne allungate, linea arrotondata alle spalle… Alla sua età, può permettersela. Approfittiamo fin quando si può.»

«La nostra casa ha un’immagine da difendere», disse la Signora Feldman mentre si avviavano nel dedalo di scale, uffici e salotti. «Le public relations sono capitali. In più, è uno scambio di buoni procedimenti: noi siamo clienti presso i nostri clienti che spesso sono anche amici o parenti. Faremo una visitina dalla parte della 5th Avenue. Mi chiami Nadia; sono certa che lavoreremo bene insieme…»

 

Sembrava tutto così semplice, ma non lo era affatto. Ogni mattina, Nora era in ufficio alle 08.00 precise. Il pomeriggio lo passava a scuola e di sera nella sua camera faceva i compiti, studiava le lezioni e si esercitava con una piccola macchina per scrivere. Progressivamente, adottò il ritmo della famiglia Levi, sia in ufficio sia in casa, partecipando ai pasti, all’osservanza del Sabbath, alla celebrazione delle feste e a tutti gli altri avvenimenti. Finì addirittura per trascurare la chiesa cattolica e la scuola della domenica. Non che avesse l’intenzione di cambiare religione, ma si era semplicemente integrata. Non aveva mai avuto una famiglia come quella.

 

Una sera, la famiglia era seduta a tavola per la cena. Gli uomini portavano la Kippah, la menorah splendeva, lo Zio aveva detto le preghiere, le donne avevano disposto i cibi sui piatti in modo veramente artistico, ma Nora pareva assente e, invece di mangiare col suo solito appetito, piluccava in modo distratto.

«Nora, un penny per i suoi pensieri!» disse la Zia Rachele.

Nora arrossì, poi mormorò: «Non so se posso permettermi una domanda impertinente…»

«Sentiamo…» disse lo Zio, interessato e divertito.

«Ecco: prima di vivere con voi, io non sapevo nemmeno che esistessero gli Ebrei. Adesso, mi vengono tante domande…»

«Meno male», disse la Zia Rachele. «Questo significa che vivi davvero con noi. Non è scritto nel vostro Nuovo Testamento “Chiedi e ti verrà risposto?”»

«Non lo so tanto bene, ma credo di sì…»

«Allora, non aver paura; chiedi e se possiamo rispondere…»

A questo punto, Nora era al centro dell’attenzione e rifletté intensamente per formulare la sua domanda il più chiaramente possibile, poi, in un sol soffio, disse: «Come mai tutti gli Ebrei sono diamantari?»

Prima ci fu un silenzio allibito e poi tutti scoppiarono a ridere, mentre Nora si nascondeva dietro al suo tovagliolo perché pensava di aver detto uno sproposito.

«Cara Nora», disse finalmente Zio Josef. «Lei è veramente una cara ragazza. La sua spontaneità e la sua semplicità sono prova di un’onestà che oggi s’incontra di rado… La risposta è semplice. Un nostro amico, un ottimo violinista che si chiama Jehudi Menuhin, quando gli si chiede perché ha scelto di suonare il violino risponde: “Provate voi, da Ebrei, a scappare per tutta l’Europa con un pianoforte sotto il braccio!” Per i diamanti, il principio è lo stesso. Per molti secoli, agli Ebrei è stato vietato di esercitare la maggior parte delle professioni. Perdipiù, venivano perseguitati e quindi dovevano sempre essere pronti a scappare. I diamanti sono piccoli; pesano poco, ma valgono tanto. Non potevano scappare con un condominio in tasca, ma potevano scappare coi diamanti in saccoccia…»

«Non capisco. Perché erano perseguitati?»

«Se vuole una risposta laica, direi: la politica vuole sempre un nemico o un capro espiatorio. Se accetta una risposta filosofica e anche teologica, direi che gli Ebrei sono un popolo presuntuoso, vanitoso e ne pagano il prezzo.»

«Perché vanitoso?» chiese Nora meravigliata. Difatti, nella famiglia Levi, tutti erano semplici e vestiti normalissimamente.

«Il popolo ebraico si chiama anche popolo d’Israel e sa che cosa significa “Israel”? È qui che giace il nocciolo di tutta la nostra storia! “Israel” significa “quello che combatte contro Dio”. Allora, capisce, ci vuole un bel coraggio per combattere contro Dio… Ogni tanto Dio le prende, ma dopo le dà indietro e alla sua misura… Perciò, quando le prendiamo, fa molto male… Ma forse, il mio discorso è un po’ arido per una “gentile”…»

«Nora», intervenne Zia Rachele. «Se le interessa, le racconterò la storia di Rachele, di Lea e di Giacobbe. Almeno avrà una versione onesta: i maschi riescono sempre a presentare le cose a loro favore. Invece non è così. L’importante sono le donne…»

Scoppiarono proteste maschili e approvazioni femminili.

«Non capisco», insistette Nora. «Perché gli Ebrei sono perseguitati?»

«Perché…», disse lo Zio. «Già, perché? Senz’altro anche perché i cristiani accusano gli Ebrei di aver ucciso Gesù… Ma non è vero: quelli che hanno ucciso Gesù, non sono gli Ebrei, ma i soldati romani.»

Per Nora, era troppo, non aveva mai sentito, né pensato a queste strane controversie, ma fu così che cominciò a imparare le belle storie raccontate nella Torah.

 

Quando i figli della casa erano in vacanza, Nora li accompagnava al cinema e discutevano le sceneggiature, i significati e i simboli. Nora imparò a difendere le sue idee davanti a Jona e soprattutto Sara, che era senza pietà. Ogni tanto, erano invitati ai balli e Nora imparò a ballare. Ariel seguiva i concerti e Nora lo accompagnava e scoprì chi fossero Bach, Brahms, Beethoven e tutti gli altri. Poi diventarono habitués di un locale alternativo nel quale s’incontravano tutte le razze e tutti i colori che suonavano jazz di avanguardia. Erano notti impegnative; la musica trasportava l’anima, il consumo di sigarette era eccessivo e l’alcol abbondante. Alla mattina seguente, si aveva la tosse e il mal di testa, ma che esperienze!

 

1948, prosegue.

 

Poi arrivò la primavera, il bel tempo, le passeggiate col cane e i picnic in campagna.

Durante le cene, si parlava delle notizie lette nei giornali o ascoltate alla radio e dei servizi diffusi dalla televisione. Si parlava anche di politica e si discuteva a lungo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU sulla Palestina. Il 14 maggio 1948, arrivò la grande notizia: Israele fu creato ufficialmente e David Ben-Gurion dirigeva il governo provvisorio. Ci si rallegrò con misura perché, appena nato, il giovane stato fu attaccato dai suoi vicini arabi. Di nuovo, la guerra e le discussioni: Ariel coi suoi scrupoli di coscienza, i veterani con le loro proposte di costruire le basi militari e allargare il territorio del paese che avevano sognato per decenni. Dei giovani esaltati partivano per combattere o arruolarsi nell’Irgun, che raggruppava “i terroristi ebrei”, o nella Haganah, l’organizzazione militare che si opponeva al terrorismo arabo.

«Non ci sarà mai pace», ripeteva Ariel.

«Non ci sarà pace fin quando non otterremo confini naturali sicuri e difendibili… Quando saremo saldamente ancorati ci sarà pace senza dubbio, perché saremo irremovibili e le nostre capacità faranno di noi una potenza economica di primo piano», rispondevano gli altri.

«Ma la violenza…» diceva Ariel come in un lamento.

«Il problema non è la violenza», rispose lo zio Josef «Bensì quanto capita a coloro che praticano la non violenza… Quanti milioni di Ebrei sono finiti nello sterminio? E il grandissimo Mahatma Gandhi, dopo tutto quello che ha fatto per l’India e per il mondo… È morto assassinato da un suo connazionale il 30 gennaio scorso. Il dramma è l’essere umano stesso che negli ultimi 10.000 anni non ha cambiato uno iota del suo comportamento: è rimasto al livello della legge del taglione e del si vis pacem para bellum[7]»

«Ma c’è altro», intervenne uno degli ospiti. «L’odio tra Arabi e Giudei è una storia vecchia…»

«Sentiamo», disse Jona e tutti fecero silenzio.

«Ecco: Abramo era sposato con Sara, ma Sara non poteva avere figli, allora diede la sua serva egiziana Agar ad Abramo perché potesse avere un erede. Agar rimase incinta. Allora Dio intervenne perché quando gli dèi vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere… Sara aveva tanto pregato per avere un figlio che adesso… Beh, rimase incinta pure lei… Prima fu felice, ma poi le vennero i dubbi. E vide che tra i due fratellastri sarebbero nati gelosie e conflitti. Quindi chiese ad Abramo di allontanare Agar e suo figlio Ismaele, i quali furono esiliati, lontano, nella penisola arabica. Cioè, il diritto del primogenito Ismaele fu calpestato a favore del secondogenito, Isacco… Ismaele diventò il padre degli Arabi, mentre Isacco diventò Israele, il padre dei Giudei, e tra i due uomini e i loro popoli nacque un rancore insanabile… Difatti, Ismaele fu derubato dal suo diritto di primogenitura.»

«Ma no!» esclamò Jona. «Non faremo mica delle guerre per una questione di adulterio di cinque mille anni fa…»

«Ci fu anche l’ultima guerra, durante la quale gli Arabi si sono schierati dalla parte di Hitler formando l’asse Berlino-Roma-Gerusalemme-Tokyo» continuò l’esperto di storia. «Speravano che quest’alleanza avrebbe spazzato via gli Ebrei. Invece, gli Ebrei della Palestina si sono arruolati nell’ottava armata inglese, formando la Jewish Brigade, nella quale hanno imparato le basi del Tsahal, il loro attuale esercito… In più, visto che gli Arabi fanno parte dei “perdenti”, il loro territorio è bottino di guerra… Esattamente come l’Alsazia e la Lorena in Francia o i “Cantoni Riscattati” sul confine tra Germania e Belgio.»

Seguirono il silenzio e la consapevolezza che la soluzione non era affatto a portata di mano.

 

 

1950

 

Il 2 gennaio 1950, fu una data importante per Nora. Dopo due anni di scuola e di apprendistato, aveva ottenuto i suoi primi diplomi. Scriveva a macchina, prendeva nota in stenografia, aveva assimilato l’inglese e maneggiava le due lingue senza batter ciglio.

«Avevi ragione», disse lo Zio Josef ad Ariel. «Questa ragazza è molto sveglia e intelligente. È un buon acquisto; tra poco potrà esserci veramente utile.»

Quel 2 di gennaio, Nora entrò a far parte pienamente del personale della Blue Star e, alle 08.00, prese possesso del suo ufficio. Non era grande, ma era suo e completo di telefono, macchina da scrivere, scrivania moderna e armadi pieni di archivi e incarti che aveva imparato a maneggiare senza esitazione.

Ora assisteva a riunioni importanti, prendeva appunti e redigeva verbali e rapporti. Era anche capace di camminare coi tacchi alti, utilizzare tutte le posate a tavola e ballare il valzer. Nora aveva vent’anni, era pronta a entrare nel grande gioco della vita e iniziò a percepire uno stipendio dignitoso.

«Devo mandare dei soldi», disse Nora al contabile. «In modo anonimo e non da New York, ma dalla California.»

«Da quale città?»

«Saint Luis Obispo.»

 

Un giorno, decise di chiedere la cittadinanza americana.

«Ci ho pensato anch’io», disse Zio Josef. «Ma forse sarebbe un peccato perdere il tuo passaporto svizzero. Ariel ha ancora il suo passaporto belga, io ho quello americano. Non si sa mai, forse è più prudente mantenere diverse possibilità. Se per te non è importante, ti chiederei di rimandare…»

Non era importante e Nora rimandò. Sì, era vero; non si poteva sapere come le cose sarebbero evolute. Il Presidente Truman aveva mandato l’esercito in Corea e le guerre proseguivano, anche in Indocina e la Cina stava per invadere il Tibet.

«Perché c’è sempre la guerra?» chiese Nora.

«Ah!» disse Zio Josef con un sospiro. «È un cerchio infernale: esistono le fabbriche che producono armi, quindi si devono vendere e ci vogliono guerre… Non si può chiudere quelle fabbriche perché decine di migliaia di persone perderebbero il posto di lavoro e, oltre al commercio delle armi ufficiale, c’è quello di contrabbando, e più ci sono mercati neri, più ci sono trafficanti e guadagni, ecc. Poi questi soldi sporchi vengono re-investiti in altri affari torbidi e così non si arriva mai a fermare le guerre… Il mondo della malavita è senza limiti…»

«E tutto sempre per i soldi», disse Nora pensierosamente.

«Sì, tutto per i soldi, cioè il potere… Sarebbe così semplice se gli esseri umani potessero vivere in pace. In Israele, gli Ebrei potrebbero portare la loro organizzazione, la loro tecnologia. Gli Arabi potrebbero collaborare e beneficiarne, e invece no… Spendono la maggior parte delle energie a combattersi a vicenda.»

«Un giorno», disse Ariel. «Un giorno, saranno obbligati ad andare d’accordo!»

«È sempre il cittadino normale che paga», disse Nora.

«Figli miei!» disse lo Zio Josef rivolgendosi a tutti i presenti con un sospiro. «È importante che voi capiate come funziona il sistema. I “cittadini normali” sono un branco di pecore. Non è un gruppo di individui intelligenti e colti che ragionano con la propria testa; è un branco che ascolta chi grida più forte, senza nessun senso critico. La stampa scritta, la radio, la televisione sono strumenti del potere per imporre la sua volontà. Chi governa? I presidenti e i re non sono niente; sono dei burattini che fanno public relations per i gruppi di pressione che hanno il potere in mano: le lobby. Lobby dei trasportatori, delle telecomunicazioni, delle miniere, dei pozzi di petrolio, dell’energia nucleare, dei costruttori di automobili… Se una di queste lobby ferma la sua attività, il paese è in ginocchio, quindi loro dettano le loro esigenze. Il branco di pecore segue e il presidente balla a seconda della musica che fischiano gli altri… E se non la capisce con le buone, la capirà con le cattive e, alla peggio, con una pallottola ben piazzata, come successe al povero Lincoln.»

«Ma la democrazia?»

«Purtroppo, la democrazia è un’utopia nata, vissuta e morta sull’Areopago di Atene nel tempo della sua gloria classica. In pratica, il governo del popolo è un’illusione. Il popolo è ignorante e non è in grado di governare. È triste, ma è così. Il popolo dà il suo voto al politico più furbo, quello che ha il look più seducente, non al miglior tecnico o alla persona più onesta. La persona onesta non può entrare in politica, perché in partenza dipende da compromessi, mercati, accordi. Ogni giorno vengono denunciate corruzioni, ma ciò è parte della lotta per il potere».

«È troppo deludente», disse Ariel.

«Sì, è deludente ed è per questo che si diventa cinici. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo combattere ad armi pari. Meglio ancora se abbiamo armi superiori. È anche per questo che invecchiando ci si ritira dalla mischia. Si diventa disgustati. Si cerca la consolazione nella buona vecchia Torah, nella quale cinquemila anni fa avevano già capito tutto, scritto tutto, spiegato tutto, e si va incontro alla morte come a un sollievo… Quando si è giovani, è giusto lottare per difendere gli ideali, altrimenti la vita non avrebbe nessun senso… Ma per ognuno di noi, viene il giorno in cui si capisce che tutto è illusione.»

«Anche per te, Zio?»

«Certo. Anche per me. È per questo che la mia unica preoccupazione non è la ricchezza, o il potere, o la politica; è solo e unicamente la felicità della mia famiglia e del mio popolo.»

«Israele?»

«Israele…»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3. Ariel

 

1953

 

Ariel passava il più del suo tempo col violoncello. Una sera, durante la cena, ammise che non aveva il senso degli affari e chiese di poter allentare i suoi rapporti con la Blue Star.

«Un artista in famiglia è una benedizione», disse Zia Rachele sorridendo con indulgenza. «Davide da pastorello è diventato cantautore; suonava l’arpa… Eppure, anche lui ha fatto una carriera interessante visto che è diventato il più grande Re della Storia».

«Non ci sono mestieri stolti, c’è solo gente stolta», sentenziò Zio Josef alzando l’indice. «Tuttavia, la tua andatura amatoriale non mi piace. O t’impegni in ufficio, o t’impegni seriamente con la musica.»

Ariel cominciò a frequentare assiduamente un maestro di musica privato. Iniziò a seguire le lezioni all’accademia di musica e cominciò a suonare da professionista in un’orchestra sinfonica. Poi arrivarono gli inviti a suonare come solista nei concerti organizzati da amici, conoscenti, comunità ebraiche sparse un po’ ovunque per gli Stati Uniti. Il più delle volte, i concerti erano organizzati a scopo di beneficenza: le raccolte di fondi erano destinate alla costruzione di scuole, di ospedali e di altre opere sociali in Israele, principalmente nei kibbùtz.

Nora lo accompagnava, si occupava dell’aspetto burocratico degli spostamenti: prenotazioni dei biglietti aerei, pernottamento negli alberghi, ripetizioni e concerti. Ogni sera, redigeva un fedele resoconto per lo Zio Josef, che seguiva l’evolversi della situazione con molta attenzione.

 

1954

 

A New York, l’America-Israel Public Affairs Committee, la lobby ebraica ufficiale, era diventata molto attiva.

Così arrivò l’invito per un ciclo di concerti nei kibbùtz in Israele.

«Non posso», disse Ariel. «Sono già stato in Israele. Non ce la faccio…»

«Nessuno ti chiede di rimanere o di arruolarti nell’Irgun o nella Haganah… La musica è il messaggio di pace e di bellezza per eccellenza. Credo che sia il minimo che tu possa fare per il tuo popolo e per ricambiare il fatto che ti tratto come un figlio», disse Zio Josef strizzando le sopracciglia. «Forse tu non lo vedi, ma io sono fiero di te e sono fiero che tu sia invitato in Israele. Poi, Nora andrà con te, quindi sarà come una vacanza.»

«Io non ho “un popolo”…»

«Ah, tu non avresti “un popolo”? Devo ricordarti che la famiglia Levi esiste da cinquemila anni? I nobilucci europei sono orgogliosi quando hanno un antenato che ha partecipato alle crociate. Il tuo antenato, invece, era nipotino d’Abramo e bisnonno di Mosè… Perché Mosè di parentela si chiamava Levi, come te… Non ti sembra di fare un po’ lo schizzinoso? Se credi di non aver un popolo, almeno la famiglia non puoi rinnegarla, perché chi sono i Levi lo sanno anche i paracarri… Insomma, mi domando cosa vorresti di più…»

«E poi, Zio, un ciclo di concerti non è uno scherzo. Ci vuole una preparazione…»

«Ma come? Non è quello che stai facendo da anni? E poi non si tratta di cose complicate; non servono concerti con orchestre sinfoniche di centocinquanta musicisti, ci vogliono delle cosette semplici, quelle piccole sonate di Schubert o Schumann, con un banale accompagnamento del pianoforte. Non dimenticare, che farai una tournée in campagna, che suonerai nelle scuole, nei refettori, così, alla buona…»

«Ma Zio», esclamò Ariel disperato. «Quelle non sono ‘”banali, semplici, piccole cosette”, quelle sono opere tra le più difficili del repertorio, soprattutto perché se suoni da solo con un solo accompagnatore, se non sei assolutamente perfetto, sei osceno. Non c’è alternativa, non hai nessun mezzo per nascondere o camuffare le imperfezioni… Sono i pezzi più esigenti.»

«Allora», disse Zio Josef alzando la mano per far intendere che il discorso era chiuso. «Cerca di essere perfetto. Non saprei cosa dirti di più. Sai cosa devi fare: arrangiati… So che negli ultimi sei mesi ti sei accanito su queste fantasie di Schumann. Non vedo perché non dovresti essere capace di suonarle in pubblico. O fai solo finta di studiare?»

«Ma non ho nemmeno un accompagnatore. Ci vuole un pianista che conosca queste partiture, con cui io vada d’accordo, con cui abbia feeling. Zio, questa è arte, non traffico da bottega. Fosse pure di diamanti…»

«Tieni presente che comunque la bottega dei diamanti paga il pane che mangiano gli artisti che se lo meritano, ma non paga un solo shekel per i lazzaroni… Per quanto riguarda l’accompagnatore, credi proprio che in Israele non ci siano musicisti?»

E qui il discorso si chiuse, con un grande sospiro da ambedue le parti.

 

 

1955

 

Ariel e Nora partirono per Israele.

A Tel Aviv, furono accolti e condotti al loro albergo da un signore che sicuramente conosceva bene lo Zio Josef, perché subito chiese ad Ariel: «Come sta la vecchia volpe?»

Appena istallati nelle loro camere, furono chiamati nella hall.

«Hallo, Arielevi!» esclamò una specie di gnomo, che si precipitò verso Ariel. «Sono Samuel Pinkerstern. Mi chiami pure Pinki! Sono il suo pianista…»

Ariel prese un colpo; questo era il colmo del contrattempo… Non questo nanerottolo, no! Nora guardò lo gnomo, sorpresa, e balbettò un maldestro “piacere” mentre tendeva una mano incerta. Di piacere sicuramente non ce n’era; anzi, l’incontro sapeva di catastrofe… Chissà da dove era saltata fuori questa disgrazia della natura…

Samuel Pinkerstern misurava un metro e cinquanta, aveva la testa grossa e portava una kippah troppo piccola, di color rosa come le bretelle dalle quali pendevano dei jeans troppo larghi e completamente sfilacciati. Su quella testa mostruosa penzolavano occhialini piccolissimi, con lenti spesse come fondi di bottiglia, dietro alle quali non sembrava nemmeno ci fossero degli occhi. Sicuramente non si era rasato da parecchi giorni e aveva enormi mani pelose, come zampe di tarantola… Dai sandali rudimentali, uscivano piedi sporchi tanto tra le dita che sotto le unghie.

«Santo Cielo!» pensò Ariel. «Questo è sabotaggio! Chi mi fa questo brutto scherzo? Queste gambette da girino non arrivano nemmeno ai pedali del pianoforte…»

Imbarazzati, invitarono il loro “pianista” a sedersi sulla terrazza sotto gli ombrelloni e le altissime palme. Un cameriere portò un vassoio. Pinki diede un’occhiata e subito insistette: «Avevo chiesto i dolci alla crema di pistacchio. Mai il tè senza il pistacchio!» E, rivolgendosi a Nora, aggiunse: «Se non c’è il pistacchio, vado in ipoglicemia e allora non capisco più niente.»

Bevvero il tè. Pinki era volubile ed entusiasta, mentre Ariel e Nora non sapevano come comportarsi. Finalmente, presero appuntamento per iniziare le prove.

«Perfetto», disse Pinki. «Dopodomani cominciamo la tournée; domani abbiamo tutto il tempo per provare. In giornata fa troppo caldo. Diciamo… Domani mattina, dalle quattro alle dieci. Poi possiamo fare colazione, un tuffo in piscina… Non siete qua in visita turistica, quindi niente musei. Una piccola siesta e si riprende alle 16.00 fino a quando vogliamo, anche tutta la notte… Di notte, si lavora meglio: fa meno caldo, c’è meno rumore, e poi soffia lo Spirito… Sì, ci troviamo qua. Nello scantinato c’è una saletta…»

Ariel e Nora erano costernati e non riuscirono nemmeno a protestare.

 

«Devo parlare col Direttore!» disse Ariel alla reception.

«Eccomi», rispose un signore dall’apparenza assolutamente francese.

«Signor Direttore, lei conosce un pianista dal nome Samuel Pinkerstern?» e spiegò le sue inquietudini.

«Di musica non m’intendo molto, ma è un nome che si sente… E so che la saletta è stata riservata per domattina alle ore 3:45… Se ci fossero problemi, non esiti a contattarmi. Siamo a sua disposizione…»

«Se questo è uno scherzo dello Zio», disse Ariel a Nora. «Non metterò mai più un piede a New York».

Anche Nora era imbarazzata.

 

Alle tre 03.00 della mattina seguente, il telefono squillò nella camera di Ariel: «Ciao, Arielevi, sono Pinki. Dormi ancora? Con questa bellissima giornata? Non hai ancora aperto le finestre, dai, vieni giù che ci tuffiamo in piscina invece di fare la doccia. L’acqua è deliziosamente ghiacciata.»

Ariel si arrese. Per lui, l’acqua ghiacciata non era mai nemmeno stata concepibile! Ma qui non aveva via di scampo e si lasciò trascinare sul bordo della piscina. Le alte palme fremevano nella brezza. Il cielo era stellato come lapislazzuli. Un usignolo canticchiava per conto suo. La somma degli odori della notte - fiori, piante, prato verde bagnato dalla girandola e terra umida - si mescolava al soffio che veniva dal mare, con una sensualità corposa e inebriante.

Pinki, in slip da bagno rosa, aveva veramente un fisico da girino. Povero diavolo, faceva pietà.

«È un momento magico», disse Ariel per avviare gentilmente la conversazione.

«Lo sapevo, io, che voi poveri topi metropolitani vi perdete la parte più bella della vita in quei letti troppo caldi, in quelle camere troppo chiuse… La Vita è a quest’ora… La Vita è così poca! Ci è dato così poco tempo da vivere! Quel tempo è così prezioso… Ariel, lo senti quanto quel tempo che ci è dato è breve e non rimpiazzabile, così straordinario ed effimero… Non vorrei mai dormire, perché è tutto tempo perso…»

Pinki si tuffò e Ariel lo seguì. Lo shock fu brutale... L’acqua era fredda come lo spurgo del frigorifero. Non restava che dibattersi freneticamente: una lunghezza di vasca dopo l’altra. Poi, di sorpresa, Ariel sentì che Pinki aveva ragione: l’acqua era deliziosa. Si lasciò cullare e sentì con immenso piacere le onde scorrere lungo le sue spalle, lungo i suoi fianchi, lungo il suo corpo completamente rilassato, e allora cominciò a sentirsi bene. Anzi, felice…

«Rendez-vous nella saletta tra due minuti!» gridò Pinki mentre correva verso gli spogliatoi avvolto in un enorme asciugamano a fiori hawaiani...

Le finestre della saletta si aprivano su un prato verde dal quale saliva un intenso profumo di frangipani. Al centro, troneggiava un pianoforte a coda Steinway, con il coperchio già alzato.

«Sul vassoio, c’è il termos di caffè e i cornetti alla francese…» disse Pinki.

Ariel stava accordando il violoncello e Pinki si sedette sullo sgabello davanti al piano.

«Se non mangi, con che cosa cominciamo?» chiese Pinki.

«Io avevo preparato le Sonate per Arpeggione di Schubert…»

«Com’era già che cominciava?» chiese Pinki, mentre iniziava a suonare la Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven.

Ariel,invece, iniziò l’Allegro moderato in La minore.

«Ah già! Adesso mi ricordo…» disse Pinki.

«Ma la partitura, non ce l’hai?»

«No. Sai, con gli occhi che mi ritrovo, le partiture mi stancano. Dopo mi viene il mal di testa…»

 

Quando Nora scese, sentì la musica dall’inizio del corridoio e si fermò davanti alla porta per non interrompere. Poi le venne il dubbio che quei due fossero scappati e avessero lasciato un disco. Non sembrava una prova; era un lavoro fluido, senza esitazioni, che scorreva meravigliosamente.

Alla fine dell’Adagio, la musica si fermò e Ariel gridò: «Dai che ci meritiamo un caffè!»

Nora capì che tutto era perfetto ed entrò. Pinki e Ariel erano seduti sul davanzale della finestra con, in mano, le tazzine fumanti e i cornetti.

 

«Porta il tuo violoncello sulla spiaggia», disse Pinki dopo la cena.

«Ma il piano?»

«M’arrangio…»

 

Ariel estrasse il violoncello dalla custodia mentre Pinki arrivava con la fisarmonica appesa al collo.

«Ma non vorrai mica suonare Schumann con la fisarmonica!» esclamò Ariel indignato.

«E perché no? Vuoi ben vedere che per le dita è la migliore ginnastica… E non puoi pretendere che ti porti un piano a coda sulla spiaggia…»

Quando Pinki ebbe accompagnato Ariel con la fisarmonica nella Sonate in Re minore di Debussy, non ci furono più dubbi: questo Pinki era davvero un fenomeno. Partire con lui in tournée sarebbe stata una bella avventura!

«Toglimi una curiosità», chiese Nora. «Come mai quei comportamenti stravaganti?»

«Non sono stravaganze», replicò Pinki fingendosi offeso. «Piano o fisarmonica: è lo stesso strumento. La musica è la stessa». Poi aggiunse con un tocco di amarezza e inclinando la sua testa da pipistrello, grottesca sotto la kippah arancione: «Col fisico che mi ritrovo, nessuna donna mi vuole… La fisarmonica me la stringo tra le braccia, la bacio, me la godo e lei mi ripaga con orgasmi divini… Non le donne, ma la Musica! La mia Eumolpa… La mia fisarmonica si chiama Eumolpa, che in greco significa “che canta bene”.»

«E non segui mai le partiture?»

«Sì, certo, quando studio per forza, ma una volta che conosco i brani… Le partiture, con tutte quelle pagine da girare, non fanno altro che imbrogliare. La musica non deve uscire da un quaderno; deve nascere dall’anima.»

Pinki non suonava musica; la respirava, la digeriva, la viveva come una normale funzione fisiologica.

 

Più tardi, il terzetto si sdraiò sulla sabbia ancora calda. La notte silenziosa e la tranquilla risacca delle onde infondevano una pace propizia alle confidenze.

«Sono sconvolto», disse Pinki in un mormorio, come se stesse pensando a bassa voce. «Mi sconvolge… Noi stiamo lavorando impegnandoci a tirare fuori il meglio di noi stessi e della nostra arte. Subito dopo il concerto, c’è il silenzio: è tutto finito… È tutto effimero. L’“impermanenza”… Non appena moriamo, veniamo cancellati, scompariamo completamente. E questo da centinaia di secoli: gli uomini si succedono, gli artisti si succedono e poi scompaiono nel nulla; non ne rimane più nessuna traccia… Forse, qui su questa spiaggia, altri musicisti hanno suonato, cantato, ballato. Amanti hanno fatto l’amore ed è scomparso tutto. Più nessun ricordo. Ariel, domani anche noi moriremo e dopodomani saremo caduti nel nulla. Che senso ha? Oggi, la mia musica è divina. Domani non c’è più niente. Che senso ha? La mia vita che senso ha? Avrò provato a dare il meglio e comunque sarà inutile. È tutto così assurdo. Combattiamo guerre che sono perse in anticipo, eppure combattiamo ostinatamente. Se non fosse per la paura di danneggiare le mie capacità tecniche, berrei litri di alcol, mi drogherei… Non so cosa farei per non pensare all’assurdo della vita… Ariel, come fai tu a vivere?»

«Io», disse Ariel imbarazzato. «Io… non sono in grado di rispondere. Ho visto la guerra, ho visto morire tanta gente inutilmente… non so cosa dirti. La musica è il mio rifugio. La bellezza è la forza che mi tiene in vita. Non c’è nient’altro. L’arte per l’arte, la bellezza per la bellezza… Il resto è tutta illusione… Mio padre cercava Dio nella bellezza dei diamanti. Forse anch’io cerco Dio nella bellezza della mia musica. Non so, Pinki. So solo che noi non siamo felici perché, ovunque guardiamo, vediamo solo tristezza e delusione. L’unica consolazione è nella bellezza di un fiore, del tramonto, della musica. Ma anche nell’intensità di ore come queste. Forse valeva la pena di vivere perché ci sei tu, e Nora, ed io… Come diceva il poeta: “Parce que c’était lui, parce que c’était moi.[8]” E poi basta. Tu leggi troppo Omar Khayyam…»

 

Il viaggio in Israele fu una grande rivelazione; soprattutto, lo fu la scoperta dei kibbùtz.

Da quel pomeriggio in cui Ben-Gurion aveva fatto la famosa dichiarazione: “Alla luce della legge naturale e della storia del popolo ebraico, e in accordo con la risoluzione delle Nazioni Unite proclamiamo la fondazione dello Stato ebraico in Palestina, che d’ora in poi si chiamerà Medinat Yisrael.” erano trascorsi solo sette anni, ma i cambiamenti erano stati sorprendenti.

Da tempo, era iniziata l’Aliya, cioè “la raccolta degli esuli ebrei” di ogni tradizione e di ogni cultura che affluivano in Israele da ogni parte del mondo con lo stesso scopo: tornare nella terra degli antenati. Contava già più di un milione di persone con due principali esigenze: nutrire e difendere la patria.

Quindi i rimpatriati si buttarono nell’agricoltura intensiva, nell’organizzazione di un esercito più moderno ed efficiente e in ogni attività in grado di produrre denaro per poter aumentare gli armamenti.

Ariel rimase stupito dall’energia, dall’entusiasmo di questo popolo di contadini guerrieri: erano allegri, esaltati, razionali e così efficaci… Qui vide applicato il moto dei libri di calcolo che aveva seguito nella scuola elementare: vite et bien.

La vita nei kibbùtz era entusiasmante: tutto si svolgeva in comunità. I bambini vivevano nella scuola e nell’area a loro riservata, mentre i genitori svolgevano tutte le attività a turno nella totale assenza della proprietà privata. La biancheria veniva lavata, stirata e rammendata nella lavanderia comune. I pasti erano preparati, serviti e consumati nella mensa comune. I malati erano curati nell’infermeria. Tutti senza distinzione - uomini e donne - erano addestrati sia alla coltura dei campi, sia alla difesa del territorio contro le incursioni dei Palestinesi che continuavano a ribellarsi agli invasori.

Da millenni, la Palestina era rimasta uguale, ma negli ultimi anni i coloni avevano trasformato tutto: le paludi venivano prosciugate, il deserto veniva irrigato, dappertutto fiorivano gli alberi da frutta e maturavano i campi di cereali. L’energia della disperazione trasformava il paese in una verdeggiante fonte di vita e di speranza.

Alla sera, dopo il giorno estenuante, la pelle ancora scottante dal sole e profumata dall’essenza delle arance raccolte, i chaverim, i compagni, si riunivano. Mentre le guardie di turno perlustravano i confini con l’arma a tracolla, gli altri cantavano e ballavano. Uomini e donne facevano cerchi attorno a un falò; si tenevano stretti, le braccia appoggiate sulle spalle dei vicini. Lentamente, eseguivano il passo della danza, vecchia come questa terra, e cantavano le antiche ballate che si erano trasmesse di generazione in generazione, da millenni e in tutti i punti più remoti della Diaspora.

Ora, erano ritornati alla Fonte. Riprendevano la loro vita dopo una lunga parentesi di fatti gloriosi e drammi che nessuno avrebbe dimenticato per impedire che ricominciassero. Tutti cantavano, tutti suonavano gli strumenti più svariati e i giovani accompagnavano ogni attività con le chitarre, che erano più numerose degli aratri.

Era l’ambiente che Gilbert Bécaud celebrava nella sua canzone: “Le jour où la pluie viendra, nous serons toi et moi les plus riches du monde. Les arbres pleurant de joie offriront dans leurs bras, les plus beaux fruits du monde [9]. E Charles Aznavour, sulla musica di Hava Nagila: “Dansons car dans les granges, le blé se range c’est le dernier jour des moissons, dansons sans plus penser au mal qu’on s’est donné, dansons [10].

Quando le famiglie si riunivano per la notte, riposavano fiduciosamente, perché il domani sarebbe stato un nuovo giorno, duro e importante come quello precedente, e perché sapevano che mentre loro dormivano, i loro compagni vegliavano come avrebbero fatto loro stessi il giorno seguente. Ognuno poteva contare su tutti gli altri.

«È impressionante», disse Nora ad Ariel una sera dopo un concerto. «Non avrei mai immaginato che fosse così intenso. Anche nel mio villaggio eravamo una comunità agricola, ma non era come qui. Credo che qui tutto sia così forte perché è una questione di vita o di morte… È una vita al limite.»

«Sì, è affascinante», rispose Ariel. «Se non ci fossero i Palestinesi depredati dalla loro terra… Qui, sotto questo kibbùtz, c’era un villaggio con famiglie che vivevano, con bambini che giocavano, animali e campi… Noi siamo arrivati, abbiamo annientato tutto e ricostruito sulle loro macerie la nostra prosperità… È sconvolgente, ma ammetto che questi coloni sono straordinari. Anch’io sono entusiasta».

«Però», disse Nora. «Capisco che i Palestinesi siano sconvolti dall’arrivo degli Ebrei. Se loro hanno continuato a vivere nelle loro tribù come avevano fatto per millenni, saranno rimasti scioccati. È come se fossero stati invasi da extraterrestri coi loro comportamenti e le tecnologie moderne. Prova a immaginare: le donne che erano vestite e rinchiuse nelle loro tradizioni musulmane e arabe, che bruscamente si scontrano con donne emancipatissime che guidano i trattori, sono soldatesse, medici, insegnanti, si vestono alla moda europea, addirittura con le gambe nude! Dev’essere stato difficile da accettare. Se poi certe donne arabe avessero voluto modernizzarsi, chissà quanti drammi e quanti scontri sarebbero scoppiati in queste famiglie confrontate con un balzo così enorme nella storia.

Noi, nelle nostre valli ticinesi, abbiamo vissuto qualcosa di simile. Le donne nel mio paese si vestivano ancora con gonne lunghe, maniche lunghe, fazzoletto nero sulla testa… Poi sono arrivati i forestieri che giravano in paese coi pantaloncini corti, le donne con scollature e magari la schiena nuda… Per noi era scandaloso. Facevano il bagno nel fiume e qualche volta anche nudi, uomini e donne insieme… Prendevano il sole sdraiati nudi nel prato… Era semplicemente inconcepibile. Da noi, la gente era molto povera e molte case sono state vendute agli svizzeri tedeschi, che sono arrivati con dei mezzi e una mentalità che non avremmo mai immaginato. Ciò ha provocato ostilità e gelosia. Loro erano i signori, con professioni importanti e tanti soldi; noi eravamo cinquant’anni indietro. Facevamo da servi: giardiniere, donna delle pulizie, operaio per riattare le case… Ci comportavamo con deferenza, anzi, in modo servile. Mi ricordo una vicina di casa che faceva il bucato e stirava per una famiglia. Quando parlava alla signora, si chinava, dava del “voi”, la chiamava “Madame”. “Madame, ha dormito bene?”, “Madame, ha bisogno di altro?”, “Se Madame ha bisogno, basta chiamare…”. Era umiliante. Da noi, allora, non si chiedeva ai bambini quali studi volessero fare, ma quale mestiere volessero imparare e le ragazze stavano a casa a fare le casalinghe… Capisco i Palestinesi. Noi siamo stati un po’ come loro.»

Ariel ripensò alla vita in Belgio prima della guerra e rispose: «Anche da noi nelle campagne, la mentalità era antiquata, mentre in città no. Certo che l’agricoltura importata qui dai coloni è una vera rivoluzione, ma rischia di sconvolgere e distruggere gli equilibri ambientali, i paesaggi, le bellezze naturali. Sarebbe drammatico. Se da una parte asciugare le paludi è un efficace lotta contro le zanzare e le malattie, per non parlare del recupero di terre fertili; dall’altra, le paludi sono biotopi straordinariamente ricchi… Speriamo che riescano a rispettare un equilibrio. Lo sai che le cicogne che nidificano in Alsazia fanno tappa qua durante le loro migrazioni?»

Salvaguardare la bellezza della natura era un compito importante e difficile.

Nel 1867, Marc Twain aveva scritto che la Palestina era «un paese di desolazione, il cui suolo era comunque sufficientemente ricco, ma completamente abbandonato ai rovi; una immensa distesa triste e silenziosa…»

 

I concerti di Ariel diventarono di volta in volta più intensi, più raccolti, più spirituali. Il pubblico ascoltava in un silenzio religioso. Egli suonava in modo profetico e, quando gli applausi si scatenavano, si sentiva trasportato da quella stessa forza che aveva condotto per millenni il suo popolo attraverso il Mar Rosso, i deserti e la lotta costante tra il bene e il male… Esecutore dalla tecnica eccellente, Ariel diventò un vero artista, perché il calore ricevuto in queste comunità gli permise di suonare non solo con le mani e il cervello, ma anche con il cuore.

La complicità con Pinki era magica e quasi ogni concerto di musica classica finiva con follie e baraonde tipo jam sessions, alle quali ciascun membro dal pubblico partecipava col proprio strumento. Si suonava Glenn Miller, Django Reinhardt, Stéphane Grappelli e molti altri, fino al momento in cui si sentiva sui minareti dei villaggi vicini il muezzin chiamare i fedeli per la preghiera dell’alba. Ariel era irresistibile quando, imitando il contrabbasso, suonava jazz sul violoncello. Questa musica non era eseguita unicamente per professione, ma anche per divertimento e passione.

 

L’amicizia tra Pinki e Nora era cominciata con un “Nora, vuoi fare sesso con me?” pronunciato all’improvviso, nel bel mezzo di una cena alla quale partecipavano diverse personalità.

Il primo impatto produsse la costernazione generale, ma Pinki insistette: «Io sono un Ebreo ortodosso, anzi fondamentalista. Non posso nemmeno immaginare di chiedere a una gentile di sposarmi, però l’idea del peccato mi stimola, m’eccita, m’esalta… Allora, lo chiedo a tutte le donne che incontro, ma rarissimamente accettano… Solo quelle perverse vogliono fare sesso con un mostro e quelle… Se sono perverse, io come Ebreo ortodosso non posso sposarle. E poi, un mostro non può sposarsi, perché dopo fa dei figli mostruosi pure loro. Io lo so cosa vuol dire essere spaventoso… Non potrei infliggere questa tragedia ad altri.»

A questo punto, tutti pensarono che convenisse ridere, ma Nora rimase impressionata, anzi profondamente commossa da quella confessione, certo velata d’ironia, ma sincera comunque… Se non fosse stata intimamente legata ad Ariel e alla sua famiglia, avrebbe sicuramente provato per Pinki prima compassione e poi tenerezza. Intuiva che avrebbe potuto essere meraviglioso…

«Pinki», disse Nora molto seriamente. «Ti amo talmente intensamente che non è nemmeno necessario fare sesso. È come lo Zen e il tiro all’arco: lo scopo ultimo è di non aver più bisogno né dell’arco, né del bersaglio e nemmeno del tiro, perché ogni materialità è superata…»

«Eh, eh, eh», disse Ariel con una puntina di gelosia che non riusciva a nascondere. «Ed io? Nora è la mia compagna!»

«Non te la meriti», disse Pinki senza indugio. «Nora è una donna bella, intelligente, meravigliosa, e tu non sei che un piagnucolone egoista e noioso. Non te la meriti!»

Ariel si guardò intorno con un grande sorriso, come se avesse fatto una grande scoperta:

«Sì, hai ragione. Però io, Nora, me la tengo per me lo stesso, e solo per me! Beh… Al limite, visto che ti voglio bene… Nora, sei d’accordo che noi ci vogliamo bene tutti e tre?»

«A pensarci bene», disse Nora. «Voi siete due opposti, due contrari… Io in mezzo sono la donna più amata e più viziata di questo mondo…»

A questo punto, piantarono tutti gli invitati, si alzarono, uscirono e corsero sulla spiaggia come impazziti, con urla incoerenti, salti e piroette e finirono in una farandola completamente euforica, che passò tra le tavole cogliendo al passaggio tutti gli altri invitati.

Quella sera, tra Ariel, Pinki e Nora, nacque un legame di tenerezza, di gioia pazza e di stravaganza che fece di loro il trio più sorprendente e forse anche più felice della sponda mediterranea del Medio Oriente.

Da allora, Pinki non ebbe più nessun freno nell’adulazione per il suo amore platonico e portò a Nora vassoi di dolci, ceste di frutta, valanghe di fiori e Nora si lasciò galleggiare tra le premure fredde e razionali di Ariel e le deliziose stravaganze di Pinki.

Non di rado andarono in giro sulle spiagge o nelle stradette delle città tutti e tre a braccetto, con Nora in mezzo ai suoi due spasimanti. In albergo, lasciavano detto: «Il terzetto è in trasferta…»

Per Pinki diventò il periodo più delizioso della sua vita, perché sapeva di essere amato. Un giorno dichiarò solennemente: «Ho capito il fondo del problema: contrariamente all’apparenza dei cognomi, Ariel, tu devi essere di origine ashkenazita. Io invece sono un puro sefardita. Adesso mi è tutto chiaro…»

 

Fu una tournée grandiosa. Nessuno si chiese per chi fosse stato più bello, se per gli artisti o per gli ascoltatori, ma era proprio l’intensità della comunione che aveva permesso di raggiungere quell’eccellenza radiosa e quell’allegria.

Ariel si convinse che lo Zio Josef era davvero la persona più saggia che avesse mai incontrato.

 

Quando furono seduti nell’aereo per tornare a New York, Ariel disse a Nora: «È vero, è stata un’esperienza entusiasmante… Capisco i miei genitori e lo Zio e i suoi amici… Ma non posso sopportare l’idea dei Palestinesi cacciati dai loro villaggi… Dobbiamo fare qualcosa per aiutare a trovare una soluzione e vivere tutti insieme, nella pace e nella tolleranza.»

«Anch’io devo dirti qualcosa», disse Nora. «Ti ammiro, perché sei di un idealismo veramente disarmante…»

«Nora, noi due ci capiamo, facciamo una buona squadra, lavoriamo bene insieme, stiamo bene insieme… Vuoi sposarmi?»

Nora lo guardò con sorpresa.

«Non è che non voglio sposarti, è che non voglio rovinare il nostro team…»

«Ma io ti amo abbastanza per sposarti…»

«Anch’io ti voglio bene, ma è necessario sposarci? Non possiamo andare avanti come facciamo già da diversi anni?»

«Non mi basta più. Voglio di più dalla vita, da te, dalla nostra intesa…»

«Non c’è bisogno di un matrimonio per questo. Almeno, non adesso…»

«Allora, vuoi essere almeno la mia fidanzata? Voglio poter parlare di tutto questo in famiglia, coi nostri amici… Voglio che il nostro rapporto sia chiaro e che tu non sia solamente la segretaria che m’impedisce di fare pasticci con gli orari dei treni e il calendario dei concerti.»

«D’accordo. Parliamone in famiglia…»

Poi, ognuno sprofondò nei propri ricordi, nelle immagini che sarebbero rimaste per sempre nella loro memoria.

Nora ripensò a una giovane donna che era di guardia sul confine di un kibbutz. Lei aveva la pelle olivastra, i cappelli neri e i tratti del suo viso erano decisamente orientali. Portava un foulard annodato sotto il mento, un pullover grigio scuro con due strisce orizzontali di grigio più chiaro e una lunga gonna di grossa tela scura. Quando camminava, si vedeva che calzava degli stivali. Portava anche una collana di corallo rosso e in vita un grosso cinturone di cuoio naturale, dal quale penzolavano da una parte un coltello e dall’altra una pistola. Sopra la spalla sinistra, passava la bandoliera alla quale era appeso il fucile mitragliatore che teneva saldamente in pugno con l’indice sul grilletto.

Quella giovane e bella donna, che aveva un viso dolcissimo, stava in cima a un rialzo del terreno, coi piedi piazzati solidamente e l’equilibrio sicuro. Era pronta a scattare all’improvviso e a sparare con decisione senza nemmeno dover mirare. Si vedeva che aveva una lunga esperienza, che non avrebbe esitato, che sarebbe stata sicura di sé. Stava lì, da sola, di guardia e scrutava la distesa di sabbia.

Era bella, era dolce, eppure era un guerriero spietato. Nora era rimasta a osservarla. Lei non aveva fatto che un piccolo cenno di saluto, poi aveva ripreso a scrutare il deserto come l’aquila appollaiata su una roccia, pronta a piombare sulla sua preda.

Il deserto. Avevano sorvolato il deserto e i suoi colori nello stesso tempo armoniosi e contrastanti di gialli, rossi e arancioni, che si scontravano brutalmente col blu scuro del cielo e il turchese del mare. Eppure, quello scontro brutale era armonioso. Sui picchi frastagliati di lunghe ombre viola, troneggiavano le antiche fortezze come Masada, Gerico o Herodium.

Il Monte Hermon era bianco di neve, la valle del Giordano verdeggiante e, lungo le infinite spiagge, il mare smerlato da schiuma bianca scorreva indifferente e fuori dal tempo.

Sì, le città, naturalmente: Gerusalemme, tutta blu e nel suo cuore la cupola d’oro della moschea di Omar, ma anche Tel Aviv o Haifa; anche le città storiche e tutti i monumenti lungo i quali camminava la Storia. Sì, le città, ma soprattutto i deserti, la bellezza maestosa dei deserti e l’incredibile sfida che l’agricoltura più moderna voleva impiantare proprio nelle zone più aride e ostili.

Le immagini sfilavano, troppe, e ci sarebbe voluto tanto tempo per lasciarle decantare e per poterle ricordare tranquillamente. Sì, c’era tutto questo, ma c’era anche la gente. In quel piccolo paese, si concentrava un campionario stravagante proveniente da ogni angolo remoto del pianeta.

Era stata davvero un’esperienza straordinaria.

 

1955

 

«Ma dove siete stati?» esclamò Sara, che era venuta ad aspettarli all’aeroporto. «Siete abbronzati, neri come Louis Armstrong… Cos’avete fatto? Siete stati sulla spiaggia giorno e notte?»

«No», disse Nora ridendo. «Solo di giorno e non solo sulle spiagge, ma anche negli uliveti, in cima agli aranci e nei campi di meloni… Non sai cosa ti sei persa!»

«I campi di meloni?»

«Sì, cara. I campi di meloni, grossi come balene, gialli come cupole di moschee… E in pieno deserto, con l’acqua riciclata dai depuratori e con tubetti così fini che vanno a sgocciolare ai piedi di ogni piantina senza che bisogni perdere tempo ad annaffiarle o che il sole asciughi tre quarti dell’acqua… Apri il rubinetto centrale e l’acqua trasuda esattamente nella quantità giusta per coltivare le angurie nel centro del Negev… Anzi, c’è un timer che apre e chiude il rubinetto, preciso come un orologio svizzero.»

«Bugiarda», disse Sara lentamente, quasi sottovoce, incredula.

Arrivarono a casa in tempo per fare una bella doccia, vestirsi e scendere nella sala da pranzo, dove la famiglia li aspettava e dove Chai li accolse con salti di gioia e abbaiamenti scatenati.

«Ecco i giramondi!» esclamò Zio Josef che li aveva tenuti sotto stretto controllo grazie ai suoi amici israeliani, che da buoni genitori abituati a controllare i propri figli avevano telefonato regolarmente per raccontare come i novelli viaggiatori se la cavavano.

E mentre ci si abbracciava e ognuno prendeva raggiungeva il suo posto intorno alla lunga tavola, l’agitazione di Sara sfociò nell’eccitazione generale. Domande e risposte si accavallarono in una gioiosa confusione.

«Papà, papà!» gridò Sara con tono mezzo affermativo e mezzo interrogativo. «È vero che i meloni crescono nel deserto?»

«Solitamente no, ma devi sapere che gli Israeliani sono dei tipi particolari. Hanno attaccato i problemi, anche quelli dell’agricoltura, con razionalità e uso della scienza. Se tu volessi studiare seriamente invece di passare le tue notti a scuotere il tuo cervello ai ritmi negri, sapresti che qualunque cosa si può coltivare addirittura in provetta, solamente con l’acqua e un cocktail appropriato di sostanze chimiche.»

«Oh! Daddy, lo sapevi! Sei geniale!»

«Ruffiana di una ruffiana», borbottò Jona. «Non sei che una femmina perversa! Quando comincia così, è sicuro che ha qualcosa da chiedere. E tu, papà, ci caschi sempre! È insopportabile!»

«Sei geloso», replicò Sara. «Brutto maschio!»

«Jona, è tua sorella!» disse la Zia.

«Sara, siamo a tavola… Ti prego…» insistette lo Zio.

«Daddy, lo sai che non è vero. Non voglio chiedere niente, ma tu saresti contento se io andassi in Israele, vero Daddy

E nel silenzio che era piombato di colpo, la voce ingenua di Sara disse molto chiaramente: anch’io voglio fare le vacanze in Israele…»

Solo lo Zio Josef non fu sorpreso perché conosceva bene sua figlia.

«Mia cara, se tu mi porti i voti massimi alla fine dell’anno scolastico, ti prometto due mesi di vacanze in un kibbùtz di quelli giusti che conosco io e dove alla sera non avrai più bisogno di swing…»

Tutti rimasero perplessi, perché nessuno capì se fosse una ricompensa o la minaccia di un castigo esemplare.

«Anche noi avremmo una richiesta», si azzardò Ariel. «Ecco, Nora ed io ci conosciamo da cinque anni e formiamo un team molto efficace. Ho chiesto a Nora di sposarmi, ma lei ha detto di no. Adesso vorremmo il vostro parere…»

Partirono le esclamazioni di meraviglia, di entusiasmo, di approvazione.

Zia Rachele si era alzata e baciando Nora, le disse nell’orecchio: «Noi ti amiamo, Nora. Se vuoi entrare nella nostra famiglia, sei la benvenuta…»

«Non vorrei essere frainteso», insistette Ariel. «Non siamo né esaltati né fuori di testa, ma mi sembra giusto nei confronti di Nora: siamo sempre insieme, lavoriamo bene insieme e mi sembra onesto darle uno statuto che riconosca la sua posizione in pubblico.»

«Hai ragione», disse Zio Josef. «Ma è Nora che deve decidere.»

Pensierosa, Nora rispose: «Ecco, io voglio molto bene ad Ariel. Non escludo il matrimonio, ma non subito. Siamo giovani e non voglio fermarmi sulla strada che abbiamo appena imboccato, perché abbiamo tutti e due un grande progetto. Ariel ed io abbiamo deciso di fare tutto quanto sarà nelle nostre possibilità per far sì che Palestinesi e Israeliani riescano a vivere in armonia nella Terra Promessa…»

«Gewald!» esclamò Zio Josef. «Hai ascoltato la mia preghiera! Venite, figli miei. Questa è la gioia più grande che avrei mai osato sperare… Sì, davanti a noi c’è un’opera grandissima».

Fu la prima volta che Zio Josef si lasciò andare a effusioni che di solito considerava indecenti.

«Propongo di festeggiare il vostro fidanzamento», disse la Zia. «Così lo annunceremo ai nostri amici e le cose saranno chiare. Il fidanzamento non vi obbliga a sposarvi: avrete tutto il tempo per pensarci…»

La festa fu dignitosa e semplice, ristretta ai membri della famiglia, con una cena accuratamente preparata da tutte le donne della casa.

«Ariel», disse Zio Josef. «Oggi hai l’onore di accendere le candele della menorah. Spero che, per te, Nora e la vostra futura famiglia, la luce brilli anche nei momenti più difficili della vostra vita.»

«Oh, Papà!» esclamò Sara con aria scherzosa. «Basta, basta, sei troppo sentimentale. Ci fai piangere…» E andò al grammofono per far partire un disco di Glenn Miller al massimo volume, gridando: «Ariel, questo è per te! In the mood, lalalala la in the mood, lalalala la

Mentre strappava Ariel dalla sua sedia e Jona faceva lo stesso con Nora, si lanciarono in una specie di rock & roll indiavolato.

«Terribili figli», disse Zio Josef scuotendo la testa. «Terribili, senza rispetto per le tradizioni… Mia cara Rachele, posso invitarti a partecipare a questo boogie-woogie?» I figli esterrefatti fecero cerchio intorno ai genitori, che ancora non avevano dimenticato nulla degli anni felici della loro gioventù. Tutti batterono le mani e cantarono in coro il finale: «Lalalalala la lala lala wuuu wuu wuu wu…»

«Si può avere un momento di attenzione, in questo manicomio?» chiese alla fine lo Zio Josef. «Tutti seduti, prima della torta!»

Poi, depositò due scatolette sulla tavola.

«Nora, dammi la tua mano sinistra…»

Nora si avvicinò un po’ imbarazzata. Lo Zio aprì la scatoletta e ne estrasse un anello con un grosso diamante.

«Questo fidanzamento è abbastanza informale, quindi sarò io a mettere al tuo dito quest’anello, in testimonianza del nostro amore». E fece lo stesso con un anello molto più maschile, che infilò all’annullare di Ariel.

«Questi sono due diamanti molto belli. Se guardate bene, non sono bianchi, ma blu. Quasi viola… Sono diamanti scelti, tagliati e levigati da mio fratello Simon, tuo padre. Sono bellissimi e diventeranno preziosi quando il mondo avrà finalmente capito, quanto sono rari e luminosi. Per Simon, i diamanti viola erano il massimo e vedrete che la storia gli darà ragione. È facendo riferimento ai diamanti azzurri di Simon che la nostra compagnia si chiama Blue Star. È anche, naturalmente, un riferimento alla stella della bandiera israeliana… Naturalmente.»

«Oh!» disse Sara in un lamento degno di Broadway, come se stesse per svenire. «Chissà quando mi fidanzerò…»

«Taci, stupida femmina», disse Jona. «Non avrai mai diamanti, perché sarai sempre così stupida che mai nessuno vorrà fidanzarsi con te, a parte un qualche negro cacofonico che non avrà nemmeno di che pagarti la pizza… Figuriamoci i diamanti…»

Sara mostrò la lingua a suo fratello, che rincarò la dose: «Per una ragazza di buona famiglia, già quasi maggiorenne… Che frana».

«Zitti! Zitti tutti!» disse Zia Rachele con determinazione. «Rovinate il mio brindisi… Anch’io ho un regalo!» Estrasse dalla sua tasca una catenina che ritraeva il simbolo Chai, che mise al collo di Nora. Per Ariel, invece, c’era un paio di gemelli con lo stesso simbolo della Vita.

“L’chajim! Alla Vita!» disse lo Zio Josef mentre tutti alzavano le flûtes di champagne Dom Perignon.

«Alle mie prossime vacanze a Gerusalemme», disse Sara.

Al ché, Jona aggiunse bruscamente: «Non è così che si dice. Si dice “l’anno prossimo a Gerusalemme”. E speriamo che ti tengano lì per sempre…»

 

Arrivarono lettere, cartoline e telegrammi di felicitazioni, mazzi di fiori e regali. Pure in ufficio ci fu un’ovazione, poi la bicchierata e i brindisi. Poi la vita riprese un corso sereno. Nora imperturbabile in ufficio, Ariel sempre più trasportato dalla propria arte. Non mancarono un concerto. Spesso Ariel e Nora accompagnarono Jona e Sara nei luoghi più strambi ad ascoltare jazz e musica d’avanguardia. Visitarono mostre nelle quali non si capiva se gli artisti stessero diventando matti o se la loro fosse semplicemente una presa in giro.

Una cosa era certa: il quartetto si divertiva e, più importante ancora, andavano tutti d’accordo. Jona e Sara proseguivano i loro studi all’università e, un giorno, sarebbero diventati avvocati: Sara estroversa e votata all’eccesso; Jona riservato e pensieroso, ma quando diceva qualcosa, valeva la pena ascoltarlo.

La cena rimase il momento privilegiato durante il quale la famiglia al completo si scambiava notizie e opinioni. Se lo Zio Josef occupava il posto centrale nella Blue Star, la Zia Rachele era il perno non solo della casa, ma anche della vita di tutta la famiglia.

 

1956

 

Ogni giorno portava la sua razione di avvenimenti e di preoccupazioni.

In Egitto, re Farouk era stato deposto e la nuova Repubblica si era orientata decisamente verso l’Unione Sovietica e la sua ideologia comunista. Mosca aveva proposto di finanziare la grande diga di Assuan. Nasser decise la nazionalizzazione del Canale di Suez, provocando l’intervento Franco-Britannico e un nuovo conflitto in Israele a causa del blocco del golfo di Eilat, che era di importanza vitale.

Se ne parlò a tavola. Lo Zio Josef apparve preoccupato e, una mattina, convocò Nora e Ariel nel suo ufficio. Contrariamente al solito, si alzò a chiudere la porta, specificando con la segretaria: «Signora Feldman, mi raccomando: due ore di silenzio, nessun telefono. Non ci siamo per nessuno.»

«Ecco», disse mentre si sedeva dietro alla sua scrivania, una grande struttura d’acciaio e di placche di cristallo concepita dall’architetto Mies van den Rohe, che gli piaceva molto perché il cristallo aveva la limpidezza del diamante. «Ecco, vi ho chiesto di venire per discutere la situazione che ormai è, come sapete, disastrosa. Israele è al centro di una minaccia continua, quindi ha un bisogno sempre crescente di denaro per poter  comperare delle armi… È terribile, ma abbiamo deciso di far fronte al problema. Voi avevate detto che volevate fare la vostra parte nella costruzione della pace. Sarà lungo e difficile, però è giunto il momento in cui abbiamo bisogno del vostro aiuto ed è per questo che siamo qui riuniti adesso. Prima di tutto, voglio essere sicuro che siate d’accordo per entrare nella lotta».

«Certo», disse Ariel. «A condizione di tenere conto delle nostre capacità».

«Regola numero uno», disse Zio Josef sorridendo. «Esigere il massimo senza mai chiedere l’impossibile… Non temere. So che tu non sei un guerriero, però voi due formate una coppia capace di vincere le battaglie, senza che nessuno se ne accorga. Sei diventato un solista rinomato, avete già viaggiato insieme. Inoltre, siete fidanzati. Nessuno si meraviglierà dei vostri spostamenti in risposta agli inviti per concerti. Per di più, la custodia del violoncello è sufficientemente vasta per contenere un doppio fondo. Non provocherete nessun sospetto. Non dovrete fare altro che viaggiare da una sala di concerto all’altra e lasciare la custodia nel camerino a disposizione delle persone giuste, che sapranno dove guardare, cosa estrarre e cosa inserire… Voi dovrete solamente non perdere la custodia e andare senza discutere, né cercare di capire, dove vi sarà detto di andare. Il tutto sarà coperto dalla raccolta di fondi a favore delle opere sociali nei kibbùtz che avete tanto apprezzato.»

«Nient’altro?» dubitò Ariel.

«Nient’altro… Meno farete, meglio sarà. Sarete la coppia di fidanzati appassionati di musica e di opere buone…»

«Chi ne sarà al corrente?»

«Nessuno, a parte la gente che deve esserne al corrente.»

«Servizi segreti?»

«È questo il segreto… Non chiedere. Meno sai, meno puoi sbagliare. Accontentati di essere brillante, di essere il virtuoso che tutti vogliono invitare e applaudire… Ci saranno feste e ricevimenti. Dovrete essere sorridenti, disponibili, sempre con la motivazione che ogni dollaro raccolto può salvare la vita di un bambino in un kibbùtz… In ogni città avrete l’albergo riservato, il credito aperto, i negozi nei quali trovare l’occorrente. La vostra tenuta dovrà essere dignitosa e classica: il tipico stile concertista in tournée, con smoking e abiti lunghi e neri da sera… Niente “ragazza col pullover”. State con Chanel di giorno e Dior di sera e non sbaglierete mai. E poi, quando sarete a Parigi, ci sarà chi vi consiglierà.»

«Ci saranno persone a cui rivolgerci?»

«Sarete accolti da amici. Le vostre domande troveranno la loro strada e riceverete le risposte. Evitate di telefonare, perché i telefoni sono ascoltati da mezzo mondo, quindi pensate sempre che parlare al telefono equivale a parlare col megafono dalla cima dell’Empire State Building. Comportatevi sempre come se le vostre stanze fossero piene di microfoni che vi registrano.»

«Stiamo per diventare agenti segreti?»

«No, ma in un certo senso, sì… Sappiate regolarvi - keep cool in ogni circostanza.»

«Insomma», disse Nora. «Non dobbiamo fare nient’altro che quello che facciamo da sempre».

«Esatto. Dovete solo essere brillanti. Siete giovani e belli, avete una cultura come pochi; vi basta essere naturali per essere brillanti. È la parola giusta…»

«Va bene.»

«Quando partiremo?»

«Partirete mercoledì per il Belgio.»

«Oh, Dio!» esclamò Ariel. «No, Zio, non il Belgio, ti prego, tutti i ricordi…»

«Bisogna far fronte al nemico, non scappare. Fai fronte alla sofferenza e vedrai che ti darà la forza…»

 

Così, Nora e Ariel s’imbarcarono su un enorme Super DC 6 della compagnia aerea belga Sabena. Si sedettero nelle loro poltroncine in prima classe e allacciarono le cinture. Uno dopo l’altro, i quattro enormi motori si accesero e le eliche cominciarono a girare. Mentre il grosso aereo raggiungeva la sua quota di crociera, le hostess cominciarono a circolare coi bicchieri di champagne e gli omaggi della compagnia, tra i quali il tanto apprezzato flaconcino di profumo Ma Griffe di Carven, avvolto in una frivolité di vichy bianco e verde.

 

1956, continua.

 

La tournée in Europa cominciò col primo scalo a Melsbroek, l’aeroporto di Bruxelles. Nel corridoio successivo agli uffici doganali, aspettava un signore in livrea con, in mano, una lavagna sulla quale era scritto «Monsieur A. Levi».

Ariel si fermò.

«Credo che lei stia aspettando noi.»

Uscirono dall’aeroporto. Il tempo era soleggiato. Una Citroën nera si avvicinò. Ariel e Nora si sedettero dietro e tennero l’ingombrante violoncello sulle ginocchia.

«Per tutto il vostro soggiorno in Belgio, è riservata una suite doppia nell’albergo Métropole. L’autista e la macchina sono a vostra disposizione per i concerti, ma anche per spostamenti privati. Ecco un incarto coi numeri telefonici e altri indirizzi utili. Siamo a vostra completa disposizione. Basta chiamare.»

Bruxelles aveva conservato il suo charme. Contrariamente ad altre grandi città, là non c’era niente di pacchiano; anzi, era tutto semplice, solido e di buona qualità.

«Approfittate del paese fin quando è ancora bello», disse malinconicamente il direttore dell’albergo. «Tra pochi anni, anche qua, sarà tutto rovinato. Parlano di un nuovo aeroporto, vogliono attirare a Bruxelles le sedi di organizzazioni internazionali, vogliono costruire, costruire, costruire… Addirittura le autostrade in città! Qui, nella Place de Brouckère, con la sua bellissima fontana… Vogliono spazzare via tutto, in nome del progresso: strade, macchine… Il nostro albergo ha un’immagine, una qualità. Potete immaginare la terrazza con le automobili che vi passano quasi sotto le poltroncine? Il futuro è questo: la calata dei barbari.»

Nora e Ariel si sedettero nelle poltroncine di vimini, presero un café filtre con un biscottino speculoos di Dandoy e Ariel si sentì felice di essere tornato. Per tanti anni era stato all’estero e ora era commosso; mai Bruxelles gli era apparsa così bella, così calorosa.

«È strano», disse a Nora. «Qui mi sento a casa mia… più che ad Anversa. Ad Anversa, ci sono troppi ricordi di guerra.»

Quella sera, andarono a spasso nelle stradette della città vecchia. Incontrarono i nomi che raccontavano la storia: Aux Armes de Bruxelles, La Bécasse, la Piazza Grande con Le Roy d’Espagne e le birre rinomate in tutto il mondo, come la Gueuse e quella dei padri Trappisti di Westvleteren.

«Non ce la faccio più», disse Nora. «Temo di diventare ubriaca…»

Difatti, dormirono magnificamente.

 

Alle tre del mattino seguente, suonò il telefono.

«Pronto?» disse Ariel, inquieto e addormentato.

«Hallo Arielevi, dormiglione! Dai che ci facciamo un jogging sulla Piazza Grande!»

«Pinki! Ma dove sei?»

«Nel corridoio davanti alla tua porta, col caffè e i croissant…»

Ariel corse alla porta.

«Ma cosa ci fai qui?»

«Beh, sono qua per i concerti. Tu no?»

 

Quindi iniziò la tournée. Certi concerti erano previsti con l’orchestra sinfonica; altri erano i meravigliosi duetti con Pinki, che per l’occasione vestiva molto dignitosamente uno smoking elegantissimo e scarpette di cuoio fine.

Dopo i concerti, c’erano ricevimenti e sempre tanti fiori. Ariel era brillante come musicista, ma timido in società. Nora aveva assimilato perfettamente il suo ruolo. Vestiva sempre lo stesso tipo di abito da sera: un tubino nero che metteva in risalto la sua statura alta e snella. Il più delle volte, era appena scollato, senza maniche, ma con lunghi guanti che risalivano fino al gomito. Non portava gioielli e i suoi lunghi capelli neri erano sempre ritenuti nella nuca da un catogan dello stesso tessuto dei guanti. I tacchi alti a spillo completavano brillantemente l’eleganza della sua silhouette.

Nora attirava gli sguardi, ma con una “destrezza degna della più raffinata diplomazia” riusciva a mantenere Ariel in primo piano. Lei era lo scrigno nel quale mettere in risalto l’arte di Ariel.

 

A Bruxelles successe uno strano, piccolo incidente.

Mentre passeggiavano nel centro città, Nora vide in un negozio un paio di guanti che le piacevano. Quando entrarono, udirono la fine della conversazione che la venditrice stava avendo con un’altra donna: «…si le commerce va mal, c’est à cause des Juifs…»[11]

«Ces sales Juifs[12]» e, rivolgendosi a Nora, «n’est-ce pas, Madame

Ariel fu imbarazzato, ma Nora rispose senza batter ciglio: «La capisco, signora, perché sono Ebrea anch’io».

Salutò e uscì dal negozio.

«È incredibile», disse Ariel sconvolto. «Tanti anni dopo la guerra e dopo tutto quanto è successo e in una città internazionale come Bruxelles… Com’è possibile che ci sia ancora gente tanto ignorante?»

«Te lo spiego io», ripose Nora. «Lo scrittore francese Ernest Renan scrisse che “La bêtise humaine donne une idée de l’infini[13]. Quindi, non prendertela. È normale, anche se davvero triste… Questo conferma che gli amici dello Zio Josef hanno ragione.»

«Grazie», mormorò Ariel guardando Nora con gratitudine, incapace di dirle di più, non tanto per l’offesa personale, quanto per il senso d’impotenza che aveva provato davanti alla cattiveria e all’ignoranza.

 

Una sera, al Palais des Beaux-Arts, la loggia reale era illuminata. Infatti, la regina Elisabetta era venuta ad assistere al concerto. In seguito, Ariel e Nora furono invitati a incontrarla in un salottino privato. Scambiarono qualche parola molto protocollare. Invece, il tè che seguì al castello dello Stuyvenberg, la residenza della regina, fu meno formale.

Incontrarono altri artisti. Fu l’occasione per Ariel di far notare che sì, il Concours Reine Elisabeth era uno dei più prestigiosi concorsi musicali, un anno per il piano e un altro per il violino… «Però», insistette Ariel. «Mi permetto di suggerire che venga aggiunto un terzo anno dedicato al violoncello…»

«Non nell’immediato», disse la regina ridendo. «Però non è escluso nel futuro…»

Poi la regina, che era stata una brava alpinista, si appartò con Nora e parlarono di montagne.

 

Un’altra sera, il Palais des Beaux-Arts era stracolmo di giovani perché la serata era riservata agli allievi delle scuole. Ascoltarono l’esibizione di Ariel in silenzio raccolto, poi si scatenarono in applausi frenetici e dopo l’ultimo brano urlarono: «Bis, Bis, Bis!»

Ariel ritornò sul palco per un bis, dopo il quale ricominciarono a urlare «Bis, Bis, Bis!» Batterono le mani e i piedi; l’anfiteatro rimbombava come un cembalo. Ariel non poté resistere e ritornò ancora. Finalmente, l’orchestra uscì e Ariel tornò sul palco da solo, si sedette col violoncello tra le braccia e suonò il tema di una vecchia ballata yiddish, poi suonò pezzi più inaspettati, come Love me tender di Elvis Presley e Walk The Line di Johnny Cash… Il ché provocò il delirio.

Il dignitoso Palais des Beaux-Arts non aveva mai visto niente di simile.

Ariel si alzò e andò sul bordo del palco; tendendo le braccia aperte verso il pubblico, disse ad alta e chiara voce: «Cosa volete di più? Vi ho dato tutto…»

I tecnici iniziarono a spegnere le luci. Solo allora gli spettatori cominciarono a uscire.

 

Il giorno dopo, la stampa scrisse in prima pagina a caratteri cubitali: «Ariel Levi, il trionfo del cuore!»; «Il violoncello della generosità»; «Un’anima più grande dell’arte»; «Una musica suonata non solo dai musicisti, ma da tutti i presenti».

Mentre Ariel e Nora facevano colazione, un cameriere portò i giornali. Nora fu entusiasta, mentre Ariel sprofondò nella malinconia… Si accontentò di bere il caffè e di sgranocchiare i croissant.

«Cos’hai?» chiese Nora. «Non sei contento? È fantastico! Manderemo questi giornali a casa; saranno fieri di te.»

«Sì, è fantastico, ma anche terribile… Ieri ho dato il meglio di me stesso… È stato il meglio della mia vita e sono triste perché quella volta unica e irripetibile è passata… Mi rende triste.»

Nora mise un braccio intorno alle sue spalle, lo attirò affettuosamente verso di sé e Ariel si lasciò scivolare in quest’amore quasi materno.

 

Nora, dopo la notte di passione trascorsa nel fienile con l’uomo dal cappotto, tanti anni prima, non aveva più illusioni. Sapeva che quello era stato un unicum nella sua vita: irripetibile. Come scriveva André Gide: “Mai cercare di ritrovare le acque del passato…”

 

Quella notte era stata unica nella sua vita e doveva rimanere così. Non ne avrebbe parlato con nessuno. Non ci pensava che in modo molto sfumato, lasciando quel magico tesoro avvolto nell’aura del mistero, per paura che svanisse nel nulla come le fate svaniscono nei primi raggi del sole. Quel velo non ne avrebbe alzato l’angolo per nessuno, nemmeno per sé stessa. Quel ricordo le sarebbe bastato per tutta la vita. Non desiderava di più, non cercava più niente. Accettò il profondo affetto di Ariel con gratitudine, come un regalo inaspettato, un qualcosa in più. La loro relazione era maturata lentamente e ogni passo successivo era naturale e opportuno. Riuscire ad attraversare gli impegni, le difficoltà e le gioie della vita con quell’armonia doveva essere la vera felicità.

 

Andarono a Liegi, a Madrid, a Bornemouth, a Vienna, a Parigi e anche ad Anversa… Ariel fu coraggioso ed ebbe la forza di fare il giro della città per mostrarla a Nora.

Posteggiarono nella Quellinstraat, passeggiarono lungo la De Keyserlei, dove si trovavano i negozi lussuosi. Nella Pelikaanstraat, una vetrina vicina all’altra, erano tutte gioiellerie specializzate nel commercio dei diamanti. Nei pressi della Hoveniersstraat passarono nelle stradette all’entrata delle quali stavano delle guardie. Qui, con un’aura di mistero e di fascino, su una superficie di un chilometro quadrato, millecinquecento ditte occupavano trentamila impiegati, tutti al servizio delle quattro “C”: Carat (il peso), Clarity (la limpidezza), Colour (il colore), Cut (il taglio). Lì palpitava l’anima del World Diamond Center.

Ormai Nora da anni lavorava in quest’ambiente; conosceva i nomi, le tecniche manuali antichissime e quelle sofisticate e d’avanguardia con laser e computer. Conosceva gli associati, la voce dei corrispondenti, le calligrafie e le firme, ma trovarsi di persona nel cuore del santuario dell’eccellenza procurava un’emozione che non avrebbe mai immaginato. Si sentì in cima a una piramide, il summum non solo dei movimenti di valori, ma soprattutto della ricerca della bellezza. Là, la perfezione delle singole pietre, la professionalità dei singoli artigiani, l’arte dei singoli gioiellieri erano spinti all’estremo e la somma di quegli elementi eccezionali faceva di Anversa la capitale mondiale della perfezione. Nora si sentì fiera e commossa di farne parte.

«Grazie», disse Nora ad Ariel. «Sei tu che mi hai fatta entrare in questo mondo che, me ne rendo conto adesso, è diventato una vera passione».

Signori vestiti severamente circolavano con valigette metalliche legate al polso con una catenella. Portavalori si affrettavano. Nessun dettaglio sfuggiva agli agenti di vigilanza, né ai bodyguard. Colonne metalliche di sicurezza erano fissate nel sedime della strada sbarrando il traffico. Passavano anche Ebrei chassidim, col grande capello nero, i boccoli e l’abito nero. Non alzavano lo sguardo; camminavano velocemente, come se fossero stati da soli nella strada. Nei negozi, certi portavano la kippah.

«Sono tutti Ebrei?» chiese Nora sfottendo gentilmente. «È una città di Ebrei?»

«Molti sì, altri no», rispose Ariel ridendo. «Ma se vedi fissata sullo stipite d’entrata quella strana lunga scatoletta che difatti si chiama “mezuzah”, allora ci sono molte probabilità che gli abitanti siano Ebrei… Nella scatoletta, si trova un pezzettino di pergamena con un paio di versetti del Deuteronomio. Forse non ci hai mai fatto a caso, ma anche noi l’abbiamo a casa nostra.»

Nora lo guardò incredula e Ariel aggiunse con tono confidenziale qualcosa che aveva della presa in giro: «Eh sì, anche noi abbiamo i nostri grigri[14]», che comunque Nora non capì, perché non sapeva che cosa fosse un “grigri” e pensò che avrebbe dovuto guardare nel vocabolario.

Si fermarono davanti ai negozi; molti stipiti erano muniti di mezuzah e chi non lo sapeva, davvero non l’avrebbe notato.

 

Una mattina, mentre Ariel era occupato con le prove dell’orchestra, Nora partì alla ricerca della società con la quale era quasi quotidianamente in contatto per conto della Blue Star. Trovò l’indirizzo. L’edificio era severissimo, con una facciata di cemento, vetro e acciaio. Nora entrò e subito fu fermata dagli agenti di sicurezza, che la condussero in un salottino dai doppi vetri e dalle porte blindate.

«Ha un appuntamento?» chiese uno dei vigili.

«No, sono qui di passaggio per un viaggio privato; pensavo fosse l’occasione giusta per salutare una persona con la quale ho solo rapporti telefonici…»

«Chi sarebbe questa persona?»

«Il Signor Elia Blumenfeld», disse Nora.

Il vigile andò al telefono interno e chiese: «Qui la sicurezza. Il direttore è presente?»

Passò un attimo.

«C’è qui una signora che desidera incontrarlo, senza appuntamento… Sì, naturalmente… Signora, venga qua, dica il suo nome e motivazioni.»

«Certo. Sono Nora Bietri della Blue Star… Visita privata.»

Passarono diversi minuti, poi tutto d’un tratto la porta dell’ascensore si aprì e comparve un signore, che chiese discretamente: «Dov’è… Quella signora, dov’è…» Poi, venne verso Nora con la mano tesa. «Signora Bietri, che piacere e che sorpresa! Venga, venga…»

Mentre salivano nell’ascensore, egli disse solamente: «La porto nel mio ufficio privato, così possiamo scambiare due parole.»

Entrarono in uno sgabuzzino che conteneva a malapena una tavola e due sedie; nient’altro, a parte, probabilmente, qualche sistema di sorveglianza nascosto. Davanti alle finestre, le tapparelle erano abbassate.

«Ecco», disse il Signor Blumenfeld. «Qui siamo tra di noi». Poi prese la mano di Nora, la sfiorò appena con le labbra, la strinse vicina al cuore e guardandola intensamente negli occhi disse: «Signora Bietri, da dieci anni noi ci parliamo una volta per settimana senza mai aver avuto l’occasione d’incontrarci… Mai avrei osato immaginare la sua deliziosa fisionomia… Sono commosso… La sua visita è una sorpresa. Naturalmente, sappiamo che il Signor Ariel Levi è tra le nostre mura e domani sera saremo tutti presenti al suo concerto, ma lei… non mi aspettavo d’incontrarla! È una benedizione, dopo tutti questi anni!»

«Sì», disse Nora. «la Blue Star…»

E mentre chiacchieravano degli affari e delle rispettive società, Nora si sentì sciogliere sotto lo sguardo del corrispondente che per tanti anni non era stato che una voce… Che tipo! Era un uomo di una sessantina di anni, alto e piazzato, capelli e barba grigi e cortissimi. Portava occhiali enormi con montatura rossa, orecchino nell’orecchio sinistro, enorme anello firmato Cartier. Il più stravagante di tutto era che portava un completo di alpaca, color gris-souris, evidentemente confezionato su misura in Savile Row, sopra una camicia di seta, blu coi pesciolini azzurri.

«Che tipo! Ma che tipo!» pensò Nora che, da sempre, era stata stregata dallo charme di quella voce sensuale. Ora, la voce sensuale aveva anche un volto, con occhi intesi, labbra carnose e un corpo scolpito da discipline sportive esigenti… Non era un bel ragazzo alla maniera di Hollywood; era un uomo maturo, pericolosamente seducente, e Nora pensò che per fortuna il suo soggiorno ad Anversa sarebbe stato brevissimo.

«Io, a questo non potrei resistere», pensò Nora senza nemmeno cercare di capirne la ragione e soprattutto senza essere cosciente di quanto quest’uomo avesse risvegliato in lei il ricordo dell’uomo dal cappotto e dell’impero dei sensi…

Parlarono degli affari e delle trattative in corso. Poi, bruscamente, Nora abbreviò la sua visita e corse al rendez-vous con Ariel, sentendosi terribilmente colpevole, perché ricordò che da qualche parte era scritto: «Colui che guarda la moglie di un altro con concupiscenza ha già commesso l’adulterio.» E sapeva di aver guardato quest’uomo con una concupiscenza che non aveva mai provato prima di allora.

 

Il Signor Blumenfeld fu presente al ricevimento dopo il concerto. Nora salutò graziosamente, ma rimase per tutta la serata al fianco di Ariel.

Tra i fiori che arrivarono in albergo, c’era un’enorme cesta di tulipani gialli. Nora tolse il cellofan e quando capì che non portava la carta del mittente, non ebbe nessun dubbio, nemmeno sul significato dei tulipani gialli. Questa delicatezza era davvero squisita e, quando avrebbe ripreso il suo lavoro in ufficio, alla prima occasione avrebbe fatto sapere che il messaggio d’“amore senza speranza” era stato gradito; deliziosamente gradito…

 

Nella città di Anversa, molto era cambiato e, malgrado l’accoglienza calorosa del pubblico durante i concerti, Ariel decise di non tornarci mai più: là era rimasta una parte della sua vita; la parte più dolorosa, che non voleva risvegliare.

Nel profondo della sua anima, sfilavano le immagini: sua sorella Lea col nastro bianco nei capelli ricci e quella mania dei vestiti di mousseline di seta bianca. Lea era alta e quasi magra e quei vestiti così leggeri le davano un’andatura irreale; sembrava attraversare la vita come una nuvoletta che galleggia nella realtà, senza mai toccarla. Piuttosto che litigare con suo fratello come normalmente succede in tutte le famiglie, lei si ritirava e lasciava che lui cedesse o capisse la meschinità dei suoi capricci. Lea era intelligente, ma da suo padre aveva ereditato troppa fantasia per costringersi a lavori prosaici. Lea era andata in collegio, ne era uscita con una buona educazione e naturalmente aveva continuato la sua strada nel matrimonio e nella felicità della sua famiglia. Suo marito David era tutto diverso. Fin da bambino era appassionato di commercio, affari e via vai. Era diventato un abile commerciante, felicissimo di trovare in Lea l’angelo del focolare. Sarebbero stati una coppia felice e senza storia, se la Storia non avesse deciso diversamente. Perché proprio a loro doveva capitare quella tragedia? Per Ariel era normale che i drammi fossero successi ad avventurieri scapestrati, ma che fossero capitati a Lea… Quello era il colmo dell’assurdo.

 

Anversa riaccese molti ricordi. Ariel rivedeva suo padre seduto davanti al suo tavolo, con la grossa lente stretta tra la guancia e il sopracciglio, con una smorfia buffa perché da una parte sembrava ridere e dall’altra aveva un’espressione serissima mentre esaminava le pietre preziose, il loro taglio, la loro purezza, cercando spietatamente ogni minimo difetto.

In un secondo tempo, prendeva una lente speciale tra l’indice e il pollice della mano sinistra, avvicinava la lente all’occhio destro tenendo comunque l’occhio sinistro aperto per non stancarsi troppo. Nella mano destra teneva il diamante stretto tra le due aste di una pinza. Ogni tanto, gli capitava di poter dire con profondo godimento: «Ja, ja! Top Wesseltonongetwijfeld [15]»

Più raramente, succedeva che non diceva nulla, ma senza alzare il suo sguardo scrutatore dalla pietra, mormorava: «Mmh, mmh…» E quando ne era proprio sicuro, aggiungeva sottovoce: «Mmh… Dat is het... River… Mmh… Ja, ja[16]»

E quando purtroppo una pietra aveva un difetto, non lo diceva in fiammingo, ma in francese, come se il francese fosse stato più dolce per annunciare la delusione: «Très, très petites inclusions[17]» Oppure - e allora scuoteva la testa con rammarico: «Piqué imparfait[18]ai, ai, ai… Petite fêlure de clivage[19] Ai, ai…»

Ariel si ricordava le parole magiche che suo padre pronunciava a proposito della lente, come un incantesimo, che lui avrebbe capito solo decenni più tardi: «aplanétique et acromatique[20]». E quando prendeva in mano la pinzetta, diceva con enfasi: «les brucelles[21]…» E Ariel non capiva come mai una piccola pinzetta potesse chiamarsi come una grande città. Allora, non aveva apprezzato l’ambiente straordinario del tavolo da lavoro di suo padre, ricoperto da tesori raffinatissimi: le buste di velluto nero, la carta velina nella quale ogni pietra era avvolta, le meravigliose apparecchiature ottiche, il microscopio, gli strumenti di misura, i calibri, gli indicatori di carati…

Ricordò i diamanti fissati nella pasta fatta di colla e gesso e il disco che ad alta velocità procedeva lentamente nel taglio. Il gesto quasi sacerdotale per sfaldare la pietra con un unico colpo di martello sulla lama da clivaggio; la straordinaria destrezza con la quale la pietra rotonda veniva appoggiata sul disco orizzontale, che limava con eccezionale precisione le quattro prime faccette della corona, poi le quattro prime faccette della culata e poi una nuova faccetta su di ogni nuovo angolo, fino ad arrivare a trentadue sulla corona e ventiquattro sulla culata. In tutto, cinquantasette faccette per scomporre la luce.

Stesso rituale, stessa esigenza, stessa perfezione per pietre grandissime come per quelle più minute, tutte garantite dallo stesso label di qualità: l’Antwerp Cut, fondato su cinque secoli d’esperienza!

Ad Anversa, non venivano lavorati solo i diamanti, ma anche tutte le altre pietre preziose degne di ornare le creazioni dei più grandi gioiellieri, le corone di imperatori e principesse, e di popolare altresì i sogni di ogni persona sensibile alla perfezione concepita nel grembo della terra e nata tra mani esperte.

Invano suo padre aveva tentato di attirarlo, ma Ariel vibrava sotto la magia del suono, non della luce. Quante volte suo padre l’aveva chiamato per mostrare quel piccolo raggio di luce incolore filtrare attraverso un prisma e scomporsi in un ventaglio di colori meravigliosi.

Suo padre amava ricordare che «Disse Dio a Noè: “Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra”. Vedi, figlio mio, l’arcobaleno dopo il diluvio è come una cintura di diamanti attorno alla terra e in un solo piccolo diamante splende tanta luce quanto in un enorme arcobaleno. Non è forse questa la Luce di Dio?»

Ma allora, Ariel era troppo giovane, troppo in preda alle ribellioni della sua adolescenza. Aveva disprezzato quelle vecchie lagne di Dio, quelle preghiere, quei testi noiosi e quei noiosissimi genitori che dovevano sempre predicare. Oggi capiva, ma oggi non era rimasto niente ed era troppo tardi per dire a suo padre quanto l’avesse amato. Era troppo tardi. Aveva avuto le sue occasioni e le aveva lasciate passare…

Ariel seppelliva nel suo intimo un terribile senso di colpa… Quando avrebbe potuto dire a sua madre, a sua sorella e a suo padre quanto li amava, non l’aveva fatto. Erano morti senza saperlo. Questo pensiero girava e rigirava nella sua mente. Quell’essere irrimediabilmente troppo tardi era insopportabile.

Mentre camminava con Nora nelle stradette di Anversa, Ariel sprofondò nella tristezza dei suoi ricordi e dei suoi rimpianti. Ritornare ad Anversa non fu felice.

 

«Tu sei mai andato alla tomba dei tuoi genitori?» chiese Nora.

«Non hanno una tomba… Non so nemmeno né come né dove sono stati sepolti…»

«Vorrei andare fin là», disse Nora senza osare precisare, né pronunciare quelle parole terribili.

«Non sono mai andato», disse Ariel. «Suppongo che almeno una volta nella mia vita sia mio dovere andarci…»

 

Due giorni dopo, mentre si sedevano nella macchina, Ariel disse semplicemente all’autista: «Per favore, ci porti al campo di concentramento di Breendonk…»

Lentamente, si avviarono sulla strada verso Mechelen e Willebroek. Era una giornata grigia; la nebbia fredda contrastava col sole autunnale dei giorni precedenti. Il vento che soffiava continuamente da ovest portando le nuvole dal mare aveva piegato le lunghe file parallele di pioppi, tutte nella stessa direzione. Le foglie gialle cadevano e volteggiavano seguendo i capricci delle raffiche e ogni tanto piovigginava.

Nora e Ariel rimasero in silenzio. La campagna aveva perso i suoi colori lussureggianti e non rimaneva più che qualche campo di granoturco. Mucche bianche e grossi cavalli indifferenti al traffico pascolavano tranquillamente nei prati chiusi da siepi o da semplici recinti di fili di ferro sorretti da vecchi pali di legno, diventati neri a causa della pioggia.

La macchina rallentò e si avviò su una stradetta laterale. Era lì: il Forte di Breendonk, completamente circondato da filo spinato e da mirador[22] costruiti con piccoli mattoni rossi. Ariel e Nora scesero dalla macchina. L’autista andò ad aspettarli sul posteggio.

Entrarono nella baracca che serviva da hall d’entrata. Diversi tavoli presentavano modellini della topografia del Forte per spiegare la disposizione dei diversi componenti. Ai muri, erano appese fotografie e riproduzioni di piani e disegni. Sul fondo, dietro a uno sportello, attendeva uno dei custodi che vendeva i biglietti d’ingresso, le cartoline e i libri.

«Due biglietti», chiese Ariel.

«Ecco», rispose l’impiegato. «Oggi, non c’è ancora nessuno. Avete tutto il tempo per visitare liberamente.»

«Quanto tempo dura la visita?» chiese Ariel.

«Si deve contare un minimo di due ore, ma c’è abbastanza da vedere per starci anche cinque ore; non preoccupatevi, prendetevi il tempo necessario.»

Uscirono dalla baracca e si avviarono verso il Forte.

 

Il Forte era un immenso bunker costruito tra il 1906 e il 1914 e faceva parte di una linea di forti destinati a difendere Anversa. Durante la Prima Guerra Mondiale, cadde tra le mani degli invasori tedeschi e, durante la Seconda Guerra Mondiale, diventò Auffanglager[23] nelle grinfie delle SS.

Non era molto alto, era tozzo, quadrato: un’enorme massa di cemento armato con muri spessissimi e piccole finestre. L’entrata antistante sembrava la testa di un mostro; una spaventosa tartaruga con la bocca spalancata tra due occhi profondi. I bastimenti che seguivano assumevano la forma del carapace duro, impenetrabile, pesante sopra i suoi segreti. Attorno al Forte, scorreva un largo fossato. L’acqua nera fremeva nel vento. Oche bianche volarono via, qualche anatra e una gallinella d’acqua continuarono a nuotare.

Ariel e Nora si avviarono sul ponte sopra il fossato, entrarono. Davanti a loro, si apriva un lunghissimo tunnel, dalla volta bassissima e scura, con deboli lampadine. Il pavimento era fatto di dadi e diversi pesanti cancelli si succedevano anche nei corridoi laterali. Una targhetta recitava: «Rispettate questo luogo, nel quale uomini sono morti per permettere a voi di vivere nella libertà.».

A destra, una saletta lugubre portava il nome di “Casinò”, il bar delle SS. In fondo al tunnel, cominciava la “caserma”.

L’aria era pesante; puzzava di umido, di muffa. Anzi, aveva un odore di topi e la scarsa luce sapeva di morte. Nora prese il braccio di Ariel. Le venne un gran caldo, poi le girò la testa e si sentì svenire.

«Non posso… Non sono capace di andare avanti… Devo uscire…»

Ariel non disse niente; strinse Nora vicino a sé e tornarono sui loro passi.

Tornati nella hall, Nora si sedette. Era pallida. Poi appoggiò la testa indietro contro il muro e pianse, mentre Ariel si sedeva silenzioso vicino a lei, sconvolto pure lui.

«La Signora non sta bene?» chiese l’impiegato che era accorso.

«È troppo duro», disse Ariel, che dovette fare uno sforzo terribile per rimanere dignitoso e non crollare pure lui. «Non siamo abbastanza coraggiosi per andare avanti…»

«Ma non siete nemmeno entrati… Voglio rimborsarvi i biglietti».

«No. È un piccolissimo contributo… Ma mentre la mia compagna si riprende, mi spieghi lei come sono andate le cose…»

«Di solito», disse l’impiegato, che era abituato a recitare durante le visite guidate. «Si parla dei campi di Auschwitz, Dachau o Buchenwald, che fanno molta impressione perché erano grandi e ci sono successe cose spaventose. Di Breendonk non si parla mai e invece in questo piccolo campo è successo un concentrato di tutti gli orrori degli altri campi. Qui, molti prigionieri sono stati torturati e massacrati dopo essere stati denunciati dai propri compatrioti… Certi guardiani erano fiamminghi “idealisti”, che collaboravano con le SS… Non fa piacere doverlo ammettere, ma ci sono stati collaborazionisti sì, Belgi che hanno collaborato coi nazisti per torturare e uccidere altri Belgi…»

«Ci sono stati prigionieri ebrei?» chiese Ariel.

«Sì, anche Ebrei. Partigiani e prigionieri politici. Non si sa nemmeno quanti morti ci siano stati. Gli elenchi sono incompleti, ma una trentina sono stati impiccati, un centinaio sono morti picchiati, annegati, di fame o a causa della tortura. Duecentoquaranta furono fucilati e più di duemila prigionieri sono stati spediti verso la morte negli altri campi».

Poi, l’impiegato aprì un libro.

«Vede, qui, la forca. E su questa foto, i pali ai quali erano legati i prigionieri prima di essere fucilati… Ma Breendonk è principalmente, se si può dire, “celebre” perché era soprattutto un campo di tortura… Si figuri che lasciavano aperte le porte, così che le urla dei torturati echeggiassero in tutto il forte».

Nora, per discrezione, si era alzata ed era andata a leggere le spiegazioni dei pannelli didattici che coprivano i muri. Ariel rimase con l’impiegato.

«Quando è cominciato?» chiese Ariel.

«Il 10 maggio del 1940, i Tedeschi hanno occupato il Belgio. Lei chiedeva degli Ebrei… Si stima che nel ’40 ci fossero cinquantaseimila Ebrei in Belgio. Il 14 aprile 1941, è avvenuto il famoso pogrom d’Anversa e, a partire dal 27 maggio del ’42, gli Ebrei sono stati obbligati a portare la stella gialla. Erano “identificati, registrati, marcati, consegnati al loro domicilio e pronti per la soluzione finale”. Dal 4 agosto ’42 al 31 luglio ’44, più di venticinquemila prigionieri sono stati deportati da Mechelen ad Auschwitz; sedicimila sono stati massacrati immediatamente al loro arrivo. Solo ed esattamente milleduecentosette sono sopravvissuti… Questo campo non era l’unico; se Breendonk era il simbolo del terrore nazista, la Caserma Dossin a Mechelen era veramente l’anticamera della morte… Morte ad Auschwitz. Adesso ci hanno allestito un museo della Deportazione e della Resistenza degli Ebrei in Belgio. I partigiani hanno avuto la loro, ma certo gli Ebrei sono stati malmenati.»

«Lei s’interessa di storia?»

«Per forza, per via della mia professione: qui vengono molti visitatori, anche scuole… E poi… Ma di questo di solito non ne parlo; è una cosa privata. Mio padre è stato prigioniero come soldato, in Austria, a Kaisersteinbruch, vicino a Lienz… Un altro campo del quale non si parla mai. Quando mio padre è tornato, perché lui ha avuto la fortuna di tornare, pesava trenta chili: il peso del suo scheletro. Ha impiegato anni per riprendersi del tutto… Adesso, ai giovani si dice che bisogna dimenticare, che i giovani devono costruire il futuro e perdonare. Io non sono capace di dimenticare. Ma voi non siete di qua… Signor?»

«Levi. Ariel Levi. Sono nato ad Anversa, ebreo…»

«Oh! Mi scusi!» disse l’impiegato sorpreso. «Non dovevo dare questi dettagli raccapriccianti…»

«No, anzi, la ringrazio. Da solo non avrei capito… I miei genitori sono morti qua… Almeno, è qua che si perdono le loro tracce.»

«Sì, difatti si può essere sicuri che siano entrati qua, ma sul dopo non si può essere sicuri di niente… Qui avranno fatto una brutta fine. Se sono stati mandati ad Auschwitz, non sarà stato meglio…»

«Erano Ebrei e in più partigiani…»

«Dio mio», disse l’impiegato. «Avevano proprio tutto contro di loro… E per le SS, doppio motivo di accanimento…»

«Saperli morti è molto doloroso, ma sapere che sono stati torturati, questo per me è insopportabile… Mia madre era così delicata, quasi fragile… E mio padre era… Come posso dire? Mio padre era alla sua maniera un artista… Anche mia sorella e la sua famiglia…»

Arrivò l’altro impiegato e Nora comprò diversi libri, cartoline e riproduzioni di disegni che avrebbe mostrato a Zio Josef e ai suoi amici.

«Potresti sostituirmi un momento?» chiese il primo impiegato all’altro.

«Qui vicino c’è un ristorante», disse. «Permettetemi di offrirvi almeno un caffè… Credo che ne abbiamo bisogno.»

 

Si sedettero in disparte e attesero il caffè, poi il custode si avvicinò e abbassò la voce: «Sa, Signor Levi, devo dire una cosa terribile della quale non parlo mai. Mio padre è stato prigioniero, però è stato liberato anticipatamente, dopo solo un anno, perché era alto, biondo, dagli occhi azzurri, era fiammingo e prima della guerra simpatizzava col movimento fascista Rex di Leon Degrelle… Non oso parlare di queste cose perché ho bisogno del mio posto di lavoro. Difatti, se sono custode in questo campo, è per reazione contro i miei genitori… Lei ed io siamo legati: i suoi genitori sono stati le vittime, i miei genitori stavano dalla parte dei carnefici…»

«Ma questo estremismo esiste ancora oggi?» chiese Ariel, incredulo e sconvolto.

«Sì… Anzi, è un veleno che continuerà ancora a lungo a dividere le famiglie. È un tema al quale non si osa nemmeno accennare. Ogni tanto appaiono delle croci uncinate tracciate di qua o di là. Tutti sanno, nessuno parla e nessuno dimentica…»

Per i due uomini fu come un ascesso che, finalmente arrivato a maturazione, si apriva, si vuotava e magari sarebbe diventava meno doloroso.

 

Quando quella giornata fu conclusa, Ariel e Nora chiusero l’argomento lasciandolo avvolto di rispetto, di tristezza, ma anche di profonda delusione per la natura umana.

Nora riprese a pensare alle emozioni suscitate dall’incontro col Signor Blumenfeld. Certo, dopo tanti anni vissuti con Ariel, il fascino di quell’uomo l’aveva sconvolta. Ma ora, dopo la visita al campo di concentramento, ebbe la certezza che non avrebbe avuto mai più un’altra relazione: il legame con Ariel andava fino nel più intimo della loro anima. Con Ariel, aveva capito e condiviso la sofferenza. E questo era più forte di qualsiasi altro sentimento.

 

Andarono di città in città, di concerto in concerto e, mentre Ariel era sul palco e suonava, la “persona giusta” entrava nel camerino al momento giusto e compiva il gesto giusto… Gesto che né Nora né Ariel avrebbero voluto indovinare.

A loro insaputa, erano diventati dei corrieri efficaci, rapidi e sicuri. Solo più tardi, avrebbero capito che in questo periodo avevano lavorato molto e bene. Allora, avrebbero provato una grande soddisfazione.

«Ciò che vale la pena d’essere fatto, vale la pena d’essere ben fatto», diceva Don Alberto. E così avevano fatto.

Più vivevano insieme, più il passato che reprimevano nel fondo della loro anima li legava saldamente, perché si stringevano l’uno all’altro per poter trovare la forza di far fronte alla realtà. La bellezza della musica era talmente straordinaria che non avevano nemmeno più bisogno di parlare. Nella musica era scritto tutto, era detto tutto, era espresso tutto. Ariel non chiese mai a Nora che cosa le fosse successo da giovane. Nora non accennò mai più alle tragedie della guerra che non avrebbero potuto cancellare dalle loro menti. Erano diventati una vecchia coppia.

 

Quando tornarono a New York, furono invitati alle riunioni con gli amici di Zio Josef. Raccontarono il loro viaggio. Nora fece il solito resoconto dettagliato e finì per dire, pensierosamente: «Quella visita mancata al Campo di concentramento di Breendonk… Ariel ed io abbiamo riflettuto molto sul perdono… Insomma, ci siamo chiesti se sia possibile dimenticare e perdonare…»

«Se posso», intervenne il Dottor Stern. «Vorrei esprimere un parere prettamente scientifico, senza nessun coinvolgimento sentimentale né filosofico, nemmeno opinione personale… Ecco, la memoria è un fenomeno complesso, perché il cervello è uno strumento stranissimo. Difatti, quando un’informazione viene captata dai nostri recettori, diciamo dai nostri sensi - l’olfatto, la vista, l’udito, il tatto e così via - ma addirittura da sensazioni, impressioni e via dicendo, questa informazione è trasmessa al cervello, dove viene impressa, registrata… irrimediabilmente e indelebilmente… Tu vedi qualcosa; nel momento in cui questa immagine colpisce il tuo occhio, viene istantaneamente incisa nel cervello e non ne esce più. Magari anche senza che noi ce ne rendiamo conto, un’immagine fuggitiva, un flash, un blitz… Basta: è impresso nel cervello, c’è e non ne uscirà mai più. Ed è così per tutti i nostri sensi. Mangi una mela? Ebbene, quel sapore va registrato nel cervello fin quando questo sarà in vita. Dopo la morte, non si sa bene come vadano le cose… Comunque, quello che è certo è che… Dov’ero rimasto? Ah, sì… Dunque, un’impressione viene trasmessa al nostro cervello tramite i nostri nervi sensibili, per dirla in parole povere, e quindi è registrata. Ed è qui, cari miei, che sta la fregatura! È fisiologicamente impossibile dimenticare, perché è inciso nel cervello. Per dimenticare davvero, si dovrebbe tagliare via quella parte di cervello, o distruggere quei nervi, eccetera, eccetera…»

«Stern!» gridò un altro signore alzando le braccia al cielo. «Sei incorreggibile! Io dimentico trentamila cose al giorno. Dimentico dove ho posteggiato la macchina, che ora è, gli appuntamenti, e addirittura dimentico che sono sposato!»

«È ben quello che dicevo», replicò Stern aggiustando i suoi occhialini rotondi con una smorfia ridicola, come un coniglio che agita il suo naso davanti a un dente di leone. «La memoria è traditrice. Anzi, è perfida, perversa: non è che qualcosa viene cancellato dalla tua memoria; è che ogni tanto l’informazione richiesta non trova la porta giusta per uscire, ma può riemergere all’improvviso, nel momento che meno ti aspetti… Stai due ore a pensare come si chiamava quel tizio; il suo nome è sulla punta della tua lingua, ma non esce e poi la stessa sera, mentre stai cantando sotto la doccia, ecco che ti salta in mente che quello si chiamava Cohen… Quel Cohen era nei Circuits réverbérants”. Et j’en passe et des meilleures[24]… Allora, la Signora ha perfettamente ragione: la questione non è di commemorazioni o pellegrinaggi, o tutte quelle balle… La grande domanda è: se non è possibile cancellare dalla nostra memoria, è possibile perdonare? Signori, vi lascio alle vostre meditazioni. Per quanto riguarda il dimenticare di essere sposato, è un banale caso d’offuscamento volontario rilevato dalla psicanalisi… Colpisce il novanta per cento degli esseri umani, dopo tre anni di matrimonio.»

Seguì un silenzio impressionante. Tutti si guardarono perplessi e increduli. Il Dr. Stern si versò un altro bicchiere di cognac, si sedette confortevolmente nella poltrona e ci sprofondò mentre toglieva gli occhialini. Col pollice e l’indice si strofinò gli occhi schiacciando la sella del suo naso e godendo intensamente dello scompiglio gettato sui presenti. Per conto suo, borbottò: «Anzi, conviene perdonare?»

Poi, si parlò del nuovo affare che avrebbe fatto scalpore: delle macchine tessili erano state comperate in Francia e, una volta montate in un posto segreto nel deserto del Negev, si trasformarono in un reattore nucleare.

 

1960

 

Quando il Generale De Gaulle parlò di “Israele nostro amico, nostro alleato”, gli amici dello Zio Josef se lo ripeterono come una buona battuta. Qualcuno aggiunse: «Come diceva Letizia Bonaparte, la madre di Napoleone: “pourvu que ça dure…[25]».

E tutti sorrisero…

 

La vita riprese il suo corso normale.

Col passare degli anni, il piccolo cane Chai era diventato più tranquillo ed era riuscito a far accettare da tutti che lui ormai avesse, in salotto, fatta sua la poltroncina di seta gialla con le ghirlande di fogliame verde e i fiorellini azzurri. Si sdraiava appoggiando la sua testina sul bracciolo imbottito e, ogni tanto, faceva dei grandi sbadigli rumorosi. Ormai, anche lui stava diventando vecchio. Tutte le mattine, Ruth era la prima ad alzarsi e per prima cosa andava ad accarezzare il cane. Poi andava ad aprire la porta del giardino perché lui potesse farsi la sua passeggiatina.

Una mattina, Chai non si alzò. Si era addormentato e nel sonno se n’era andato in paradiso. Il cagnolino era diventato un membro della famiglia e la sua morte provocò una profonda tristezza. Lo seppellirono nel fondo del giardino. Ariel piantò sulla piccola tomba un’azalea gialla come la poltroncina che Chai stesso si era scelto e aveva tanto amato. Così, ad ogni primavera, il ricordo del prezioso piccolo compagno avrebbe ripreso a fiorire con fiori belli e allegri come era stato il suo carattere.

«Comprerai un altro cane», disse dolcemente Sara.

«No», rispose Ariel. «È come dice Baudelaire: “Quand notre coeur a fait une fois sa vendange…”[26]. Quando il nostro cuore ha fatto una volta la sua vendemmia… No, mai nessuno potrà occupare il posto di un così grande amore.»

 

La Blue Star aveva rinforzato i suoi rapporti coi diamantari belgi, che erano direttamente in relazione con le miniere del Sud Africa e del Kassai nel Congo Belga, dove l’amico Rosenbaum si era stabilito. Invece, i fratelli Capeluto si erano stabiliti a Jadotville, nel Katanga, la zona delle grandi miniere di rame, cobalto e uranio gestite dalla Union Minière du Haut Katanga. Un passo dopo l’altro, le pedine occuparono il loro posto sulla scacchiera. Ma solo quelli che dirigevano il gioco lo vedevano dall’alto e capivano le mosse. Le pedine subalterne si muovevano completamente ignare. Ognuno era convinto di essere un tassello importante e sapeva che, al momento in cui il puzzle si sarebbe composto, avrebbe capito quale era stato il suo ruolo.

 

Importanti avvenimenti politici si susseguirono in Algeria, in Polonia e in Ungheria, ma per Ariel nessuno ebbe l’importanza della première del concerto per violoncello che Shostakovich aveva scritto per Mstislav Rostropovich. Poi, Rostropovich fece una tournée in Europa accompagnato dall’orchestra di Filadelfia guidata da Eugène Ormandy. Ariel fu assiderato dal potente sol mi si si-bemolle iniziale. Quello lo doveva suonare; gli scendeva veramente fino in fondo alla spina dorsale ed egli seguì la tournée di città in città… Un giorno, si trovò a Zurigo, quasi senza sapere come aveva fatto per arrivarci: era completamente allibito, ipnotizzato da quella cadenza “pom pom pom pooom” che rivaleggiava vittoriosamente con l’altro celebre “pom pom pom pooom” di Beethoven[27].

Per fortuna, Nora non l’aveva accompagnato, così poteva lasciarsi trascinare dall’ebbrezza…

 

A Zurigo, ovviamente, aveva preso contatto con la famiglia Edelmann, che lavorava nel mondo bancario e aveva stretti legami con la Blue Star. Ariel fu accolto come il figlio degli associati, ma velocemente la sua sensibilità e il suo comportamento da artista svampito attirarono la simpatia intimistica invece dell’atteggiamento strettamente professionale. Una sera, dopo la cena, si parlò delle rispettive famiglie e Ariel, ancora sotto lo choc dello straordinario “pom pom pom pooom” di Shostakovich e anche turbato dalla mancanza di Nora e dall’eccesso di champagne, si lasciò andare a considerazioni troppo personali.

«Mi sono rassegnato ad ammettere che i miei genitori siano morti nel campo di Breendonk. Ma in realtà non si sa né come, né dove, siano morti. E anche mia sorella che si era sposata con un Coin di Venezia è scomparsa, e con lei il marito David e il figlioletto Joshua.»

Ariel non riuscì a controllarsi; aveva bevuto troppo di quello champagne al quale decisamente non riusciva a resistere e pianse in pubblico. Un vero diluvio di lacrime, per la prima volta nella sua vita. La famiglia Edelmann aveva vissuto i suoi drammi e, lontana dal formalizzarsi, capì lo sfogo imprevisto. La Signora si sedette con lui e gli disse: «Anche noi abbiamo perso i nostri amici e parenti. Di tanti si perdono le tracce appunto nei campi. Io sono stata liberata, ma guardi: ho ancora la matricola tatuata sull’avambraccio. Mi creda, noi la capiamo…»

La Signora Edelmann tese il suo braccio sinistro, rimboccò la manica ed era lì: una lunga cifra tatuata con inchiostro blu nel lato interno dell’avambraccio, proprio nella parte più delicata e sensibile. Ariel non riuscì a leggere, non perché la cifra non fosse scritta chiaramente, anzi, la calligrafia era bella rotonda e ben leggibile. Non riuscì a leggere perché gli veniva il voltastomaco, lui che non osava ammalarsi perché aveva fifa d’andare dal medico, che forse gli avrebbe fatto una banale puntura. Quel tatuaggio era stato fatto proprio nella carne più tenera del braccio di una donna che allora era stata soltanto una ragazzina. Quella barbarie gli dava la nausea. Gli veniva da vomitare. Non lesse la cifra, ma sapeva che significava sei milioni… Un orrore smisurato. Oltre un certo limite, c’è solo l’inconcepibile, e questo era inconcepibile. Come aveva potuto un essere umano fare una cosa simile a un altro essere umano? Ariel non cercò nemmeno di reprimere un profondo lamento; perse ogni autocontrollo e finalmente fece un’autentica crisi isterica, ripetendo «mia sorella Lea, mia sorella e il bambino», disperato all’idea delle atrocità che forse aveva dovuto subire quella ragazza così delicata ed evanescente nei suoi vestiti di mousseline bianca.

«Sì», disse la Signora Edelmann. «Se pensa al rispetto per la vita nella filosofia buddhista o addirittura agli Jain che mettono un tessuto davanti alla bocca, per essere sicuri che non uccideranno nemmeno un moscerino mentre respirano, allora si può misurare molto chiaramente la barbarie che abbiamo dovuto affrontare.»

«Avete provato a cercarla?» chiese il Signor Edelmann per interrompere i ricordi troppo penosi.

«Sì e no», disse Ariel lamentevolmente. «Mio Zio e qualcuno della società hanno provato, ma niente. Si perdono le sue tracce a Stresa, in Piemonte…»

«E la vostra casa in Belgio? L’atelier? L’attrezzatura? Suo padre avrà avuto senz’altro una cassetta di sicurezza in banca. Non teneva tutti i diamanti nel laboratorio o nell’armadio blindato di casa? Avrà avuto senz’altro forti assicurazioni… Che cosa è successo con tutto quanto?»

«Non ne so niente», sospirò Ariel. «Loro sono stati arrestati, io sono fuggito. Non ho più sentito niente, è tutto andato perso…»

«Ma questi beni sono vostri e qualcuno se ne sarà appropriato. Signor Levi, vale la pena indagare ed esigere la restituzione.»

«Non saprei. Difatti io ho abbandonato tutto… Certo, qualcuno l’avrà trovato. Nessuno mi ha ricercato per restituirmi i beni della mia famiglia… In realtà, toccava a me ritornare e far valere i miei diritti. Adesso ormai è tardi».

Mai Ariel avrebbe avuto il coraggio di chiedere un’inchiesta, di testimoniare, di ricordare: sarebbe stato lungo, costoso e straziante… Poi sarebbero seguiti processi, avvocati, lotte furiose, scandali… No, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Non aveva nemmeno avuto la forza di passare nella strada dov’era stata la sua casa.

Ariel perse ogni dignità e, finalmente, fu completamente ubriaco. Si dovette sostenerlo per condurlo in una camera da letto.

«Questo gli avrà fatto bene», disse la signora Edelmann. «Questo povero ragazzo è riuscito a sputare il rospo. Chissà cos’ha sofferto a reprimersi. Questi Levi di New York spingono il senso dell’amor proprio all’estremo invece di aiutare a esorcizzare i vecchi demoni. Se va avanti così, diventerà psicopatico.»

Il giorno seguente, Ariel si alzò con un tremendo mal di testa e, imbarazzato da una vergogna terribile, tentò in tutti i modi di scusarsi.

«Non è necessario», disse il Signor Edelmann. «Ci siamo passati anche noi e ci capita ancora… Anzi, è un bene che si sia confidato con noi. Dopo la guerra, un gruppo di sopravvissuti che si chiamarono Nokmin, i vendicatori, hanno dato la caccia ai nazisti e li hanno fatti fuori uno dopo l’altro, senza processi né scrupoli. È così che hanno scovato il criminale Eichmann. Ecco, i servizi segreti e tutti quelli che non vogliono dimenticare hanno organizzato ricerche molto accurate. Tramite la mia banca e la nostra comunità, ho molti contatti. Non posso garantire e non sarà di certo una cosa veloce, ma farò presente il suo caso e quello di sua sorella. Giustiziare i criminali di guerra è urgente, prima che muoiano di una morte tranquilla e naturale. In seguito, ci sarà anche tempo per indagare sui casi privati. Non prometto niente, ma proverò…»

Ariel tornò a New York con la partitura del concerto di Shostakovich e la certezza di ritrovare Lea.

 

 

Un nuovo dramma colpì gli amici belgi della famiglia Levi. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, molti Belgi, e tra loro molti Ebrei, erano partiti per il Congo, che allora era la loro colonia. Si erano costruiti una nuova vita, il commercio era fiorente, il paese meraviglioso e le prospettive per il futuro erano piene di promesse. Alla fine degli anni ‘50, la politica decise però diversamente.

Il 24 agosto 1958, il turbolento Generale De Gaulle esclamò a Brazzaville: «L’indipendenza, chiunque la vorrà, potrà prenderla subito. La metropoli non si opporrà!» Dall’altra parte del fiume, a Léopoldville, il Mouvement National Congolais presidiato da Patrice Lumumba prese la palla al balzo e, il 28 dicembre, dichiarò davanti a un’assemblea di settemila persone: «Vogliamo l’indipendenza per il 1960!»

 

Quindi, il 30 giugno 1960, i Congolesi ricevettero davvero l’indipendenza e il paese sprofondò nell’anarchia più spaventosa. All’epoca della vita tribale, le guerre si svolgevano secondo i riti ancestrali, con frecce e lance; ora stavano arrivando i Kalashnikov. Le diverse etnie ripresero le vecchie lotte e si scatenarono in crudeltà spaventose. I Bianchi dovettero fuggire. Ci furono massacri e una volta di più i paracadutisti dovettero salvare i civili. Una volta di più, questi civili dovettero fuggire e abbandonare tutti i loro averi nella tormenta… Una volta di più avrebbero dovuto ricominciare da zero e tra loro c’erano tanti amici e parenti della famiglia Levi.

I drammi erano infiniti. Una sera, durante una delle solite riunioni a casa della famiglia Levi, un associato che tornava dal Belgio raccontò quanto era successo a un suo parente.

Il Capitano Guy Vandam fuggì in macchina con sua moglie Nadine e i loro figli Patrick e Bruno da Elisabethville, che era in fiamme, verso la Rhodesia. Non avevano potuto portare con loro niente, salvare niente; fuggivano per salvare la vita. Vivevano in Congo da più di dieci anni e ci avevano costruito la casa, comperato i mobili e i tappeti, coltivato i fiori e gli alberi nel giardino. I figli andavano a scuola e non avrebbero mai pensato di dover andare via. All’improvviso, tutto era cambiato. I politici avevano promesso che tutto sarebbe andato bene, che tutti i provvedimenti erano stati presi, che la situazione era sotto controllo. Invece, in pochi giorni, era successo il finimondo. Ora erano di nuovo sulla strada dell’esilio. Appena prima del confine, caddero in un’imboscata. Guy accelerò.

«Giù, tutti giù, a terra nella macchina!» gridò a sua moglie e ai suoi due figli mentre tentava di farsi strada.

I colpi di fucili partirono da ogni parte e lui accelerò come un pazzo pur di forzare il blocco, perché se mai fossero caduti nelle mani dei “ribelli”, per sua moglie e i suoi figli ci sarebbero stati la tortura, lo stupro, la morte atroce e per lui, capitano dell’esercito belga, sarebbe stato ancora peggio… I “ribelli” avevano poche armi automatiche; usavano qualche fucile, ma soprattutto il machete…

Guy accelerò ancora. Il fondo stradale in terra battuta era tremendo, ma non c’era alternativa. La macchina rimbalzava come impazzita. Passare, passare! Arrivare fino al posto di confine. Il confine era a pochi passi, e poi la salvezza. Partì una raffica di mitra, che colpì la macchina a mezza altezza e lasciò un tratteggiato dal faro anteriore fino al fanalino posteriore. E poi erano passati; davanti a loro, la libertà e la sicurezza.

«Ah!» gridò Bruno, il figlio minore. Seguì il silenzio.

Dopo qualche tempo, Patrick disse: «Mamma, Bruno non si muove… E c’è sangue…»

Non poterono fermarsi. Anzi, non potevano nemmeno rallentare, perché arrivavano al posto di confine della Rhodesia.

Guy accelerò ancora. La macchina sbalzava in tutte le direzioni, la polvere di laterite turbinava intorno a loro come un ciclone e finalmente comparve la dogana.

Si fermarono, mostrarono i passaporti, ma non osarono dire niente, per la paura di essere ancora ritardati. Poi poterono ripartire; erano in Rhodesia e qui erano al sicuro.

Quando Guy fermò la macchina, scesero e videro la linea di perforazioni lasciate dai colpi di mitra nel fianco destro della macchina. Nadine scese anche lei dalla macchina. Erano tutti ricoperti di polvere rossa. Nadine aprì la portiera posteriore. Il corpo di Bruno cadde fuori dalla macchina. Era bagnato di sangue. Il bambino non si muoveva, non si lamentava; respirava ancora, viveva ancora… Nadine lo prese tra le braccia, cercò la ferita nella pancia che sanguinava, si tolse il foulard, ne fece un tampone e lo applicò sulla ferita per fermare l’emorragia. Patrick guardò esterrefatto il suo fratellino, ma non disse niente. Risalirono in macchina perché l’unico modo per salvare il bambino era arrivare in tempo alla missione, dove c’erano anche un dispensario e un medico. Partirono di nuovo a grande velocità sulla strada in terra battuta che le piogge tropicali avevano ridotto allo stato di una pista rudimentale.

Nadine teneva suo figlio tra le braccia. Con una mano gli accarezzava la fronte, con l’altra teneva saldo il tampone sulla ferita… Poi sentì che il bambino smetteva di respirare. E poi il suo cuore smise di battere. Non aveva più ripreso conoscenza, non aveva più parlato… Nadine sperava ancora di arrivare alla missione. Era stato allora che scoppiò una gomma della vecchia automobile. Si fermarono nella nube di polvere. Nadine capì che non sarebbero mai arrivati in tempo.

«È morto», disse semplicemente. Stettero in mezzo alla strada. La macchina con una gomma a terra, Patrick sconvolto, Guy totalmente annientato e Nadine che teneva in braccio il suo bambino morto.

«Bisogna seppellirlo», disse Nadine. Scesero dalla strada e fecero qualche passo nell’erba alta e brulla della savana. Non avevano arnesi. Con un pezzo di legno e con le mani scavarono una piccola depressione ai piedi di un termitaio. Nadine ci depositò il suo bambino. Poi lo coprirono di polvere e di sassi perché le iene non potessero dissotterrarlo…

 

Nadine era ebrea e aveva passato gli ultimi tre anni della Seconda Guerra Mondiale nascosta. I suoi genitori erano stati deportati e non erano tornati. Gli ultimi due anni della guerra, li aveva passati in una cantina della Rue Fossé aux Loups, a Bruxelles. Poi aveva incontrato Guy, un giovane e promettente militare. Si erano sposati ed erano partiti per il Congo Belga, per una nuova vita, per sempre… Ora sarebbero scesi a Durban o a Cape Town, avrebbero preso una nave e sarebbero tornati in Belgio, ancora una volta senza più niente: né futuro, né soldi, né posto dove andare… Sarebbero stati rifugiati nella loro patria, sarebbero stati chiamati “i rimpatriati” e il loro bambino sarebbe rimasto sepolto malamente da qualche parte lungo il tredicesimo parallelo a sud dell’equatore.

Ancora una volta, avrebbero dovuto ricominciare tutto da capo. Come loro, c’erano migliaia di persone.

 

Quelle erano le storie che arrivavano nell’ufficio della Blue Star, raccontate dai collaboratori e dagli associati che viaggiavano da un continente all’altro con, nella valigetta, non solo buone notizie.

«Non capisco», disse Ariel. «Il Congo era la nostra colonia e sembrava così sicura… Non capisco perché ci sia stata bruscamente quella “indipendenza”. Perché tutto d’un tratto il governo belga ha abbandonato tutto?»

«Non devi mai chiederti perché», rispose Zio Josef. «Devi sempre chiederti “Chi ha interessi?”. Questa è la domanda che fornisce sempre la buona risposta. Vedi, con le colonie, l’Europa era ricca e potente e senza essere un politologo salta all’occhio che almeno a due concorrenti questo dava fastidio: da una parte il blocco comunista, dall’altra parte l’America… Poi bisogna anche ammettere che tra i bianchi stessi, lo spirito pioniere è stato sommerso dalle zizzanie politiche; anticlericali contro clericali, Fiamminghi contro Walloni… È sempre una questione di potere

«Ma quelle persone sono andate a vivere e lavorare in Congo non solo per loro stesse, ma anche per il progresso degli Africani e l’interesse di tutta la nazione belga, con l’accordo del governo. Sono stati abbandonati, traditi dai propri connazionali…»

«L’individuo non conta; conta solo la legge del più forte.»

«Vedi, Ariel», aggiunse il Signor Zimmermann. «È ciò che noi abbiamo sempre provato a spiegarti a proposito di Israele. I Belgi del Congo torneranno in Belgio e, in una maniera o in un’altra, si ricostruiranno una nuova esistenza. I Francesi d’Algeria sono tornati in Francia. Similmente, gli Ebrei sono ritornati in Israele perché lì è casa loro e non hanno un altro posto, dove andare. Anche se tutto il mondo arabo dovesse scagliarsi contro di loro, non andrebbero via; combatteranno fino all’ultimo perché non hanno alternativa».

 

1961

 

In America, fu eletto il presidente cattolico J. F. Kennedy, poi venne la crisi dei missili sovietici a Cuba e seguì l’assassinio dello stesso JFK. Molto più grave fu però la costituzione dell’OLP, l’Organizzazione di Liberazione della Palestina, che col movimento Al Fatah non ebbe che un solo obiettivo: cancellare Israele dalla faccia della terra… Attentati e sabotaggi si susseguivano ininterrottamente, provocando rappresaglie e atrocità da ambedue le parti.

 

1967

 

Poi scoppiò la Guerra dei Sei Giorni. Samuel Dayan era ministro della Difesa; il conflitto fu brutale e brevissimo e Israele occupò Gaza, il Sinai, la Giordania occidentale e le alture del Golan, provocando un enorme movimento di solidarietà nella Diaspora e l’ammirazione generalizzata per questo piccolo paese che dimostrava tanta grinta. Le fotografie dei soldati israeliani fecero il giro del mondo e, tra loro, le donne soldatesse e il mitico generale Dayan con l’occhio bendato alla moda dei pirati.

Il generale De Gaulle, in seguito alle rappresaglie che Israele scatenava ad ogni attacco da parte dei suoi vicini, decise l’embargo sulle armi e Israele non fu più né amico né alleato… Così, le navi da guerra ordinate furono bloccate nei cantieri navali francesi.

Jona e Sara andarono in un kibbùtz per la raccolta dei mandarini mentre Ariel e Nora partirono per un viaggio di studio tra la Norvegia e la Francia, alla riscoperta della musica di Grieg e di Ibsen. A Oslo, si erano spostate certe interessanti trattative.

 

1969

 

Ariel e Nora tornarono a New York appena prima di Natale e seguirono divertiti l’odissea delle cannoniere “les vedettes de Cherbourg” che salparono di frodo dal porto di Cherbourg il giorno di Natale e attraccarono per Capodanno al porto di Haifa… Ancora una volta, il mondo rimase a bocca aperta davanti a tanta baldanza. Non era tanto sopportare lo Stato d’Israele, quanto ammirare l’intrepidità del piccolo, la furbizia del debole, il coraggio del pastorello Davide, che con la sua fionda e un sassolino ben piazzato sconfigge il gigante Golia.

Lo Zio Josef non parlava molto ma, ogni volta che ci ripensava, strizzava gli occhi e sorrideva. Da buon conoscitore della letteratura fiamminga, apprezzava senza restrizioni le saporite avventure di Reynaerd de Vos raccontate nel Romanzo della Volpe, che spiegava come nel Medioevo la volpe, simbolo del popolo oppresso, riusciva sempre ad avere la meglio sui potenti grazie al suo spirito e alla sua intelligenza. Per conto suo pensava: «Ja, dat zijn wel knappe kerels[28]».

 

Per Ariel cominciò un susseguirsi di avvenimenti particolarmente penosi. Yasser Arafat diventò presidente dell’OLP.

 

1972

 

Tre terroristi giapponesi perpetrarono un attentato all’aeroporto di Lodd, con decine di morti.

Poi, il Settembre Nero uccise undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco di Baviera.

 

1973

 

Per il Yom Kippur, gli Arabi lanciarono una nuova guerra, che segnò una svolta anche per l’Europa.

Allora iniziò un nuovo capitolo. I paesi arabi sconfitti si vendicarono sui paesi europei amici di Israele chiudendo i rubinetti del petrolio e fu “la crisi del 1973”. Gli Europei cedettero al ricatto. Seguirono la Convenzione e i protocolli di Barcellona, che segnarono non solo il tradimento dell’amicizia con Israele, ma anche l’inizio dell’islamizzazione dell’Europa. Gli intellettuali diventarono anti-sionisti e filo-palestinesi e chiesero il boicottaggio di Israele. L’Europa si spaccò in due e nessuno seppe se non sarebbe andato a finire con una guerra civile qualche decennio più tardi.

 

1974

 

In un attentato a Qiryiat Shemona, sedici persone - per lo più bambini - furono massacrate, mentre a Maalot novanta studenti furono presi in ostaggio e una quindicina di essi uccisa.

 

1976

 

Un aereo della Air France fu dirottato su Entebbe, in Uganda, e nella liberazione fatta da un commando israeliano morirono altre persone.

 

Ad ogni nuova violenza, Ariel rispose con una nuova crisi esistenziale. Sì, egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per Israele, ma non per questa violenza. Cominciò a viaggiare sempre di più tra New York e Tel Aviv. Incontrò molte persone che avevano perso amici e parenti negli attentati o nelle guerre. Molti volevano vivere in pace. Ariel continuò coi concerti a sostegno del suo sogno pacifista.

 

1977

 

Il presidente egiziano Anuar El Sadat fu accolto a Gerusalemme e pronunciò un’allocuzione nella Knesset.

 

1978

 

Finalmente, Ariel poté festeggiare la nascita del movimento “Shalom Akhshav”, Pace Ora. Lo stesso presidente Sadat scrisse una lettera aperta agli Ebrei americani per chiedere loro di favorire la pace tra Israele ed Egitto e i colloqui sulla Pace si avviarono a Camp David, con Menahem Begin sotto l’egida del presidente americano Carter.

 

1978

 

Trent’anni erano passati da quel giorno in cui Ben-Gurion aveva proclamato la nascita d’Israele; c’erano voluti trent’anni di drammi prima di cominciare a intravedere la Pace.

 

Per Ariel e Nora era passata la gioventù. Lui aveva cinquantasei anni; lei ne aveva quarantotto. Vivevano insieme nello stesso appartamento, ma ognuno aveva la propria camera e il proprio studio. Nora aveva bisogno di molto silenzio perché portava gli incarti a casa e necessitava della massima concentrazione. Ariel, col suo violoncello, si chiudeva in uno studio insonorizzato perché per ore e ore studiava la stessa partitura e ripeteva fino all’insopportabile la stessa frase musicale.

C’erano molte riunioni di lavoro, altre sere erano dedicate ai concerti, ma quando potevano passare la serata insieme nella pace della loro abitazione, si sedevano in salotto come una vecchia coppia che ha tanto piacere a ricordare il passato ma che ha ancora tanti progetti per il futuro. Si volevano bene come al primo giorno, tranquillamente, ma profondamente. Era senz’altro quello il vero amore; non la passione o la follia della gioventù. La passione si spegne velocemente e, se c’è solo lei, nessuna coppia resiste. Invece, loro erano legati dagli stessi ideali, ai quali credevano più che mai. Nora guardava Ariel con tenerezza e ammirazione per la sua arte. Ariel era affascinato dalle doti manageriali di Nora, che da ragazzina quasi analfabeta era sbocciata in una donna capace di assumere le più alte responsabilità. Però, oltre all’ammirazione reciproca, tra loro il punto più importante era il rispetto; un profondo rispetto che dava alla loro vita una qualità squisita.

L’ultima volta che Ariel aveva chiesto se Nora volesse sposarlo, lei aveva risposto: «Noi due siamo felici così. La vita non può darci di più. Io non sarò mai veramente ebrea e se tu vuoi sposarmi ci saranno problemi di tradizione difficili da sormontare per tutti noi. Non voglio che ti allontani dalla tua religione; lo sai che i matrimoni misti non sono ammessi. Non voglio simulare una “conversione”. Sarebbe del tutto ipocrita.»

«Ma non avremo mai figli…»

«Noi abbiamo molti figli: tutti quei bambini che abbiamo visto nascere e crescere nei kibbùtz, per i quali abbiamo lavorato giorno e notte e che ci ricordano con amore… Abbiamo aiutato a crescere e educare un paese. Non è questo un figlio di cui essere fiero e felice? Se noi avessimo dei figli, saremmo meno liberi e disponibili. Sarebbe più difficile andare nei posti pericolosi, più difficile disporre del nostro tempo e del denaro che non abbiamo mai risparmiato per noi stessi… Ci siamo dedicati a un figlio molto esigente, ma l’abbiamo fatto con convinzione. Non rimpiango niente.»

«Hai ragione», disse Ariel. «Non conta il matrimonio; contano l’amore e lo scopo comune, come diceva Saint Exupéry.»

 

Una sera squillò il telefono.

«Pronto?» rispose Ariel.

«Sono un amico di Pinki», disse la voce. «Ecco… So che voi siete molto legati… Devo dirvi… C’è stato un attentato. Hanno fatto esplodere un bus… Pinki era in quel bus…» La voce non riuscì a continuare, scoppiò in lacrime e singhiozzi e poi la cornetta fu riappesa.

Ariel crollò sulla sedia. Nora si precipitò da lui.

«Cosa c’è?»

«Pinki…» disse Ariel. E in quel nomignolo sfilarono anni di amicizia, musica, intesa, meravigliosa intensità, irripetibile gioventù…

Ora non rimaneva più che il ricordo e la sofferenza, l’assenza e la ribellione contro quella terribile ingiustizia. Ancora una volta la tristezza, come se invecchiare significasse accumulare tristezza, come se invecchiare significasse vedere attorno a sé morire le persone più amate e rimanere sempre un po’ più soli. La vecchiaia, la tristezza e la solitudine…

Ariel strinse Nora tra le braccia.

«Come farei a sopportare la vita senza di te?»

Ma Nora non riuscì a rispondere, perché con la scomparsa di Pinki si era spenta la voglia di scherzare, di correre incontro alle onde del mare e soprattutto la gioia di ricevere all’improvviso le telefonate più comiche o i mazzi di fiori più fantasiosi… Con Pinki, la poesia se n’era andata via per sempre…

 

Zio Josef e Zia Rachele erano diventati molto vecchi, ma portavano bene i loro ottant’anni. Ruth e suo marito continuavano a vivere nella grande casa dai balconi di ferro battuto. Jona e Sara, ora diventati adulti ragionevoli, avevano preso il loro posto nella Blue Star che evolveva coi suoi tempi. Si erano sposati e avevano dei figli, perché, malgrado tutto, le guerre, gli attentati, gli affari e il business, la vita continuava.

 

Ora che avevano tanto tempo libero e si erano liberati dai grattacapi del mondo degli affari, i vecchi Zii si godevano il giorno scandito dalla preghiera e dalla tradizione. Ogni anno, ogni festa prendeva più significato sulla via dell’armonia per andare incontro a una morte serena.

I nipotini venivano e andavano con musiche sempre più caotiche, vestiti più brutti, strapazzati e slavati, balli più sgangherati che andavano dal twist al rock ‘n roll. A casa dei nonni cantavano sia le ballate antiche che sia le nuove hit che facevano furore a Tel Aviv, le canzoni dei Beatles e di Bob Dylan. Si entusiasmavano per l’isola di Wight e il festival di Woodstock. Dimostravano contro la guerra del Vietnam, i mantelli di pelliccia, lo sterminio delle foche e altre stravaganze. I loro genitori non capivano niente, ma i nonni ascoltavano con pazienza le lunghe teorie pacifiste e ambientaliste e, ogni anno, infliggevano allo Zio Josef la lettura del nuovo rapporto del Worldwatch Institute.

Ogni volta, lo Zio Josef ripeteva: «Non comperate questi libri terribili; leggete la Torah. È già stato scritto tutto cinquemila anni fa. “Il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo…”. E poi il diluvio, tutti annegati, e dopo ancora Sodoma e Gomorra… È già tutto nella Torah.»

Ma per i nipotini moderni e adolescenti, Lester Brown era molto più attendibile che il buon vecchio Noè.

La moda delle vacanze nei kibbùtz si era affievolita, ma continuò nella cerchia della famiglia Levi. Regolarmente, qualcuno partiva per la raccolta delle olive o la semina del frumento o per arruolarsi nell’esercito, perché questo era proprio il ritorno alle origini sul quale costruire la propria vita d’adulto: capire la terra e il prezzo della libertà. E al centro di tutto, rimaneva l’augurio “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Quella Gerusalemme d’oro; Yerushalayim shel zahav[29] il sogno del ritorno e il compimento del sogno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4. Donato

 

1962

 

Nessuno venne alla cerimonia di consegna dei diplomi. La nonna era morta e nessuno aveva creduto necessario chiamare Donato per informarlo del funerale. Don Alberto era via per un pellegrinaggio alla Madonna d’Oropa coi suoi parrocchiani. La Zia Celestina era diventata troppo vecchia per viaggiare e passava i suoi ultimi giorni al ricovero delle Suore della Sacra Famiglia a Loco.

Donato aveva superato gli esami e ottenuto quel famoso diploma d’elettricista. Adesso, la vita cominciava sul serio. Qualche giorno prima della fine dell’anno scolastico, il Padre Superiore l’aveva convocato in direzione.

«La tua permanenza qui da noi sta per finire. Hai pensato a dove andare? Nel tuo paese, sarai ben solo e sei ancora troppo giovane per vivere in una casa vuota. Il padrone con il quale hai fatto l’apprendistato sarebbe d’accordo a tenerti come operaio e noi potremmo mettere una stanza a tua disposizione, almeno per questi due anni prima del servizio militare. Ti costerebbe poco, potresti risparmiare buona parte del tuo stipendio e così dopo il militare potresti partire con una buona base… Pensaci.»

 

Donato partì una mattina col treno fino a Locarno, poi salì in Valle Onsernone col bus postale fino a Loco. Col passare del tempo, non era più tornato in valle che poche volte e si sentiva del tutto estraneo. Si fermò al ristorante della Tamborna per bere la birra. La gente non lo riconosceva e lui non si fece riconoscere.

Poi andò al ricovero. La Zia Celestina era seduta su una poltrona, un po’ in disparte. Rimaneva ben poco della donna energica e sbrigativa che qualche anno prima correva su e giù per i prati, portava i gerli pieni di patate e spaccava la legna come un uomo. Era diventata piccola e magrolina, ripiegata su sé stessa. La pelle delle sue mani era diventata trasparente come carta velina; i suoi cappelli grigi erano diventati bianchi e radi.

«Zia», disse Donato posando la sua mano vigorosa e calda sulla manina stropicciata e fredda di lei. «Sono io, Donato…»

«Donato…» rispose la Zia. «Sei venuto a trovarmi…»

Donato capì che la zia stava diventando cieca, ma l’udito era ancora buono e si sedette sulla sedia vicina.

«Volete un caffè, voi due?» chiese Suor Eudosia.

Aspettarono il caffè. La zia allungò la mano con cautela, sentì il piattino, prese il manico e portò prudentemente la tazzina alla bocca.

«Ah, ma questo è Donato», disse Suor Eudosia con sorpresa. «Ragazzo, come sei cambiato! Fai bene a venire a trovare tua zia. Guarda che non fa mica tanto giudizio e se va avanti a mangiare meno di un uccellino, non tira avanti un pezzo. Già che sei qua, falle mandar giù questo pezzo di torta…»

«Non ho più fame», disse Celestina. «Come se mi si chiudesse lo stomaco. Sono stanca, non ho più voglia…»

«Zia», disse Donato. «Io sono stato in collegio fino ad ora. Sai bene che dovevo farlo. Sono venuto per farti vedere il mio diploma. Senti, ecco: dammi la mano, vedi com’è grande. E qui c’è la firma del Padre Superiore, e qui quella del mio datore di lavoro, dove ho fatto l’apprendistato. Adesso sono elettricista, posso lavorare. Tu mi hai tenuto come un figlio. Sono venuto per chiederti cosa devo fare. Se vuoi, torniamo tutti e due ad abitare a Vergeletto. Io alla mattina posso prendere il postale e andare a lavorare a Locarno…»

La Zia Celestina alzò la mano.

«Sono contenta che ce l’hai fatta. Sei un bravo figliolo. Sei gentile a pensare a tornare a casa ma, come vedi, sono quasi cieca, non posso più stare da sola tutto il giorno. Poi d’inverno è troppo freddo solo con il camino. Qui dalle Suore sto bene. Tu sei giovane; devi farti la tua vita e la tua famiglia…»

E Donato spiegò alla vecchia Zia le proposte del Padre Superiore.

«Vedi», disse la Zia, «non sono l’unica a pensarla così. Vieni a trovarmi ogni tanto; io ti ho sempre voluto bene e sarò contenta quando verrai a trovarmi, ma devi pensare per la tua vita. Io la mia parte l’ho fatta e adesso voglio riposare e morire tranquillamente. Vedi bene come le Suore mi curano… Non sono mai stata così viziata. Sono contenta…»

«Zia, sei davvero contenta?»

«Sì, sono davvero contenta. Una vecchia come me ha solo bisogno di poter morire in pace… Mi hanno detto che vogliono costruire un ricovero anche a Russo. Fanno bene, perché noi vecchi da soli non ce la facciamo più e poi tutto quel trambusto della vita moderna… Fa paura.»

Donato rimase seduto con lei tutto il pomeriggio. Pezzettino per pezzettino, la Zia mangiò la torta e bevve il caffè. Chiacchierarono gentilmente. La testa ce l’aveva ancora buona. Poi, Donato si arrischiò a porre la domanda che reprimeva da molto tempo: «Zia, mia mamma, tu sai dov’è?»

«Non si è più fatta sentire. L’assegno arriva dalla California, ma la California è ben grande…»

«E mio padre, tu lo sai chi è?»

«Non si è mai saputo. Nora mi ha detto che era un soldato. Non parlava italiano. Non è più tornato.»

«Perché mia mamma non è tornata? Si vergognava di me?»

«No, non si vergognava. Era una ragazza forte e coraggiosa. Lei è andata via perché voleva lavorare per educarti e l’ha fatto: nemmeno una volta è mancato l’assegno. Non si fa vedere, ma lei sa tutto di te. Vedrai che ritornerà. Non ti ha dimenticato. Se non viene, ci sarà un motivo…»

E quando Donato era sul punto di andar via, la Zia aggiunse: «Donato, non vivrò più a lungo. Quando non ci sarò più, ci saranno altre persone ad aiutarti: Don Alberto, il Superiore del Collegio, Monsignor Vescovo e, a Locarno, c’è l’avvocato Buonati. È una brava persona; è lui che ha in mano le carte…»

Donato non ebbe il coraggio di rispondere con le solite stupide frasi che si dicono agli anziani per far finta di credere che stiano bene e che potrebbero ancora vivere diversi anni.

«Grazie, Zia», disse semplicemente. «Anch’io ti voglio bene e ti sono riconoscente per tutto quanto hai fatto per me. Non ti dimenticherò. Appena potrò, verrò a trovarti e, se hai bisogno, le Suore hanno il numero di telefono del collegio.»

C’era qualcosa di terribile in quella situazione: anche se si volevano bene, tra di loro c’era un grande distacco. Donato non poteva far niente di più e la zia aveva fatto quanto aveva potuto. Era tutto lì.

Donato si sentì triste e impotente, ma quella sera, arrivando davanti al cancello del collegio, si sentì sollevato.

«Ho parlato con la Zia», disse al Superiore. «Starò qui con voi.»

 

La vita di Donato continuò esattamente come prima, salvo che ora, alla domenica dopo il pranzo, usciva sul Lago con un collega che aveva una barca. Quando erano lontani dalla riva, lasciavano giù la vela e pescavano di frodo. Così Donato imparò il piacere delle cose proibite, di nuotare nudo nel lago e di lasciarsi asciugare dal vento.

Lontano, sull’altra riva, sorgevano le montagne. Donato si sdraiava sul fondo della barca con le mani dietro la testa e le ginocchia piegate uno sopra l’altro e, quando guardava le montagne che si alzavano nella lontananza, il magone gli stringeva la gola.

La settimana passava meglio: sui cantieri, c’era poco tempo per pensare. Tiravano fili elettrici recalcitranti nei tubi che facevano dei gomiti calcolati male, discutevano coi proprietari che non capivano le prescrizioni imposte dalle leggi e litigavano coi muratori che piazzavano le scatole di derivazione secondo la loro fantasia invece di rispettare i piani dell’architetto. Durante le pause, si sedevano al sole e si raccontavano barzellette e pettegolezzi.

Tutto sommato, era un bell’ambiente. La paga andava direttamente sul libretto di risparmio, ma mancava qualcosa e Donato sentiva di non essere veramente felice.

Un giorno, vennero a chiamarlo mentre stava fissando un lampadario esterno in cima ad una scala.

«Hanno telefonato le suore», disse il padrone. «Tua zia ha avuto un colpetto. Se vuoi ancora vederla, devi partire subito…»

Ma quando arrivò a Loco, era troppo tardi; Zia Celestina riposava nella camera mortuaria, tutta piccolina, con un musetto da bambina, in una bara troppo grande.

 

«Devo stare qua un paio di giorni», disse Donato al suo padrone per telefono. Poi, per la prima volta dopo tanti anni, fece ritorno alla sua vecchia casa a Vergeletto. Aprì la porta, poi le persiane. La casa era diventata buia, fredda, umida e puzzava di muffa. I topi avevano rosicchiato un giornale e i pezzettini erano sparsi su tutto il pavimento di granito. Il vento aveva soffiato la cenere e la fuliggine fuori dal camino. La tela cerata che copriva il tavolo era coperta di polvere e cagalette[30] di topolini e ghiri. Le faine erano entrate durante l’inverno, avevano aperto gli armadi e buttato giù diverse tazze che si erano spaccate per terra…

Donato si guardò in giro. Quella era diventata una casa abbandonata, sporca e vuota. Le donne che qui si erano tramandate la vita erano andate via; senza di loro, non c’era altro che desolazione e rovina.

Donato era stato spesso da solo ma, quando si sedette sullo sgabello davanti al camino spento, con le lunghe colate marroni che l’acqua piovana aveva tracciato nella fuliggine, gli sorse un’improvvisa impressione di smarrimento che gli fece paura.

Da piccolo, aveva passato lì le ore più belle e più calorose della sua vita. Adesso aveva i brividi, come se degli spiriti gli stessero dietro alle spalle.

«Pensavo di dormire qua…»

Aprì la stanzetta; dappertutto la stessa pena. Il grande armadio era aperto e i topi avevano fatto il nido tra le lenzuola di lino che la Zia andava a lavare con tanta cura nel lavatoio con la cenere. Il materasso di foglie di faggio era strappato e sul pavimento c’era di tutto… Donato chiuse le imposte e la porta a chiave e se ne andò a prendere una stanza all’Osteria della Capra Bianca.

«Sei il nipote della Celestina?» chiese Franchino, un vecchio brontolone che stava bevendo il boccalino di Barbera mentre spulciava il giornale.

«Sì.»

«Fai conto di ritornare qua?» chiese un altro, che mescolava le carte prima della partita quotidiana.

«Non lo so», disse Donato, che non aveva voglia di parlare e si sedette a lato del grande camino, nel quale bruciava lentamente un pezzo di tronco.

 

La Zia fu seppellita. Nel campo santo, erano sepolti tutti i parenti: il nonno che Donato non aveva mai conosciuto, la nonna, i genitori di Nora che erano morti giovanissimi a causa della grippe e adesso la Zia Celestina. Don Alberto aveva cantato il requiem, la gente era venuta a stringere la mano. Chiesero cosa sarebbe successo coi beni. Sarebbero stati venduti? Donato non diede risposta e partì al più presto con la scusa del bus postale che non poteva mancare.

 

A Locarno, l’avvocato Buonati lo fece sedere sulla poltrona di cuoio davanti alla scrivania. Poi aprì una busta e ne estrasse un incarto dalla copertina gialla, sulla quale era stampato «Confederazione Svizzera, Repubblica e Cantone del Ticino, Pubblico Istrumento - testamento pubblico».

L’avvocato cominciò a leggere e a voltare le pagine. Donato era intimidito e osservava le fotografie al muro e, quando l’avvocato chiuse l’incarto, disse: «Mi scusi, ma non ho capito che cosa significa…»

«Ebbene», disse l’avvocato. «Significa che sua Zia Celestina lascia a lei in esclusiva tutti i beni che lei stessa aveva ereditato come ultima superstite della famiglia. Vale a dire: in paese di Vergeletto una casa, una stalla e un terreno adibito a orto. Sopra il sentiero che va a Gresso: un grande terreno, che di fatti è un prato che viene falciato. Sul monte Piei: una cascina, un fienile e un grande prato che continua con un bel pezzo di bosco. C’è ancora un bosco sulla strada per andare in Albezzona… Inoltre, alla Banca dello Stato, è depositato un libretto sul quale arriva regolarmente un assegno. Lei potrà disporre di questi beni al giorno in cui compirà vent’anni… Sua zia mi ha chiesto di occuparmi dell’amministrazione dei suoi beni nel corso di questi pochi mesi prima della sua maggiore età».

 

1966

 

Arrivò il compleanno. Donato diventò maggiorenne e venne convocato per la scuola reclute. Partì nella fanteria di montagna coi capelli rasati a zero, uno zaino di venti chili sulle spalle, un fucile tra le mani e un casco sulla testa…

Seguirono quattro mesi di marce, di manovre e istruzioni, di smontaggio e montaggio del fucile, di notti passate al freddo a fare da sentinella nascosti nei cespugli e di esercitazioni nel poligono di tiro.

Donato era calmo di natura, capace del migliore autocontrollo, e dimostrò di essere uno dei migliori tiratori.

Abituato al collegio, non ebbe alcuna difficoltà né con la disciplina né tanto meno con la vita comunitaria. Anzi, gli sembrava tutto normale e la vita militare gli piacque di più di quella d’elettricista sui cantieri.

Durante le marce nei boschi e per le montagne, Donato si sentì rivivere. Gli altri sudavano ed erano stanchi; lui camminava col passo regolare che sembrava lento, ma alla fine sorpassava tutti gli altri. Quando si fermavano su una qualche cima, si sedeva in disparte e, invece di fumare le sigarette, guardava in giro col binocolo e provava a riconoscere le montagne che si profilavano all’orizzonte. Di notte, mentre era di guardia, ascoltava tutti i rumori che si svegliavano nel bosco. Riconosceva la corsetta leggera, regolare e ben cadenzata della volpe; il passo più lento e prudente del capriolo; le corse fantasiose e pazze delle faine. Era, dunque, quello che gli era mancato per tutti quegli anni. Finalmente, aveva ritrovato il suo mondo: il bosco, la montagna…

 

Verso la fine della scuola reclute, il Colonnello fece un giro d’ispezione con tanto di parate, arringhe e passaggi in rassegna delle truppe. Poi Donato fu chiamato in ufficio. Bussò, entrò, si mise sull’attenti declinando cognome, nome e grado.

«Riposo», disse il Colonnello. «In questo corso, un paio di soldati sono stati notati per la loro predisposizione alla carriera militare. Lei di mestiere fa l’elettricista. È sicuro che questo sia il suo ideale di vita?»

«No», disse Donato, sottovoce e pensieroso.

«Quale sarebbe il suo ideale di vita?»

«Andare in montagna.»

«Perfetto. È aperto il bando di concorso per il reclutamento di guardie di confine. Inoltre, farà i corsi d’ufficiale. D’accordo?»

«Sì…» balbettò Donato, senza capire troppo bene cosa stesse succedendo.

«Si rivolga ai suoi diretti superiori, che manderanno avanti le pratiche. Complimenti, giovanotto, e auguri. Può andare».

 

1968

 

Così Donato fu imbarcato in una carriera alla quale non aveva mai pensato e che, difatti, gli andava a pennello. Si congedò sia dal collegio sia dal suo impiego d’elettricista e raggiunse il suo nuovo posto alla dogana di Brissago.

Brissago era il posto idilliaco per eccellenza: il Lago Maggiore si stendeva a perdita d’occhio e, dalla riva del lago, si alzava uno straordinario anfiteatro di montagne. Il sole sorgeva dietro rilievi lontanissimi, poi si specchiava tutto il giorno nell’acqua per tramontare infine dietro altre montagne. Un posto magnifico! Là venivano molti forestieri per passare le vacanze e lui aveva la fortuna di viverci ogni giorno!

Il servizio consisteva di diverse mansioni. Le più fastidiose erano senz’altro il controllo delle persone e dei veicoli che transitavano sulla strada, nonché la burocrazia noiosissima dei formulari e dei moduli da riempire, delle tasse da calcolare, dei bauli da ispezionare.

I viaggiatori si fermavano e i doganieri chiedevano: «Merce da dichiarare?»

«Niente.»

«Documenti, prego. Apra il baule.» E nel baule, si trovava mezzo quintale di contrabbando… Allora cominciava tutta la trafila: vuotare, contare, fermare, multare, denunciare…

«Che palle! Ma che palle!» pensava Donato, costretto ad assumere comunque un atteggiamento professionale e dignitoso. «Li odio questi bugiardi. Perché mai non possono dire la verità e pagare le tasse come tutti? Tanto ci guadagnano lo stesso. Vogliono tutto; vogliono rubare, ingannare, tradire… Li odio.»

E Donato diventava cattivo, faceva sballare fino all’ultima valigetta e tassare fino all’ultimo flaconcino di profumo che non era stato dichiarato, perché se questi lo avevano costretto alle cartacce, allora tanto valeva andare fino in fondo e stare lì a scrivere tutto il giorno.

Il servizio sulla strada era il peggiore; alla sera, tossiva a causa della tossicità dei gas di scarico che respirava. Quando faceva caldo, doveva stare tutto il giorno sotto la stecca del sole nel fumo ancora più puzzolente delle macchine. Quando pioveva o faceva freddo, erano otto ore sofferte sotto il lungo e pesante cappotto e sempre con quelle facce imbecilli dei furbacchioni che pensavano di fregarti per qualche bottiglia di vino o qualche chilo di carne. Era più divertente quando il colpo diventava più grosso: contrabbando di valute o di oro, ma anche lì ogni tanto la stupidità faceva arrabbiare. Si poteva leggere quasi stampato sulla fronte di ogni individuo lo stato della sua coscienza. E ogni tanto, succedeva il vero colpo grosso: paraurti ripieni d’oro, sedili imbottiti di hashish, doppifondi molleggiati da dollari… Ogni volta, Donato si chiedeva perché in tanti secoli di contrabbando non si erano inventati sistemi più astuti: passare la dogana con un carico proibito, quello era proprio il colmo della stoltezza.

Donato non avrebbe resistito a una professione così monotona se non ci fosse stato il lato più piccante del mestiere: quelle minigonne che risalivano quasi fino alle mutande e quelle gambe provocanti che le avvenenti autiste divaricavano pericolosamente al momento della partenza, per schiacciare simultaneamente il pedale della frizione e quello del gas. Era un istante brevissimo: appena abbozzata la mossa, la macchina partiva e non si vedeva più niente, ma l’eccitazione era tanto più grande se l’occhiata era breve e quello era senza dubbio il lato più eccitante della professione.

Ogni volta, tentava di migliorare la sua strategia: faceva uscire la signora per verificare il contenuto del baule, la faceva chinare in avanti per alzare una coperta, la lasciava tornare al volante e continuava con un occhio a leggere nome, cognome, stato civile, caratteristiche fisiche, indirizzo, cittadinanza e con l’altro a osservare come lei si sedeva. Automaticamente, un piede andava sul freno e l’altro restava a riposo e non si vedeva niente… Ma in quell’istante in cui dava il via, i due piedi di colpo si alzavano, piombavano sui pedali, le gambe si aprivano e già era troppo tardi; era già tutto passato.

«Un giorno di questi, divento pazzo», pensava Donato. «Ne fermerò una, aprirò la porta e andrò a verificare di persona, con i miei occhi, cosa nasconde sotto e sopra il sedile…»

Non erano solo le donne a nascondere cose strane sotto i sedili.

 

1974

 

Un giorno, durante la pausa, mentre i suoi colleghi erano andati a bere il caffè, Donato si trovava da solo a fare i controlli. Arrivò il suo compaesano Andrea, con la sua vecchia automobile.

«Ciao», disse Andrea.

«Ciao», rispose Donato. «Cos’hai da nascondere?»

«Cosa vorresti che io abbia da nascondere…»

«Lo so io», disse Donato per scherzo, ma come vide Andrea impallidire, gli venne davvero un sospetto. «Spegni il motore, esci dalla macchina. Girati. Mani appoggiate sul tetto e guai se ti muovi!»

«Fai sul serio o fai per ridere?»

«Ho la faccia da ridere? Se non esci immediatamente chiamo gli altri e allora sei fritto.»

Andrea uscì e si mise pancia in giù, chinato sopra la macchina, mentre Donato alzava il sedile. Quello che vide lo fece rabbrividire…

«Sei matto», disse sottovoce, terrorizzato dall’idea di dover denunciare un suo coetaneo, che per di più era stato il suo vicino di banco alla scuola elementare di Vergeletto. «Se ti beccano con questo, vai in galera per il resto dei tuoi giorni…»

«Ma se non mi becchi, starò bene per il resto dei miei giorni e, se mi lasci andare, me ne ricorderò…»

A questo punto, gli altri uscirono dal ristorante e, non appena videro l’uomo che veniva perquisito, accorsero allarmati.

«Che succede?» gridarono.

«Niente», disse Donato freddamente. «Era solo un brutto scherzo per questo gaglioffo che mi picchiava quando eravamo a scuola. Questa volta, ha capito chi comanda… Tirati via, furfante delle belle speranze, e guarda di ricordarti la lezione…»

Andrea salì in macchina, si tirò la visiera sopra gli occhi e partì in tromba. Appena fuori dal paese, abbassò i finestrini e con tutta la potenza dei suoi polmoni intonò un “Va, pensiero” che non fu uno scherzo.

 

Un’altra cosa eccitante che capitava, ma raramente, era una sparatoria.

Una volta, era arrivata una macchina a grande velocità. Invece di fermarsi, aveva accelerato ed era passata in tromba. I doganieri avevano sguainato la pistola e sparato alle gomme, poi c’era stato un inseguimento e quell’autista idiota, che non aveva nessuna via di scampo su quella strada racchiusa tra la roccia e il lago, era appunto finito nel lago, con le gambe rotte e le manette ai polsi…

Donato ripensò alla velocità con la quale aveva afferrato la pistola, caricato, mirato e sparato senza la minima esitazione e fu convinto che non avrebbe nemmeno esitato a sparare a una persona e anche a ucciderla. Sparava con una precisione notevole. In momenti come quelli, un bersaglio era un bersaglio e, se qualcuno si comportava da bersaglio, doveva aspettarsi di essere trattato come tale…

Poi, gli venne un dubbio: «Che io sia un uomo pericoloso?»

Ripensava a quanto aveva detto la Zia prima di morire: sua madre era una donna forte e coraggiosa. Quindi, lui doveva aver preso da sua madre: anche lui era forte e coraggioso. E chissà suo padre? Durante le lunghe ore di appostamento notturno, si chiedeva chi fosse stato quell’uomo misterioso che non aveva mai conosciuto e che portava un nome così strano: Wilbur… Mai sentito altrove. Era riconoscente a sua madre per avergli dato questo nome; come una garanzia di qualcosa di maschile, di burbero, di volonteroso. Alla lezione di tedesco, aveva imparato che Wille significa “volontà”. Un giorno, avrebbe fatto chiarezza su quel padre scomparso nel nulla.

 

Un altro lato appassionante del mestiere di guardia di confine era la sorveglianza in barca sul lago. D’inverno, con le nebbie, il vento forte e le burrasche, ci si poteva immaginare alla scoperta dell’Antartide con Adrien de Gerlache, di cui aveva letto le avventure nei libri della biblioteca del collegio. D’estate, le avventure erano ancora più esaltanti: il più delle volte, le barche portavano a spasso ragazze e donne completamente nude che si tuffavano nel lago, nuotavano alla maniera delle sirene coi capelli sciolti che galleggiavano intorno ai loro corpi luccicanti al sole, come schegge di mica imprigionate nella loro ganga di calcite. Poi, risalivano sulle barche e si dedicavano a lunghe sedute di abbronzatura. Donato aspettava con impazienza di accedere ai gradi superiori che gli avrebbero permesso di accostare le imbarcazioni, controllare il loro contenuto e i documenti degli occupanti.

Fino ad allora, si sarebbe dovuto accontentare di scrutare col binocolo, augurandosi che una di quelle barche affondasse, dandogli finalmente l’occasione di portare in salvo, tra le sue braccia, le bagnanti spaventate, che si sarebbero aggrappate con le loro braccia nude attorno a suo collo… Le pattuglie estive sul lago erano la forma più piacevole della vigilanza lungo i confini della patria.

Tuttavia - e lì il fondo del carattere di Donato ritornava a galla - era quando poteva partecipare alle pattuglie in montagna che si sentiva veramente nel suo ambiente. Partivano prima dell’alba, salivano fino allo spartiacque che faceva da confine tra Italia e Svizzera e poi proseguivano fino alla cima del Gridone, percorrendo la lunga cresta verso ovest per poi scendere il sentiero delle guardie, la testa di Misello e Moneto e risalire infine fino a Camedo, dove alloggiavano nella caserma.

La mattina seguente partivano verso il Pizzo Ruscada, scendevano in Valle Onsernone e pernottavano nella casa delle guardie di Spruga. Il giorno seguente, partivano verso Porcareccio e poi Cimalmotto, dove terminava il territorio di loro competenza e poi tornavano indietro verso Brissago. Questi erano i giorni più felici. Quando si poteva bivaccare nelle cascine sugli alpeggi, era ancora meglio. L’animale selvatico che si celava nella sua indole finì per liberarsi ed egli diventò agile, veloce, instancabile. Soprattutto, Donato sentiva la montagna come nessun altro; ne capiva gli odori, il caldo delle correnti ascensionali, la tensione annunciatrice di temporali e, addirittura, di notte o nella nebbia, il suo senso dell’orientamento era infallibile.

 

Una sera, dopo una camminata estenuante, decisero di bivaccare nelle cascine dell’alpe Ruscada. Donato si allontanò per dare un’occhiata nel vallone che scendeva verso la Ribellasca e, come girò l’angolo della cascina, si trovò a qualche metro da quattro giovani camosci che pascolavano tranquillamente nel prato. Si fermò, aprì lentamente la custodia della pistola, ingaggiò un colpo nella canna, tese il braccio destro appoggiando saldamente la mano destra nella mano sinistra, alzò il mirino all’altezza dell’occhio, mirò, premette il grilletto: il colpo partì, tre dei camosci saltarono via come saette e il quarto rimase secco steso sul prato.

«Cosa fai?» gridarono gli altri arrivando di corsa.

«Ma cos’hai fatto!» gridò Silverio. «Sei impazzito?»

Imperturbabile, Donato andò a prendere il camoscio, lo gettò sulla spalla e salì sotto un larice, dove lo sventrò come aveva visto fare dai cacciatori, poi tornò in cascina con il fegato.

«Bracconiere», disse Donato. «Carne fresca confiscata…»

«Ma il colpo?» disse Fausto. «Dovrai giustificare che ti manca un colpo…»

«Appunto: un colpo solo, per aria… Spaventato, è corso via e ha lasciato la refurtiva sul prato…»

«Questo diventa matto», pensarono gli altri mentre lo osservarono tritare i porcini raccolti durante la salita, il timo trovato nel prato, le bacche di ginepro dei cespugli vicini e una delle cipolle che portava sempre con sé. Fece soffriggere il tutto e ci buttò il fegato, che fece subito una crosta bionda, croccante e profumata al punto che nessuno pensò di resistere alla tentazione.

«Aperitivo», disse Donato lasciando gli altri ad asciugare il tegame col pane. «E ora, filetto di camoscio al ginepro.»

E uscì per macellare il resto del giovane animale. Le spalle e le cosce furono nascoste in sacchetti di plastica sotto un grosso sasso nel riale, dove erano al sicuro come in un frigorifero, mentre i due filetti furono tagliati a fette e delicatamente arrostiti nel burro fumante sul tegame cosparso di bacche di ginepro e di grappa.

«Buonissimo… Incredibile… Mai mangiato nulla di così buono!» disse Marzio, che era un ottimo cuoco. Ed era squisito davvero!

«Ma se vengono a saperlo, andrai in galera…» disse Claudio.

«Se vado in galera io, ci andremo in cinque», disse Donato senza scomporsi. «Istigazione a delinquere, partecipazione a reato, occultazione di prove…»

«E come mai?» protestò Fausto.

«La carne l’avete mangiata, sì o no? Allora, il corpo del reato l’avete occultato, sì o no? Perciò, sarà meglio che state abbottonati, perché ci siete dentro anche voi fino al collo… E anche fino allo stomaco.»

«Bastardo, avevi pensato a tutto…» disse Marzio, quasi ammirato.

«Molto più di quanto pensi», disse Donato mentre scivolava sorridendo nel suo sacco a pelo. «Però non era male; meglio che il tuo salame, di sicuro…»

 

Avevano proseguito fino a Cimalmotto e, sulla strada del ritorno, erano partiti prima del solito per arrivare presto all’alpe Ruscada perché una coscia intera richiedeva diverse ore per cuocere a fuoco lento. Passando vicino agli orti di Spruga, avevano raccolto un ramo di rosmarino, un mazzetto di salvia, e il resto lo raccolsero nel bosco e nel prato.

«Dov’è che hai imparato a cucinare?» chiese Marzio.

«La fame aguzza l’ingegno…»

 

Scorrazzando per le montagne, Donato ricordò le cose utili che aveva imparato da bambino: prendere le trote a mani nude, le lepri nei lacci e sparare agli uccelli. E, mentre i suoi colleghi si strappavano i capelli enumerando i reati che costituivano la caccia e la pesca fuori stagione e senza patente, Donato cucinava per il godimento e la complicità che avrebbe legato i suoi colleghi a un prudente silenzio.

Progressivamente, tutti vollero far parte della squadra quando Donato era assegnato ai confini di montagna e, progressivamente, tutti furono coinvolti nei reati golosi, così come nel silenzio.

«Mah», pensava Donato. «Non si sa mai…»

Tuttavia, non era il bracconaggio a occupare la sua mente. Quello lo faceva per istinto e per mangiare. Invece, la sua vera preoccupazione era ben altra. Ogni volta che era possibile, partiva nella conca che saliva da Vergeletto verso Porcareccio, fino al confine con l’Italia. Sceglieva il percorso più in alto. I suoi colleghi accettavano volentieri, perché più si va in alto, più la strada è lunga e più si deve salire e più ci si stanca.

Invece, lui guardava ogni sasso, entrava in ogni cascina, rastrellava sistematicamente ogni metro quadro alla ricerca di non sapeva quale segno di passaggio che suo padre avrebbe potuto lasciare vent’anni prima…

Per ore e ore, girava e rigirava nella propria mente i pochi elementi che possedeva: una mattina nel mese di novembre del 1945, un uomo era partito a piedi da solo verso il fondo della valle, per non ritornare più. Perché aveva scelto la valle di Vergeletto invece di quella di Spruga, che portava più velocemente in Italia? Forse perché qui c’era meno pericolo d’incontrare altra gente, forse perché si era sbagliato o perso… Forse perché sapeva di trovare qui i suoi compagni e allora, in quel caso, c’era la possibilità che si fosse salvato e che fosse tuttora in vita… Ma dove? E perché non era tornato a cercare quella donna che gli aveva dato un figlio? Oppure era morto, oppure aveva una famiglia altrove…

Donato non poteva capire che quest’uomo non aveva mai avuto la curiosità di ritornare e di sapere quanto era successo… Aveva anche pensato di indagare sul nome stesso, Wilbur. Era un nome o un cognome? In quale paese si usava quel tipo di nomi? Ma se fosse stato un nome americano, non sarebbe stato facile trovare un solo individuo tra i milioni di americani che c’erano sul pianeta.

«Pazienza», pensava Donato. «È come essere appostati: se mi capita sotto tiro, lo becco…»

 

Un pomeriggio, erano appostati tra i cespugli sopra i monti di Brissago. Erano saliti prima dell’alba da un’altra parte e, adesso, erano seduti tra le ginestre sopra Cortaccio e osservavano il sentiero che saliva verso la cima del Gridone.

Donato era capace di rimanere seduto per lunghe ore coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e gli occhi incollati al binocolo; non si muoveva, non aveva mai crampi, non sembrava nemmeno respirare. Sembrava addirittura che dormisse in quella posizione scomoda.

«Una guardia non dorme mai», rispondeva a quelli che lo prendevano in giro. «Tutt’al più riposa, ma io nemmeno quello. Quando riposo, vedo e sento tutto comunque…»

Quel giorno, seduto a strapiombo sopra Cortaccio, aveva osservato le case del monte, una ad una. In piena settimana, non c’era anima che si muovesse, fin quando non vide una macchietta chiara e strana su un balcone. Stette a guardare a lungo e finalmente pensò: «Per quanto strano possa essere, a me sembra che quelli siano due piedi che dondolano…» Il resto del corpo non era visibile perché nascosto dal tetto spiovente. Era possibile che qualcuno fosse seduto nella casa, coi piedi sul balcone.

Donato rimase seduto a fissare la strana macchietta che sparì esattamente dopo due ore e ventisette minuti… Poi, sul retro della casa, uscì una persona. Donato aggiustò le lenti del binocolo e guardò più accuratamente: era una donna nuda che saliva nel giardino dietro casa… Poi la vide fermarsi e star lì un bel po’ prima di tornare in casa…

Donato fece finta di niente e non disse nulla, ma il giorno dopo, visto che era libero, salì senza farsi vedere e si piazzò in un angolino da dove poteva osservare senza essere visto. Alle ore 8:00, si aprirono le imposte delle finestre e ne uscì una donna che era ancora giovane. Era bionda e i suoi capelli lunghi erano spettinati. Indossava solo una giacca di seta nera appena legata attorno alla vita con la cintura.

Si sedette al sole, sulla panchina davanti al tavolo di sasso, con le lunghe gambe nude incrociate per bere una tazza forse di caffè e mangiare forse un pezzo di pane…

«Porca bestia!» pensò Donato nel suo dialetto che non aveva più usato da quando aveva lasciato il suo villaggio per andare in collegio. «Che gran toc da figa… Cosa starà mai qui a fare da sola?» e si avvicinò, rimanendo prudentemente nascosto.

La donna entrò nella casa e, dopo poco, si sentì suonare il pianoforte. Sicuramente stava imparando, perché ripeteva e ricominciava e ancora risuonava lo stesso pezzo. Poi ci fu il silenzio e Donato cambiò angolo di appostamento. Così, poté vedere che la donna era seduta tutta nuda su uno sdraio che stava per metà nella stanza e per metà sul balcone.

Era quasi impossibile vederla. Stette a prendere il sole per più di un’ora, poi si alzò, uscì sul retro della casa e salì nel giardino e, lì sopra, c’era attaccata in cima a un melo una doccia alimentata dall’idrante da giardino. La donna si piazzò sotto la doccia, aprì l’acqua che spruzzò violentemente, lei gridò dalla sorpresa e rovesciò la testa all’indietro.

L’acqua cadeva sul suo petto e scorreva lungo la sua pancia, che istintivamente tirò in dentro mentre i suoi seni si alzavano e i capezzoli induriti spuntavano verso il cielo come i fiori viola del larice.

Donato, ipnotizzato, cadde indietro e rimase seduto lì fin quando diventò buio. Non riuscì a cacciar via quell’immagine; in ogni momento, vedeva quei capezzoli alzarsi, ogni volta più provocanti. Sentiva nelle mani quei seni diventare duri e coprirsi di pelle di gallina e anche lui sentiva la pelle di gallina corrergli lungo la schiena.

Due sere dopo, tornò prudentemente al suo posto d’osservazione. Sembrava tutto tranquillo; dopo qualche tempo, fu convinto che nessun altro fosse in giro e che la donna seduta nel giardino fosse veramente da sola.

Poi, salì sopra il paese e scese come se stesse tornando dal Gridone e, passando davanti al giardino, entrò e andò direttamente verso la fontana che scorreva sempre, come se avesse avuto l’abitudine di fare così ogni volta che passava da quel sentiero. Poi, si girò di colpo, come se si fosse accorto di una presenza e fingendo la sorpresa disse:

«Oh! Mi scusi. Non avevo visto che c’era qualcuno… Ah, scusi, signora… È abitudine… L’acqua qui è così buona… E così fresca… Noi ci fermiamo sempre…»

E mentre stava davanti alla fontana e guardava la donna, continuava a prendere l’acqua nelle mani e a buttarsela in faccia per rinfrescarsi. Poi passò le mani nei capelli, si asciugò la faccia e si strofinò le braccia e le mani, mentre intanto guadagnava tempo sperando nel successo del suo stratagemma.

«Prego», disse la donna. «In montagna, l’acqua è dovuta… Viene da lontano?»

«Funziona!» pensò Donato, poi disse: «Sì e no. Un giretto su per il Gridone… Due passi per stare in forma…»

Poi si persero in quei discorsi insulsi che non servono ad altro che a popolare il tempo prima di arrivare al sodo.

Seguì il periodo in cui Donato era di servizio sulla strada e, ogni sera, saliva sopra Cortaccio, poi faceva finta di scendere dalla montagna prima di fermarsi a bere l’acqua della fontana nel giardino della donna che si chiamava Elise, ma si faceva chiamare Lise o anche Lisa…

Una sera, Lise disse con molta esuberanza e alla francese: «Oggi sono nate le fragole! Venga a vedere, sono bellissime!»

Salirono nell’orto dietro alla casa e, davvero, c’erano almeno venti fragole rossissime. Lise ne colse una e la tese a Donato dicendo: «Provi, non sono meravigliose?» sempre con l’accento francese e la sua erre inconfondibile.

Erano ancora calde dal sole e profumate e grosse e carnose e libidinose…

Da allora in poi, tutto quello che successe, fu colpa delle fragole. Lise ne colse un’altra, la tenne per lo stelo e la presentò a Donato, che allungò le labbra come per un bacio e, all’ultimo momento, invece di afferrare la fragola chiuse il braccio intorno alla vita di Lise e baciò la sua bocca nella maniera più scatenata che riuscì a immaginare…

Lise, con la sua esperienza, aveva fatto tutti i calcoli e sapeva come e quando Donato sarebbe caduto nella trappola. Poi, da donna matura ed esperta, condusse il gioco e il rituale lasciandosi scivolare tra le righe di fragole, sganciando la cintura, accarezzando significativamente i fianchi del ragazzo, che già non capiva più in che mondo si trovava.

A Lise bastò divaricare le gambe e Donato, travolto dalla sorpresa e dall’impeto, la penetrò in un colpo solo, come se si fosse buttato dal ponte d’Intragna.

«Che goduria, che goduria…» pensò Lise. «Decisamente, più sono vecchi più sono saporiti, ma più sono giovani, più sono gustosi…»

Donato non pensò a niente, perché tutto ciò andava al di là della sua capacità di pensare.

Da quella scoperta in poi, ogni sera, saliva fino a Cortaccio per una nuova dose di stregoneria.

«E pensare che non ci avevo mai pensato prima!» rifletteva lungo la strada del ritorno. «Quanto tempo perso! Tutta colpa dei preti che non mi hanno mai detto come stanno le cose… Ma adesso, non c’è più nessuno che mi ferma! Tanto, questa qua ne ha voglia e non ce n’è mai troppo…»

 

Per fortuna, arrivò il servizio sul lago e poi il turno in montagna e passò quasi un mese prima che Donato potesse ritornare a Cortaccio. Lise dal canto suo si era buttata nel giardinaggio e nella musica. Quando Donato scese finalmente lungo il sentiero, lei gli corse incontro senza più nessun ritegno.

Era splendida: quel soffio di giovinezza illuminava i suoi quarant’anni. Raggiante e abbronzata, si buttava nella passione e se la godeva tutta. Fecero l’amore come amanti assetati, sempre più esperti e sempre più allenati e Donato era totalmente fuori dalla percezione normale della realtà. Puntualmente, ogni sera, Donato tornava al suo posto.

Per forza, i suoi colleghi indovinarono quale strada avesse imboccato.

«Sei matto!» gli disse Marco. «Quella è la moglie di un Colonnello. Ti stai suicidando.»

Ma la tentazione era troppo forte. Come diceva Maupassant: “Le tentazioni sono fatte per cederci, poi è come un ingranaggio; ci si passa completamente…”

E difatti, una notte, capitò quello che doveva capitare.

 

«Con permesso…» disse una voce venuta dal buio.

Né Donato, né Lise vi diedero retta e, travolti dalla passione, seguirono il crescendo della loro follia per poi ricadere esausti l’uno accanto all’altra.

«Ah», sospirò Donato. «Che buono, ma che buono…» Mescendo in un unico orgasmo il ventaglio delle godurie che spaziavano dalle note squisite dell’usignolo prima dell’alba fino all’olezzo del filetto di cinghiale al pepe verde flambato al calvados, la cui ricetta aveva letto nella rivista “La Cucina Francese dalla A alla Z”, che giaceva per terra nel bagno di Lise…

«Permesso», disse un’altra volta la voce, senza tuttavia alzare il tono.

«Ciel!» esclamò Lise. «Ciel, mon mari![31]»

«Fermi tutti!» disse la voce nell’ombra. «Chi sono questi serpenti che soffiano sopra la mia testa?» Parafrasando il celebre verso di Racine nella sua Andromaque

«Oddio, è di nuovo in fase alessandrina», disse Lise mentre teneva Donato per un polso per impedirgli di saltare dalla finestra.

«Carissimo», disse Lise. «Ti presento Donato, un ragazzo generoso che ogni sera ha montato la guardia senza mai vacillare davanti all’ampiezza dell’impresa… Donato, caro mio, ecco mio marito, il Colonnello…»

«Povero me», pensò Donato. «Il Colonnello… Sono fottuto…»

«Riposo!» ordinò il Colonnello mentre si sedeva nella sua poltrona. «Ma qui non c’è nulla per addolcire il palato?»

Lise si era alzata, tirò fuori i bicchieri e versò la grappa ai mirtilli alla quale nessuno, nemmeno un militare di carriera, poteva resistere.

«Soldato Donato, a rapporto!» esclamò il Colonnello. «Nome, cognome, arma, compagnia e tutto quanto. Avanti, ragazzo, sputi il rospo!»

«Beh», balbettò Donato mentre si tirava su i pantaloni. «A dire il vero, nella mia anima e coscienza: Capitolo III, sezione I, articolo 27, coma 2 della Convenzione di Ginevra: “Le donne vanno specialmente protette…” Insomma, Colonnello, sua moglie era qui da sola in balia dei capricci della notte sulle cime deserte e degli azzardi inerenti alla solitudine… E poi, lei non mi ha mica detto che c’era anche un marito. E poi, posso assicurare sul mio onore che ho fatto il mio dovere senza indugio, né risparmio delle mie energie…»

Poi Donato saltò davvero dalla finestra e non smise di correre fin quando non cadde completamente esausto sul suo letto in caserma.

Ciò che sarebbe successo l’indomani era evidente.

 

«Sciagurato!» disse il suo Comandante, riponendo la cornetta del telefono. «La moglie del Colonnello!»

E così, una mattina, Donato si trovò in piedi sull’attenti e da solo, in faccia ai suoi giudici: il Comandante delle guardie e il Colonnello della moglie trascurata.

«È un affare che faremo fuori tra di noi», disse il Colonnello. «Io di scandali non ne voglio, però questo saltapasti ha bisogno di una lezione.»

«Se si viene a sapere», disse il Comandante. «L’onore della mia brigata è perso! Si sapeva già che questo elemento sovversivo era un bracconiere scalmanato; adesso, si rivela anche un perverso succube dei suoi vizi carnali…»

Donato ascoltava in silenzio e ancora sull’attenti.

«Io, questo ragazzo, non posso tenerlo», disse il Comandante. «Ci disonora tutti; mi contagerà gli uomini che sono già ossessionati di natura e, vista la profusione di occasioni che fanno i ladroni,… Chissà cosa mi combinerebbe ancora, questo…»

«La settimana prossima», disse il Colonnello. «Si apre un bando di concorso per l’impiego di guardiacaccia… Lo sbatteremo nella guardia della caccia, dei cacciatori e delle belve e ce lo toglieremo dai coglioni.»

«Non so niente della caccia», azzardò Donato.

«Silenzio! Guardiacaccia o corte marziale, scelga lei. Gli argomenti li fornisco io», tuonò il Colonnello. «E le prometto la galera fino all’età dell’andropausa…»

Spaventato da queste minacce che non capiva nemmeno, Donato mormorò: «Guardiacaccia? Magari…»

 

«Eh, beh?» chiesero i colleghi di Donato, quando uscì dall’ufficio del Comandante.

«Mutatis mutandis», disse Donato con una faccia sibillina e come aveva sentito dire da qualcuno nel collegio. «Per una questione di mutande, eccomi multato e mutato. Però non tutto il male vien per nuocere…» Infatti, non era mica colpa sua se le mogli tradiscono i mariti. Anzi, lui era stato vittima del concorso di circostanze aggravanti…

Rimpiangendo i lati positivi della professione di guardia di confine, Donato salutò i suoi colleghi, fece il suo bagaglio, piegò la lettera del Comandante, la mise nella tasca interna della sua giacca e andò a salutare il resto della compagnia.

«Arrivederci», disse Donato. «Perché guardate che io ho la memoria buona e per il resto: acqua in bocca…»

È allora che capirono quanto si erano divertiti e quanto Donato sarebbe mancato: lasciava veramente un vuoto e forse un elemento del suo calibro non si sarebbe mai più visto. Erano stati bei tempi e belle avventure, che un giorno avrebbero avuto piacere di raccontare. Solo più tardi, però, perché fin quando il tutto non fosse caduto in prescrizione, era meglio stare abbottonati.

 

1978

 

Ad Ascona, Donato scese dalla corriera ed entrò nel primo ristorante che vide, che si chiamava l’Otello. Depositò la sua valigia all’entrata e andò a sedersi su una delle panchine, chiese una birra e si guardò in giro.

Dall’altra parte del ristorante, era seduta una signora dai capelli bianchi. Accanto a lei, era seduto un cagnolino bianco a pelo lungo. La signora beveva a piccoli sorsi un bicchiere di frizzantino e mangiava con un piacere evidente un piatto sofisticato. Ogni tanto dava un pezzettino al cagnolino e, vedendo come questo si leccava i baffi, doveva essere davvero squisito.

«Mi potrebbe dire cosa sta mangiando quella signora?» chiese Donato alla cameriera.

«È una nostra specialità», disse la cameriera dall’accento spagnolo. «È una crêpe al Grand Marnier con gelato alla vaniglia e crème Chantilly».

«Ne porti una anche a me», disse Donato, che aveva bisogno di consolazione.

E, quando ebbe assaggiato, pensò: «Incredibile quante cose t’insegnano le donne… Né i preti né in caserma … Qui tornerò… E chissà quante cose scoprirò ancora!»

Donato finì la crêpe poi, dopo un buon caffè, cominciò a sentirsi meglio.

«Ecco», pensò, «ecco come si sente un uomo libero… E adesso, cosa facciamo?»

Scese sul lungolago, incrociò le mani dietro alla schiena e camminò fino al Castello, poi tornò sui suoi passi e pensò: «Ma sì! Io la casa ce l’ho; un posto dove andare, ce l’ho…» E salì sul bus postale per Vergeletto, dove prese una camera all’Osteria della Capra Bianca.

All’indomani, scendendo verso la sua casa, si fermò al negozietto per comperare un pacco di sacchi per la spazzatura, una scopa e cinque scatole di fiammiferi.

 

Donato aprì la porta e le imposte, poi cominciò a pulire. Quello che non poteva bruciare nel camino lo metteva nei sacchi di plastica e, ogni volta che quattro sacchi erano pieni, li portava nella pattumiera. I pochi mobili erano vecchi, marci e mangiati dai tarli; non restò che bruciarli col resto.

Dopo il quarto giorno di lavoro, la casa era totalmente vuota ma pulita. Donato aveva lavato diverse volte il pavimento e le grandi lastre di granito facevano un bell’effetto. Poi vuotò completamente la stalla. I topi scapparono in tutte le direzioni. Portò il vecchio fieno all’orto, con l’intenzione di vangarlo sotto per piantare le patate la primavera successiva.

«Devo farti vedere qualcosa», disse Donato qualche giorno più tardi al suo amico Silvio, che aveva un’impresa di costruzione. Andarono fino alla casa. Silvio fece il giro poi entrò nella stalla.

«Cosa ne pensi?»

«Mah», disse Silvio. «Il tetto è buono. Basta cambiare un paio di piode[32] e aggiustare le altre. Non c’è la fognatura… Quello sarà il lavoro più grosso: bisogna fare lo scavo per l’allacciamento. Bisogna chiedere i permessi in comune… Se vuoi fare un bel lavoro, devi far fare i disegni e fare tutte le richieste, anche per la luce, il contatore… È meglio che ti rivolga a un architetto, così sei sicuro. Ci vorranno un paio di bigliettoni. Chiedi alla Marirosa; ti farà un preventivo».

Marirosa fece lo stesso giro con, in mano, un blocco di carta, una penna e un metro.

«Il tetto è buono», disse Marirosa a sua volta. «Il problema sarà la fognatura; andrò a vedere in municipio, dove passa la canalizzazione principale. Per conto mio, io terrei la casa il più possibile com’è. Da fuori è bella; bisognerà cambiare le travi dei balconi e la scala… Si potrebbero sfondare i muri tra la casa e la stalla, così al pianterreno avresti la cucina che fa da soggiorno e, accanto, una saletta come ufficio, mentre al primo piano avresti due belle camere e sopra la stalla, lo spazio per il bagno.»

«Quanto mi costa?»

«Ti farò un preventivo.»

«Quanto tempo ci vuole?»

«Diversi mesi… Per finire tutto, un anno.»

«Aspetto il tuo preventivo…»

Donato chiuse porte e finestre e scese a Locarno. Il giorno dopo, andò a chiedere consiglio all’avvocato Buonati, che parlò di banche, prestiti, assicurazioni e tante cose che Donato non aveva mai considerato.

«Ha pensato ad aggiornare le assicurazioni?» chiese ancora l’avvocato.

Ma di assicurazioni non ce n’erano, per cui andò a Cavigliano, dove sapeva di trovare un altro tifoso dell’hockey club di Ambri, che era assicuratore.

«Luigi, ho una casa a Vergeletto. Dovresti farmi un’assicurazione.»

Luigi andò a controllare sul posto, poi consultò i registri del comune, le stime del catasto e così via.

«Cos’hai ancora? Ci sono i boschi, terreni, la cascina dei Piei… Altri beni? Gioielli? Mobili?» E prima di potersi rendere conto di quanto capitava, Donato si trovò con un’assicurazione contro furti, incendi e tutti i possibili danni della natura. Luigi si era fatto un buon cliente.

 

Donato se ne andò tranquillo e, qualche giorno dopo, si presentò all’ufficio Caccia e Pesca del Dipartimento dell’Ambiente, in Viale Franscini a Bellinzona.

«Avanti!» disse una voce.

«Buongiorno», disse Donato. «Vengo a presentarmi per il concorso di guardiacaccia…»

Lo guardarono sbalorditi.

«Il concorso? Ma era il mese scorso…»

«Allora devo parlare col capo dell’ufficio.»

Lo fecero accomodare e aspettare e, dopo mezz’ora, lo fecero entrare in un altro ufficio.

«Vengo per il concorso di guardiacaccia…»

«È un po’ tardi…»

Donato non disse niente, tese la busta stropicciata che conteneva la lettera del Comandante, si sedette e aspettò.

Il capo ufficio lesse il contenuto, si sedette anche lui, si passò le mani nei capelli, si alzò, camminò verso la finestra, mise le mani nelle tasche del suo pantalone, poi con la mano destra si asciugò diverse volte la bocca, che comunque non era bagnata… E finì per prendere il telefono.

«Mi passi il Direttore del Dipartimento… Ecco, Onorevole, ho un piccolo problema che temo non rientri nelle mie competenze… Difatti, sarebbe abbastanza confidenziale… Beh, insomma, è firmato da un Colonnello e da un Comandante, guardi lei… Adesso? Va bene, glielo mando».

Il capo ufficio ritornò la lettera.

«La segretaria la condurrà nell’ufficio del Capo del dipartimento. Tenga presente che si tratta di un Consigliere di Stato, che non ha tempo da perdere…»

«Ho capito», rispose Donato, che di politica non sapeva proprio niente.

Entrarono in una saletta. Il Capo si sedette, fece sedere Donato, lesse la lettera, guardò Donato a lungo, poi attraverso la porta aperta chiamò la segretaria.

«Mariella, per favore, mi chiami il Comandante del posto di frontiera di Brissago». E quando Mariella gli tese la cornetta, egli disse sorridente: «Sì, ciao, come stai? E quella cena? Ci siete anche voi? Ha, ha! Tu, senti una cosa, ho qua la tua lettera e quel ragazzo, come si chiama già… Donato qualcosa… Com’è questa storia? Ah, sì? Davvero? Quel vecchio caprone, gli sta bene! Così impara a fare il cafone con donne giovani: è almeno la quarta… Che ridere… Sì, sì, cambio di prato rallegra l’asino, ma non so poi se gallo vecchio fa così buon brodo o se sa solamente di becco… No, non sono mai stato geloso… Sì, è qui davanti a me, difatti è un po’ delicato… E allora, se è così, vedrò cosa si può fare e poi sabato ne parliamo… Bon, ciao intanto…»

Poi, rivolgendosi a Donato con un’espressione seria e preoccupata: «Bel colpo, giovanotto! Il concorso per guardiacaccia era proprio un mese fa… E lei di caccia cosa ne sa? E di animali? Vabbè che quelli delle valli sono tutti bracconieri…»

«Saranno forse bracconieri, ma comunque il voto di un bracconiere vale il voto di un altro…»

«Vedo che sei impertinente e che impari velocemente…»

«Abbastanza…»

«Testa calda?»

«No! Quello no! Se guarda il mio libretto di tiro, vedrà che sono uno dei migliori tiratori del Cantone.»

«Allora», disse l’Onorevole. «La situazione è la seguente: lei non ha la formazione idonea per quanto riguarda caccia, pesca, selvaggina, legge e tutto quanto; invece è un buon tiratore, buon conoscitore del territorio, già guardia di confine, bracconiere patentato, faccia tosta e peli sullo stomaco… Potrebbe diventare un ottimo guardiacaccia, solo che io per lei non posso inventare un nuovo concorso. Dovrà aspettare il suo turno. Intanto, manca personale al parco di Gudo. Se è d’accordo, comincerà lì, poi accompagnerà le guardie secondo le necessità e così avrà il tempo di studiare la legge e d’imparare tutto il resto. Tenga presente che questo è un favore che io devo ad altre persone. Lei ha un’opportunità, ma una sola; non ce ne saranno due, se lo tenga bene in mente e si regoli di conseguenza… Sarà meglio passare all’acqua bassa invece di andare avanti a fare il furbo».

 

Così, Donato si trovò a fare lo spazzino del Parco Naturalistico di Gudo. Doveva pulire le gabbie, nutrire gli animali, curare quelli malati o feriti, tagliare l’erba e così via, per uno stipendio decisamente misero. E ancora una volta, ricominciò tutto da capo e si mise a studiare per passare l’esame e ottenere la patente di caccia.

Progressivamente, cominciò ad accompagnare i guardiacaccia e capì che questo era il mestiere tagliato su misura per lui: la maggior parte dei trucchi li conosceva già e se la godeva pensando che era proprio vero che per fare bene il guardiacaccia si deve essere un buon bracconiere.

 

1978, ancora.

 

Stava per finire l’estate quando all’improvviso una violenta alluvione si abbatté sul Canton Ticino. In una sola giornata di piogge torrenziali, Centovalli, Onsernone, Valle Maggia, Valle Verzasca e tutto il Locarnese furono letteralmente devastati e isolati dal resto del mondo: telefono interrotto, strade franate, fiumi straripati, persone scomparse, fondivalle cancellati, centri abitati portati via… Una catastrofe come non si era mai vista… Donato era impegnato in Valle Morobbia e non pensò all’Onsernone fin quando dopo una settimana il Municipio lo chiamò per telefono.

«Qui i danni sono stati spaventosi. Dovresti venire fin qua… La tua casa… Insomma, il tetto ha ceduto e la tua casa è crollata… Si deve provvedere in fretta, perché le macerie ostruiscono la contrada.»

«Ma tutte a me! E poi… il tetto era l’unica cosa buona della casa», disse Donato di malumore.

«Ci saranno le assicurazioni», disse qualcuno più informato.

«Luigi!» disse Donato battendo la mano sulla fronte.

Salirono insieme a Vergeletto e dovettero costatare la desolazione generale: era passato un finimondo, che aveva spazzato via tutto.

«Ebbene», disse Luigi. «Con te, l’assicurazione Basilese fa un brutto affare, ma guarda che la mia assicurazione non si tira mai indietro… Faremo una perizia e sarai risarcito generosamente. Ringraziami che ti ho fatto firmare i contratti fatti bene, altrimenti saresti sul lastrico…»

Bevettero la birra.

Le cose seguirono il loro corso: fu fatta la perizia, fu sgomberato il rudere, Marirosa disegnò i piani, chiese i permessi e Silvio intraprese la ricostruzione, o meglio, la costruzione, perché non c’era più niente da ricostruire. Anzi, della casa vecchia non si poté recuperare altro che il bel pavimento di granito; per il resto, fu tutto rifatto a nuovo, con le idee nuove e le tecniche d’avanguardia, anche se lo stile rimase quello tipico del paese: due piani e i famosi balconi di legno che d’estate sarebbero scomparsi sotto cascate di gerani.

 

Donato passò l’esame di caccia, poi finalmente venne il concorso di guardiacaccia. Fu accettato e assegnato alla sua zona: Centovalli, Onsernone e Terre di Pedemonte e così riprese a percorrere le sue amate montagne.

 

1980

 

In due anni, la casa fu pronta ed egli si stabilì definitivamente nel paese da dov’era partito più di vent’anni prima.

«Non ti manca più niente», gli disse Don Alberto. «Sei un uomo maturo, hai una bella posizione, sei ben sistemato… Ti manca solo la famiglia.»

«Ci pensavo anch’io…»

Per l’appunto, Donato era diventato un buon partito. Oltre alla posizione assicurata e alla casa nuova, era anche un bel tipo: alto, ben sviluppato, spalle larghe, bacino stretto e soprattutto magnifici occhi neri, che luccicavano sotto la folta chioma di capelli scuri e ricci.

Era totalmente diverso dagli altri uomini del paese. Le donne lo guardavano con rammarico, le ragazze con invidia… E qualcuna anche con speranza. Ma lui non sapeva decidersi. Ormai, le donne erano sposate e la lezione l’aveva imparata… Le ragazze più giovani erano insipide.

«Allora», disse Don Alberto. «Ragionaci su. Prendi un foglio, scrivi tutti i nomi in verticale e i parametri in orizzontale: bellezza, gentilezza, bacino largo per fare i figli, soldi, terreni, eredità, posizione sociale, ecc. Poi fai le crocette e quella che ha più crocette, la sposi…»

«Ma l’amore?» chiese Donato sorpreso.

«Ah, l’amore…» rispose Don Alberto. «Credimi, io di matrimoni ne ho visti parecchi. I più appassionati sono quelli che sono durati di meno. Invece, quelli tranquilli, con una buona dose di ragionevolezza, sono quelli che durano di più. La passione passa… Due, tre anni al massimo, poi se non c’è nient’altro, è il disastro. Per un buon matrimonio ci vogliono la simpatia, il rispetto, interessi comuni e buon senso. Così, quando sono passate le follie, si rimane legati da una buona amicizia ed è allora che nasce il vero amore: la complicità, l’aiuto reciproco, l’impegno nell’educazione dei figli e nella crescita della casa. E quando si arriva alla vecchiaia e alla resa dei conti, ci si può rallegrare dell’opera costruita insieme. Dammi retta: vai sul sicuro. Non te ne pentirai…»

Donato fece le crocette e rimase indeciso tra la figlia del sindaco e quella di un ricco bernese che veniva là per le vacanze.

Ancora una volta, si rivolse all’Avvocato Buonati, che indagò.

Sposare la figlia di un sindaco, si sa, è sempre un buon affare. L’affare bernese era anche interessante. Quell’ingegnere aveva due figli: un maschio per riprendere gli affari e una femmina che avrebbe ereditato la metà del capitale della società…

Durante l’estate seguente, Donato fece qualche visita all’ingegnere bernese con la scusa dei confini dei suoi terreni e della legna del Patriziato. La ragazza non era male: alta, abbastanza piazzata, biondissima, capelli lunghi, occhi blu-malva come le pervinche e un bel paio di tette. In più, era ribelle, non voleva continuare l’università e non voleva far altro che tenere le api, delle quali sapeva vita, morte e miracoli.

«Qui a Vergeletto, potrebbe avere le arnie», suggerì Donato. «Potrebbe metterle sul mio monte e fare il miele di montagna.»

Il padre guardò sorpreso. Come? Quel matto era abbastanza incosciente da interessarsi a quella figlia che non era nemmeno capace di pelare le patate e non aveva nessun diploma?

«Potrei farle visitare il luogo», insistette Donato. «È pienamente esposto a sud. Sopra c’è un bosco di larici e. appena più in basso. ci sono dei castagni…»

«Mmh», disse Sigried, la ragazza ribelle. «Miele di castagno; una squisitezza… Ben volentieri, verrò domani sera.»

«Se sono rose», pensò il padre. «Fioriranno, ma chissà quanto questo brigante mi chiederà per sbarazzarmi di questa brigatista…»

Donato aspettò Sigried con la motocicletta e non erano ancora partiti che tutto il paese parlava già di loro… Ormai le cose si mettevano male per quelli che avevano già calcolato quali sarebbero stati i vantaggi di un matrimonio tra Donato e una loro parente. Nelle alleanze politiche, un voto può pesare sull’ago della bilancia. Ad altri sarebbe piaciuto poter aggiungere ai loro terreni quelli di Donato. Ognuno aveva la sua idea.

Donato e Sigried salirono sopra il monte Piei, guardarono la tana del tasso, ascoltarono la ghiandaia e, quando cominciò l’imbrunire, scesero verso le cascine del monte. L’enorme chiave girò nella serratura della casetta. Donato accese i rametti secchi nel camino. Sigried trovò una coperta che stese per terra e vi si sedette sopra. Donato aprì una bottiglia di vino e venne a sedersi davanti al fuoco. Sigried depositò il suo bicchiere vuoto, poi si chinò verso Donato e cominciò a sbottonargli la camicia, poi la cintura del pantalone e, senza batter ciglio, cominciò ad accarezzarlo.

«Sei sicura?» chiese Donato, abbastanza meravigliato.

«Perché, tu no?»

«Questa è ancora più tremenda delle altre», pensò Donato. «È proprio la donna che fa per me…» In settimana, chiese all’Avvocato Buonati di contattare il padre di Sigried per chiedere quali fossero i termini del contratto.

«Le cose si mettono bene», disse l’avvocato Buonati a Donato. «È una famiglia borghese abbastanza tradizionalista; i figli hanno ricevuto una buona educazione, i genitori sono simpatici e vedono questo matrimonio di buon occhio. Adesso tocca a lei fare la domanda al padre della ragazza.»

«Io non sono capace di tanti fronzoli», disse Donato.

«Non è così difficile. Basta invitarlo a bere una buona bottiglia. Tanto, lui sa già di cosa si tratta… Tra l’altro, ho qua depositata da qualche tempo una pietrina che potrebbe essere quella giusta per un anello di fidanzamento…» disse l’avvocato mentre toglieva da una busta una carta velina piegata una volta in quattro e una volta in tre. La spiegò e apparve una pietra rotonda abbastanza grossa.

«Cos’è?» chiese Donato sorpreso.

«È un diamante! Per gli anelli di fidanzamento si usano i diamanti, mi sembra…»

«E cosa devo farne?»

«Le donne sono molto sensibili a questi dettagli. Allora, una di queste sere chiede alla sua dulcinea se vuole davvero sposarsi e se dice di sì, andate da un gioielliere per prendere le misure e decidere il modello che piacerà alla signorina…»

«Ma no!» sospirò Donato. «Anche quello! Io di gioiellieri non ne conosco…»

«Quello che vale la pena di essere fatto, vale la pena di essere ben fatto! Vada dalla mia amica Dora, sul lungolago di Ascona. È onestissima, di estrema professionalità e ha buon gusto. Vedrà che non se ne pentirà e che la signorina rimarrà alquanto impressionata e riconoscente per tanta premura…»

«E quanto può valere questa sciocchezza di diamante?»

«A occhio e croce, un buon venti o trentamila franchi di sicuro, se non di più… Per cui, non lo perda e lo faccia montare da chi se ne intende.»

Donato mise la busta con la pietrina nel taschino e tornò a casa, convinto che mai sarebbe riuscito ad abituarsi alle stravaganze femminili. Poi, seguì il consiglio dell’avvocato e, una sera, di sorpresa chiese a Sigried: «Tu cosa ne dici di mettere le tue arnie ai Piei?»

«A me sembra una buona cosa…»

«Affare fatto!»

Scesero ad Ascona, ma senza che Sigried conoscesse il motivo dell’escursione.

«Ecco», disse Donato alla Signora Dora. «L’avvocato Buonati mi ha consigliato di rivolgermi a lei per fare qualcosa con questo.»

Donato depositò la busta sul tavolo.

«Prego», disse Dora mentre avanzava le poltroncine. «Sedetevi…»

Si sedettero tutti e tre, Dora aprì la busta, ne estrasse la carta velina, la spiegò e apparve la pietra. Sigried spalancò gli occhi, ma rimase silenziosa. Dora prese la pietra e la guardò, poi andò nell’ufficio a prendere una lente più potente, si sedette, prese la pietra in una pinzetta, avvicinò la lente, guardò a lungo e poi cominciò a scuotere la testa.

«Straordinario… Purissima, meravigliosa…» Poi, rivolgendosi a Donato: «Dove ha trovato questa pietra?»

«Non lo so, faceva parte dell’eredità di una vecchia zia. Lei era un po’ bizzarra e chissà da chi si è fatta consigliare… Avrà voluto fare un investimento, cosa ne so io…»

«Dunque», disse Dora riprendendo la pietra sotto la lente. «Per quanto riguarda la purezza, è sicuramente un Top Wesselton. Anzi, io direi tra il Top Wesselton e il River, bel et bien, ma per quanto riguarda il colore, ha una sfumatura impercettibile di un blu viola, anzi malva, che non ho mai visto… Il taglio poi di questa pietra è del tutto inaspettato: è un taglio all’antica! Un taglio “rose cut”! Oggigiorno, non si tagliano più i diamanti in questa maniera; non saprei chi sia ancora capace di questo tipo di capolavoro… Sono davvero confusa. Nel passato, questo colore non si trovava e oggi questo taglio non esiste più… Insomma, è un pezzo unico, d’inestimabile valore… È una pietra bellissima. A mio parere, questo è un pezzo raro proveniente dalla collezione privata di una compagnia come… Ma sì, potrebbe venire dalla Blue Star, una ditta di New York. Hanno un loro filone particolare per trovare le pietre rare, che poi vengono lavorate dai loro soci diamantari di Anversa che, ormai, sono tra i più misteriosi ed esperti al mondo…».

«Mah!» disse Donato. «Sapevo che la zia Celestina mi voleva bene, ma arrivare fino a queste stravaganze… Mi pare esagerato…»

Dora si era rituffata nella sua contemplazione.

«Nella mia carriera, non ho mai visto una pietra simile… Questo colore, poi… A prima vista, sembra un bianco perfetto, poi al minimo movimento appare questo stupendo blu che non è nemmeno blu, ma un viola tutto particolare… Pervinca…»

Dora guardò Sigried, che seguiva il discorso in silenzio con grandi occhi increduli.

«Ecco», disse Dora «Questo diamante ha lo stesso colore degli occhi della signorina… Blu, viola… Pervinca… Meraviglioso…»

«Eh sì», disse Donato. «Di questa pietra noi volevamo fare un anello…» Poi, un po’ imbarazzato, aggiunse: «Un anello di fidanzamento…»

Dora si lasciò andare alle congratulazioni, alle considerazioni tecniche e professionali. Si prese la misura del dito, si decise il modello della montatura, ci si congratulò a vicenda e, dopo tre ore, Donato e Sigried uscirono dalla gioielleria. La sera era già ben avanzata; tutti gli altri negozi erano chiusi, mentre la luna cominciava ad alzarsi sopra il Lago Maggiore.

«Sei sicuro?» chiese Sigried.

«Perché? Tu no?» rispose Donato.

«Ma quella pietra, sarà molto costosa…»

«Sì, è molto cara. Solo che io non ho i soldi per comperarne una a buon mercato. Allora, o ti accontenti di una cara che ho trovato nella mia eredità o niente pietra del tutto, chiaro?»

«Mi accontenterò di quella… Ma adesso ho anche fame…»

«Anch’io ho fame!» disse Donato e, correndo, trascinò Sigried per la mano verso l’angolo più scuro e nascosto della riva, la baciò focosamente, alzò la sua gonna lunga e larga, le strappò la mutandina di pizzo che si sbrindellò e fecero l’amore pazzamente, in piedi appoggiati contro il tronco ruvido di una palma altissima, che oscillò come sotto le furie di un temporale equatoriale.

«Ha! Che bontà!» disse Donato. «Adesso, saremo in ipoglicemia e ti porto al pronto soccorso.»

Entrarono nel ristorante Otello, si sedettero in disparte e, quando la cameriera venne a prendere le ordinazioni, Donato, come se fosse andato lì ogni giorno, disse: «Due crêpes al Grand Marnier, con gelato alla vaniglia e crême Chantilly e due bicchieri di frizzantino…»

Sigried lo guardo esterrefatta.

«Sei davvero pieno di sorprese…»

«Sì», rispose Donato «E il peggio deve ancora venire…»

«Ti amerò fin quando continuerai a sorprendermi… Dopo, ne prenderò un altro…»

«Allora, sono tranquillo, perché con quello che so, posso sorprenderti per tutta una vita e con quello che non so… C’è da sorprendere me stesso.»

Sigried si concentrò sulla sua crêpe e, ogni tanto, alzò lo sguardo verso Donato facendo dei “mmh” suggestivi. Poi sembrò sprofondare in un’intensa meditazione.

«A penny for them…» disse Donato, come l’aveva sentito in un film americano.

«Stavo avendo un nobile pensiero», disse Sigried, sorridendo come se stesse sfottendo sé stessa. «Pensavo a questo meraviglioso diamante. Ho letto la storia della colonizzazione del Sud Africa, della scoperta delle miniere e dello sfruttamento sia dei popoli neri che dell’ambiente. È una storia terribile: milioni di uomini hanno vissuto un destino tragico e milioni di chilometri quadrati di natura sono stati saccheggiati dallo scavo delle miniere. Uomini prepotenti e crudeli, come Cecil Rhodes, hanno imperversato solo per cupidigia e sete di potere. E noi sciocche donne, siamo orgogliose di portare al dito i diamanti nati nella sofferenza e nella strafottenza… Se fossi onesta con me stessa, dovrei buttare questa pietra nel Lago Maggiore… D’altronde, se lo facessi, non renderebbe né vita né dignità a coloro che hanno sofferto e nemmeno punirebbe gli sfruttatori… Allora, cosa devo fare? Io amo questa pietra perché è un tuo omaggio e perché è un’espressione straordinaria della bellezza. Quindi porterò questa pietra invece di buttarla nel lago, essendo però cosciente del suo prezzo, non solo in franchi, ma anche in sofferenza e ingiustizia. Ciò mi permetterà di valutarla a un più giusto valore… Se tutti coloro che portano metalli e pietre preziose fossero coscienti del prezzo in vite umane e del sacrificio del patrimonio ambientale, avrebbero più rispetto, più amore, più riguardo…»

«Nobile pensiero davvero», disse Donato alzando gli occhi al cielo.

«Noi sessantottini…» disse Sigried con un sorriso rassegnato.

 

1982

 

Un sabato d’ottobre, tra il periodo di caccia alta e quello di caccia bassa, Donato e Sigried si sposarono nella chiesa di Vergeletto.

Nella nicchia in fondo al coro, l’arcangelo Gabriele discuteva con Maria e ai loro piedi troneggiava un’enorme composizione di gigli bianchi. Nella cappella di sinistra, Sant’Antonio di Padova faceva il conto degli oggetti smarriti che doveva restituire ai legittimi proprietari. Lui aveva ricevuto una composizione di crisantemi del Giappone, bianchi anche loro. Nella cappella di destra, immersa in una nuvola di piccole roselline bianche, Sant’Anna presentava alla piccola Maria il libro sul quale era scritto: «Combattere l’ignoranza!». Nella navata a lato del corridoio centrale, i banchi portavano ognuno un cuscino di gipsofila bianca, nella quale erano intrecciati rami di Phalaenopsis bianchi. Sull’altare, era invece depositata una vaschetta d’argento nella quale galleggiava un’enorme Cattleya blu-malva dell’esatto colore degli occhi di Sigried.

Mai la chiesa di Vergeletto era stata, non solo fiorita, ma veramente decorata con profonda emozione, con slancio addirittura mistico. Questi delicati abbinamenti, non solo erano squisiti, ma chi conosceva il linguaggio dei fiori ne avrebbe capito il profondo significato: la purezza dei gigli bianchi, la verità dei crisantemi bianchi, il merito delle rose bianche, la bellezza delle orchidee. Ovviamente, era stata opera di un famoso fiorista di Locarno.

Ormai Donato era da solo, ma i genitori di Sigried invitarono trecento persone tra parenti, amici e tutta la gente del paese, che fece buon viso…

Donato, che conosceva il fascino della divisa, si presentò al matrimonio nella sua divisa di guardiacaccia. Sigried invece portava una casacca lunga e un pantalone larghissimo di crepe di seta color avorio. Donato le venne incontro e le presentò un mazzo di roselline selvatiche che era andato a cogliere la mattina stessa.

«Stai attenta», disse Donato con un sorriso birichino. «Ci ho lasciato le spine… Secondo il detto che la vita è una rosa, ogni petalo un’illusione e ogni spina una realtà… Donna avvisata…»

«Uomo fregato…» continuò Sigried.

Donato entrò in chiesa al braccio della sua futura suocera, Sigried al braccio di suo padre, poi seguirono i parenti vicini e gli altri rimasero sul sagrato.

Al momento di infilare la fede al dito della sposa, Donato guardò il diamante, la Cattleya sull’altare, gli occhi di sua moglie e pensò che sì, erano tutti dello stesso colore. Ma tra tutti, quegli occhi erano davvero i più belli. Poi sorrise e sottovoce, solo per loro due, mormorò: «Questo anello è una trappola, come una tagliola…»

«Per te o per me?» rispose Sigried ugualmente sorridente e sottovoce.

«Hmm, hmm, hmm…» si schiarì la voce Don Alberto, che aveva intuito che quelle non fossero proprio le parole classiche del nuovo catechismo.

Uscendo dalla chiesa, Donato e Sigried furono accolti dalla parata d’onore: da un lato gli ex colleghi guardie di confine, dall’altro i colleghi guardiacaccia, tutti in divisa. All’improvviso, tutti brandirono la pistola sopra la testa e spararono una salva principesca, che ricordò loro le avventure più rocambolesche della loro vita.

Sul sagrato ci si complimentò, ci si baciò, ci si fece gli auguri e poi tutta la compagnia si diresse verso il fondovalle e il ristorante “La Locanda”, dove Leo sorvegliava la grigliata e Corradino aspettava, impaziente, con la fisarmonica tra le braccia.

 

L’arrivo di Sigried in paese provocò l’emozione che suscita la paura dallo straniero prima che egli sia collocato in una categoria rassicurante. Quella giovane e bella donna, chissà quale demonio nascondeva sotto le sottane… Le tipiche case di Vergeletto avevano i balconi di legno che scorrevano lungo i piani superiori. Era anche usanza appendere il bucato ad asciugare da quei balconi. Ben presto, si sparse l’inquietante notizia che Sigried non portava le mutande. In passato, le donne non portavano le mutande e ci si ricordava che cosa significasse; era una minaccia, come una mina vagante, assolutamente incontrollabile…

Dopo qualche settimana, durante la cena, mentre Sigried stava condendo la lattuga con aceto balsamico della Cantina Delea, Donato chiese ridendo:

«È vero che non porti le mutande?»

«Cosa stai dicendo?»

«Gira voce in paese che non porti le mutande…»

«E perché mai?»

«Perché le pie donne osservano il bucato che stendi sui balconi e non ci vedono mai né mutande né reggipetto… Puoi immaginare il subbuglio…»

«Non ho mai portato il reggipetto e non credo sia il caso di trattare le mie mutandine di seta come i tuoi vestiti da montagna… Non vanno né in lavatrice né asciugate al sole e mi sembra che questi siano affari miei. Dì a queste comari di non impicciarsi.»

«Anzi», disse Donato. «Da adesso in poi, non stendere più nemmeno le mie mutande…»

Quando più tardi diventò evidente che Sigried si faceva i fatti suoi senza interessarsi né partecipare ai pettegolezzi, le donne del paese si sentirono offese perché disdegnate. Sigried non invitò mai nessuno a venire a bere il caffè e, semmai qualcuno tentava di invitarla, lei rispondeva cortesemente che purtroppo non aveva tempo e così rimase fuori dai guai.

 

La vita di Donato sembrò avviarsi verso un ritmo tranquillo e regolato dalle stagioni.

Arrivò anche un bambino, che chiamarono Luca Alberto Wilbur. Luca perché era un nome che piaceva loro, Alberto per riconoscenza a Don Alberto che era stato così importante nella vita di Donato e Wilbur, ormai come un’altra parentela.

Sigried partecipava alla vita professionale di Donato, leggeva le riviste sulla caccia, studiava i libri di etologia, passava ore seduta dietro a un masso per osservare i camosci nella bandita. Insieme, discutevano dei fiori, delle api, degli animali e lei lo portava con la macchina così che potesse arrivare di sorpresa e piombare addosso ai cacciatori e qualche volta anche ai bracconieri.

Non si sapeva mai, dove fosse e cosa facesse e Sigried teneva bene la sua parte nel gioco, dava le risposte giuste al telefono e faceva le domande ingegnose durante le cene.

Donato acquistò una reputazione notevole e spiccava tra i colleghi perché i suoi suggerimenti erano interessanti e le sue obiezioni motivate. Inoltre, era bello lavorare con lui perché sembrava sempre sapere una pagina in più del libro. Quando il vecchio Francesco andò in pensione, era evidente che lui sarebbe diventato il capo dei guardiacaccia.

«Auguri!» disse Francesco stringendogli la mano. «Finalmente ti sei calmato e il posto te lo sei meritato.»

 

1985

 

Fu bandito il concorso e Donato inoltrò la sua candidatura. Fu costernazione generale, quando sul foglio ufficiale, venne pubblicato che non Donato, bensì un oscuro guardacaccia della Val Bedretto era stato nominato al suo posto. Né lui né sua moglie poterono crederci e, a sua insaputa, Sigried chiese un appuntamento col Capo del Dipartimento dell’Ambiente.

«La ringrazio di avermi accordato qualche minuto», disse Sigried col suo sorriso seducente. «Voglio capire quello che è successo con mio marito.»

«Mi dispiace, Signora, questo è segreto d’ufficio. Non posso dire niente. L’unica cosa che posso dire e, solamente con lei, per il bene di suo marito… Ma mi deve promettere la sua assoluta discrezione e non parlarne con nessuno; nemmeno con lui! Ecco, nel passato, ha commesso qualche errore di gioventù imputabile alla sua impetuosità. Non sono errori gravi, ma qualcuno se l’è legato al dito e gli errori si pagano, soprattutto quando vanno di mezzo persone potenti. Non posso dire altro. Capirà che è meglio per tutti osservare la più stretta discrezione…»

Sigried tornò a casa e, durante la cena, dopo il terzo bicchiere di Villa Jelmini della Cantina Matasci, disse sbadatamente: «Insomma, è meglio che tu possa continuare come prima. Se ti avessero nominato, avremmo dovuto traslocare a Bellinzona e, lo sai, io in città non ci so stare… A mio parere, quella decisione non è questione di qualità professionale, ma una qualche volta avrai fatto qualcosa che non sarà piaciuto a qualcuno e quello se la sarà legata al dito… Per fortuna che noi stiamo bene qua.»

«Sì», disse Donato, sorpreso al punto che il vino gli andò di traverso. «Anche a me sarebbe dispiaciuto dover traslocare.» E per conto suo tornò a pensare.

 

Donato non aveva nemici, ma, insomma… Non tutti erano amici. Quando uno fa il poliziotto, la guardia di confine, il guardiacaccia o semplicemente il suo dovere di cittadino, provoca malcontento. I casi erano tanti. In dogana, aveva fatto pagare tasse e multe. Come guardiacaccia, aveva dato altre multe, ritirato patenti, confiscato fucili e prede. Addirittura, qualcuno gli aveva sparato dietro e, quando fu interrogato dalla polizia, questo disse semplicemente: «Non ho visto che era il guardiacaccia. Ho visto muoversi qualcosa, ho pensato che fosse una beccaccia…»

Insomma, scambiare un guardiacaccia per una beccaccia era un po’ grossa… Però, le cose stavano ancora peggio se uno vedeva gli scandali e li denunciava. Tutti sapevano che tale maestro di scuola aveva preso la carica solamente perché era del partito giusto, sotto la legislatura giusta. Quando Donato aveva cominciato a reclamare in municipio, gli era stato risposto: «Ma fregatene. È così dappertutto; se sei nella manica, sei dalla parte giusta. Queste sono tutte sinergie. Invece di borbottare, prova anche tu a fare un qualche piacere e vedrai, anche tu avrai un tornaconto…»

L’educazione alla moda vecchia ricevuta dai preti e la vita militare avevano forgiato il carattere di Donato, che non riusciva a scendere a quei compromessi: la guerra sì, la corruzione no…

Quando aveva costruito la casa nuova, aveva pagato un architetto per fare le cose in ordine, rispettando la legge e le ordinanze. Quando aveva visto in giro gli abusi edilizi - qui una mansarda, là un garage, altrove una discarica abusiva - e ne vedeva ogni giorno, li aveva denunciati.

Addirittura, conosceva un sindaco che di professione era imbianchino e accordava i permessi di costruzione a condizione che la sua ditta imbiancasse l’immobile nuovo! Per non parlare delle stalle che non rispettavano le norme dell’igiene, dei tagli abusivi di alberi, delle strade private concesse per favore, delle strade agro-silvo-pastorali che non conducevano a null’altro che a monti privati… E senza parlare nemmeno di un certo piano regolatore… In vent’anni di vigilanza, Donato aveva visto un campionario d’infrazioni alla legge che sorpassava ogni immaginazione e, lui, da funzionario cosciente del suo dovere, aveva denunciato, multato, ricorso e, probabilmente, non tutti erano rimasti amici…

 

C’era anche stato un episodio tragico: egli aveva interpellato un gruppo di banconieri. Nel tentativo di fuggire, uno di loro era scivolato e si era ammazzato e gli altri avevano promesso di mai dimenticare…

 

Poi c’era una storia, sì, piccante, però anche noiosa. Un giorno, una magnifica giornata di settembre, mentre osservava due cacciatori che si comportavano in maniera più che sospetta, Donato era arrivato su un monte sul quale si trovavano diverse costruzioni. Una di queste cascine apparteneva a un avvocato ben conosciuto, che con un’esagerazione di voli d’elicottero l’aveva fatta riattare. Il prato era stato vangato. L’elicottero aveva portato diversi carichi di terra buona e letame. Un giardiniere era venuto per seminare erba inglese e, ora, la tagliava regolarmente. Al posto della vecchia fontana, adesso si trovava, al centro d’un tempietto rotondo, una vasca a forma di conchiglia con, in mezzo, un delfino di marmo bianco dalla cui bocca sgorgava un getto d’acqua, alla maniera delle fontane di Versailles. La vasca era abbastanza grande per poter servire da doccia. Lungo le cinque colonne di granito chiaro che supportavano la cupola del tempietto, erano state piantate rose arrampicanti di color zafferano che fiorivano abbondantemente. Dall’altra parte del prato, all’ombra di un pergolato, erano stati depositati un tavolo, due panchine e un camino per fare le grigliate, il tutto naturalmente di granito e portato dall’elicottero.

Donato conosceva il posto e aveva seguito l’evolversi dei lavori con meraviglia, perché questo tipo di raffinatezza era a dir poco inconsueto in montagna. Anzi, c’era da chiedersi sotto quale dicitura fosse stata classificata la domanda di costruzione, supponendo che ci fosse stata.

Donato si avvicinò, sorpreso di sentire prima il profumo di carne ai ferri, poi voci e schiamazzi. Di colpo, si trovò completamente sbalordito davanti alla scena più stravagante che potesse aspettarsi. In mezzo al prato, cinque uomini, personaggi conosciuti - un giornalista, un medico, un impresario, il suo associato architetto e l’amico avvocato - tutti sposati e padri di famiglia e tutti e cinque completamente nudi, in atteggiamenti “bucolici”… fino al punto di piantarsi fiorellini tra i peli e nei capelli. Si rincorrevano sul prato in punta di piedi, come i satiri della Grecia antica o i “balabiott[33]” del Monte Verità. In più, e questo per dei quarantenni era la cosa più ridicola, si parlavano imitando il verso degli animali. Uno faceva la capra, un altro la gallina, un altro faceva «cip cip» battendo le ali, uno faceva «bau bau» e l’avvocato miagolava come una gatta in calore. E questo li faceva ridere fino alle lacrime. Peggio di un film di Fellini.

Donato si fermò di colpo, ma ormai stava già in mezzo al prato. Tutti si bloccarono, uno corse a rifugiarsi nella cascina, un altro saltò nella vasca della fontana e altri ebbero addirittura la sfacciataggine di far finta di coprirsi pudicamente, per quanto lì di pudore non ce ne fosse affatto.

Sorpreso, Donato non aveva trovato altro da dire che: «Scusate il disturbo… Arrivederci e buona continuazione…» Poi, per conto suo, «Che depravati! E pensare che è proprio quella gente lì che ti fa le prediche e si comporta da sbruffone…»

Questi signori potevano non aver dimenticato la sua visita improvvisa.

 

In un’altra occasione, durante una delle sue perlustrazioni, Donato aveva trovato in mezzo al bosco un campo di bellissime piante dalle foglie elegantemente frastagliate.

«Che pianta è?» chiese Donato all’uomo che ci stava lavorando.

«Sono pomodori tibetani», rispose l’altro senza batter ciglio.

Col grande viavai e la moda dei viaggi in Oriente, nessuno si sarebbe meravigliato che qualche alternativo avesse coltivato i pomodori tibetani. Però, a Donato, qualcosa sembrò strano, ma fu solo qualche giorno più tardi, mentre stava sotto la doccia, che gli venne il vero dubbio: se fosse stata una coltura banale perché mai avevano piantato quel campo in mezzo al bosco e non semplicemente in campagna sotto il paese?

Donato chiamò i suoi ex-colleghi doganieri e diede le coordinate del famoso campo.

«Avevi proprio ragione», gli disse Marzio. «Ti ricordi i pomodori tibetani? Ebbene, i pomodori tibetani, di fatto, erano canapa indiana… Abbiamo poi fatto un paio di voli con l’elicottero e non era l’unico campo».

Certamente, la denuncia di Donato aveva causato una perdita di guadagno considerevole e, anche in questo caso, qualcuno se lo ricordava.

 

In ultimo, naturalmente, c’era la storia del Colonnello e delle fragole…

Era probabile che uno di questi avesse messo lo zampino nella sua mancata nomina. Ma l’esperienza aveva insegnato qualcosa.

«Bene», pensò Donato. «Me la fanno pagare? Benissimo; anch’io gliela faccio pagare e se ne ricorderanno…»

 

Un giovedì mattina, Donato scese nel Sottoceneri e si recò negli uffici della SocEl (Società Elitrasportatori).

«Ciao Andrea!» disse Donato.

«Ciao, vecchia volpe», rispose Andrea.

«Come vanno gli affari?»

«Come vedi: ho appena comperato un nuovo Superpuma[34]; non è un Kamov, ma insomma tira già mica male. Mia moglie fa una crociera nei Caraibi, i nostri figli sono in collegio in una scuola Steiner in Svizzera interna… Hai bisogno?»

«Sì, avrei proprio bisogno di un piccolo piacere.»

«Te l’ho detto quel giorno: non ti ho mai dimenticato. Anzi, di te mi ricordo tutte le mattine quando apro le porte e guardo la mia voliera… Vieni a vedere: due Alouette, un Lama, un Puma e un Superpuma nuovo fiammante… Mica male per un principiante…»

«Ma non ti hanno mai chiesto da dove ti viene la grana?»

«Sai, le banche, i sussidi, la LIM,  i contributi, gli assegni per i figli e tutte quelle balle lì…»

«Stai scherzando…»

«No, dammi retta. Se rubi cinque centesimi sei un ladro; se rubi cinque milioni sei un commercialista… E io, non ho mai rubato un franco… Lo sai bene anche tu…»

«Ecco», disse Donato seriamente mentre chiudeva la porta dell’ufficio. «Adesso, io ho bisogno dell’interesse del “capitale” che, si fa per dire, abbiamo investito a Brissago dieci anni fa… Ti ricordi? Beh, mi serve che ricambi quel “piccolo favore”…»

«Tu ed io siamo in società. Ho saputo che sei sposato anche tu. Hai bisogno di soldi?»

«Dunque», disse Donato. «Mi hanno fatto uno sgambetto che non mi è piaciuto affatto… Ho bisogno che tu mi faccia un paio di trasporti».

«Solo quello? Ti mando Nicola domani mattina… È il mio miglior pilota.»

«No», disse Donato scuotendo la testa in maniera molto pensierosa. «Ho bisogno di un lavoro pulito, senza testimoni e con la garanzia di bocche chiuse.»

«Ma, dimmi, stai per fare il desperado anche tu?» chiese Andrea con gli occhi scintillanti. «Cosa vuoi fare?»

«Non te lo dico. Mi basta che al giorno che ti dico, tu stai lì col tuo velivolo, agganci la rete, me la porti dove ti dico io, la lasci dove ti dico io e ritorni quando lo dico io… Non devi sapere altro.»

«No problem», disse Andrea. «Sono il miglior pilota della confederazione, come se avessi fatto l’apprendistato in Vietnam… Quando vuoi, ci facciamo un Apocalypse Now coi fiocchi.»

«No!» disse Donato. «È piuttosto il contrario… Ni vu, ni connu[35]… Nessuno deve sapere né vedere… Facciamo un’operazione di “intelligence”.»

«Merde alors!» disse Andrea, che durante le trattative per acquistare i suoi velivoli negli uffici dell’Aerospatiale a Marignane, aveva imparato il francese. «Adesso sì che mi piaci… Ho sempre pensato che fossi uno sbudellato. Invece così, amico mio, sono dalla tua parte… Ho qua un prototipo di GPS che ci permette addirittura di volare di notte o con la nebbia… Non sai quanto mi annoio in ufficio con queste segretarie che hanno sempre le loro cose, i clienti che rubano sui minuti e le tasse che ti spremono… Se siamo in società, è anche giusto dirmi cosa, come, quando…»

«Quando, te lo dirò. Come, te lo dirò. Quanto a cosa, non devi nemmeno pensarci… Capito?»

«Ma sei diventato peggio di un boss mafioso… Ehi, ragazzo, dov’è che hai fatto la scuola?»

«Non ho fatto nessuna scuola. È genetico… Dalla parte di mio padre… C’è tutto un mondo da scoprire.»

«Ma se non ce l’hai nemmeno, il padre…»

«Questo lo dici tu…»

«Ok», disse Andrea. «Però fammi sapere il giorno prima: anche un volo pirata devo farlo figurare come assolutamente regolare…»

 

1985

 

Da una cabina telefonica, Donato chiamò suo cognato.

«Eric, ciao, sono Donato… Sì, sì, tutto bene… Ma devo parlarti in privato, senza donne e senza famiglia…»

Passarono diverse settimane e, una mattina, Donato prese l’autostrada del Gottardo con la scusa di andare a vedere i nuovi modelli di carabine dall’armaiolo a Malters. Invece, si fermò al ristorante autostradale di Erstfeld.

Eric lo aspettava già.

«Ciao!» disse Eric.

«Ciao!» rispose Donato.

Presero un caffè e dei cornetti caldi.

«Cosa c’è di così importante da fare queste manovre segrete?»

«Se mi beccano, vado in galera, mi vendono la casa e tua sorella si farà il marciapiede o te la tieni tu con mio figlio…»

«No!» disse Eric. «Mia sorella no! L’ho sopportata vent’anni. Mai più, mai più! Cosa vuoi?»

«Non fare domande. Tu sei cacciatore, sei dentro in tutte quelle cose… Ho bisogno di sei coppie di cinghiali giovani e vivi. Una ogni due mesi.»

Eric rimase interdetto, ma la faccia di Donato era seria.

«D’accordo, nessun problema. Quando vuoi, come vuoi… Però vengono dall’estero. Se è una cosa confidenziale, non so come farai a dichiararli in dogana.»

«Con le dogane m’arrangio io… Acqua in bocca.»

«Acqua in bocca».

 

Il resto fu un gioco da ragazzi.

Eric confermò a Donato che il furgone sarebbe arrivato. Donato fece visita ai suoi ex-colleghi, vide chi era di servizio, si avvicinò a una guardia dicendo sottovoce: «Ti ricordi il filetto di camoscio al ginepro? E le trote al vino bianco? E i merli in umido? Beh, allora ricordati che quando passerò tra mezz’ora sarà proprio il momento giusto per andare a berti un caffè…»

Imbarazzata, la guardia volle rispondere.

«Grazie amico!» disse Donato. «Ho sempre saputo che su di te potevo contare, soprattutto da quando vai a caccia e ti ho visto in compagnia di una che di sicuro non era tua moglie…»

Partì per l’Italia e, quando tornò mezz’ora dopo, la guardia gli chiese: «Merce da dichiarare?»

«Nessuna merce, solo effetti personali…»

«Passare!» disse la guardia facendo il saluto militare.

 

Quella sera, all’imbrunire, Andrea aspettava con l’Alouette in una piazzuola discreta, in una valle discosta. Donato aprì le porte del furgone, ne estrasse il sacco bianco che si usa per i trasporti, lo agganciò al cavo e si sedette vicino ad Andrea.

Tre minuti dopo, erano al posto giusto; Donato scendeva, apriva le gabbie, faceva fuggire i cinghialetti nel bosco, risaliva sull’elicottero, tornavano al posto di partenza ed era tutto lì… Davvero, ni vu, ni connu… Un volo ogni due mesi, per dodici mesi.

«Siamo pari», disse Donato ad Andrea stringendogli la mano, dopo l’ultimo volo.

«Adesso, silenzio e pazienza.»

«Quando vuoi, amico! E mi raccomando, le costine piacciono anche a me…»

«Non solo le costine; vuoi ben vedere il filetto al pepe verde…»

 

1986

 

Passò un anno e poi, tutto d’un tratto, scoppiò la bomba…

Saltavano cinghiali dappertutto. Qui un prato era rovistato, là un campo era spianato. I campi di granoturco diventarono il bersaglio favorito dei buongustai a quattro zampe, che uscivano di notte dalla foresta, facevano baldoria e sparivano com’erano venuti. I contadini si arrabbiarono terribilmente perché i loro prati erano sottosopra e non era più possibile falciarli con le macchine; si doveva fare tutto il lavoro a mano come cento anni prima…

I prati verdi intorno alle cascine di vacanza furono “vangati” e sembrarono peggio di campi di patate. Qualche giorno prima della vendemmia, i vigneti furono saccheggiati. In più, qualche furbo pensò bene di lanciare la voce che i cinghiali mangiavano i bambini, provocando indignazione e terrore tra le pie donne dei paesi.

Il colpo finale lo diedero i cacciatori che, impreparati di fronte al nuovo animale selvatico, spararono all’animale più grosso invece che ai più piccoli e così uccisero le femmine trainanti che disciplinano il branco. Le bande di giovani disorientati esplodevano provocando nello stesso tempo l’esplosione dei danni… Un caos generalizzato!

Quando s’iniziò a chiedere da dove erano venuti questi animali, i giornali si riempirono di teorie. Qualcuno spiegò che durante uno degli ultimi inverni le importanti nevicate avevano abbattuto i recinti di un allevamento e così gli animali erano scappati. Altri dissero che i cinghiali avevano semplicemente varcato i confini dei paesi confinanti dove erano presenti da sempre.

L’ufficio caccia e pesca si strappava i capelli. Ogni giorno, arrivavano richieste di risarcimenti e domande per autorizzazioni speciali di “guardiacampicoltura”. Ogni settimana, il capo dell’ufficio doveva presidiare conferenze e serate. Sul governo piovvero interpellanze. Gli ambientalisti si scatenarono contro i cinghiali per vendicarsi di tutti i piani regolatori che erano stati sottratti ai loro ricorsi e iniziarono a ipotizzare il ritorno del lupo…

Addirittura, il professor Boïtani, il “papà dei lupi”, sarebbe venuto a fare una conferenza ai Ronchini di Aurigeno.

La bomba cinghiale era scoppiata e il Ticino non dormì più.

«Che noia», disse Donato a Sigried. «Adesso ci faranno girare anche di notte…»

«Allora», rispose Sigried mentre spalmava il burro sul suo toast. «Dovremo scopare di giorno, come ai bei tempi…»

«Incredibile», pensò Donato. «Pensa solo a quello… Sono davvero un uomo fortunato.»

 

Intanto, ogni notte, all’improvviso, i branchi di cinghiali uscivano dal bosco e, usando la testa come aratri e il loro grugno come vomere mobile, partivano a caccia di radici, vermi, topi e insetti, lasciando dopo le loro scorrerie un subbuglio indescrivibile. Altri gruppi facevano man bassa dell’uva matura nei vigneti, altri si godevano scorpacciate di lattuga e carote negli orti e tutti si abbuffavano di mirtilli, funghi e castagne.

Gruppetti di cacciatori passarono le loro notti in agguato, ma i cinghiali, che avevano un olfatto particolarmente efficace, sentivano la loro presenza e cambiavano zona come per prenderli in giro. Ci furono anche azioni vergognose: persone senza scrupoli depositarono mele in recinti, attirarono i cinghiali e li massacrarono provocando subito urla d’indignazione da parte degli animalisti. La confusione diventò generalizzata e grandiosa.

Tutte le volte che si parlava di cinghiali con Donato, egli assumeva un’espressione enigmatica e rispondeva: «Quello è il ritorno della biodiversità. È il futuro che avanza…»

 

 

 

5. Eva

 

1986

 

La famiglia Edelmann non era particolarmente religiosa. Erano degli Ebrei “laici”, se si poteva immaginare che gli Ebrei potessero essere laici. Tuttavia, frequentavano regolarmente la sinagoga e, soprattutto, la biblioteca del Centro Culturale che ne faceva parte.

«Figli miei», diceva Jacob Edelmann. «Studiate, leggete, imparate, perché un Ebreo stupido può solo suicidarsi. Anzi, geneticamente, ci siamo trasmessi l’obbligo di essere i migliori…»

«Dai, papà», rispondevano i figli. «Anche noi abbiamo il diritto di essere stupidi…»

«No! Assolutamente no! Se sei stupido, sei fregato. Allez: Avanti, leggimi questa pagina dello Stato Ebraico. Vedi, quel Theodor Herzl aveva capito tutto… E per favore, cura il tuo accento. Se un israeliano ti sentisse, ti riderebbe in faccia… Bene, adesso traduci questa pagina in inglese; è un ottimo esercizio… Avanti, da questa frase in poi: “Se lo vorrete, non sarà un sogno”, eccetera. Avanti! Ricordati che non usiamo nemmeno un millesimo delle possibilità del nostro cervello perché siamo pigri e un Ebreo non può essere pigro…»

«Papà, sei veramente pesante», sospirava sua figlia. «Per oggi basta…»

Per la famiglia Edelmann, la biblioteca, il Centro Culturale e la rete informatica che si stava sviluppando erano pane quotidiano.

 

Dopo il soggiorno di Ariel, gli Edelmann avevano contattato i loro conoscenti e sparso la voce che un loro amico era alla ricerca delle tracce di sua sorella. Tracce che si fermavano nel 1943 a Stresa.

Grazie al Centro Culturale, riuscirono a contattare le diverse comunità ebraiche e, un giorno, Jacob ricevette una telefonata da Lugano che segnalava una certa famiglia Falchetto a Obfelden.

Il Signor Edelmann prese contatto col Signor Falchetto e spiegò di nuovo tutta la storia.

«Sarà meglio che ci incontriamo», disse il Signor Falchetto.

S’incontrarono e, dopo le solite presentazioni e banalità, il Signor Falchetto disse: «Nel 1943, ci è stato affidato un bambino; era orfano. I suoi genitori erano morti in condizioni assai misteriose mentre scappavano dall’Italia per rifugiarsi in Svizzera. Questo bambino si chiamava Joshua, ma io l’ho adottato, è diventato mio figlio e ha preso il mio cognome. Joshua adesso è un uomo di quarantacinque anni, è sposato e ha una figlia… Non so se sia giusto riesumare queste vecchie storie dopo quasi cinquant’anni…»

«Non sono io che lo cerco, ma suo zio: il fratello di sua madre. La nostra ditta è associata con la loro. Suo zio non è sposato e non ha figli… Se avesse un erede, morirebbe più tranquillo e, se sapesse che ha potuto fare qualcosa per il figlio di sua sorella, morirebbe felice…»

«Devo chiedere a Joshua. È lui che deve decidere.»

 

1987

 

«Ariel», disse Nora una sera tornando dall’Ufficio. «Credo di avere per te una notizia straordinaria…»

«L’unica notizia che potrebbe essere straordinaria è che mi regalano un kibbùtz con una piantagione di mandarini e un pezzo di spiaggia sul Mar Rosso…»

«Banale… Questo ce l’hai già; puoi andare in Israele quando e come vuoi… No, molto più straordinario… Forse abbiamo ritrovato tracce di tua sorella.»

«Lea? Dov’è?»

«Non so molto. Ho ricevuto una telefonata in ufficio. Quell’Edelmann di Zurigo ci chiede di andare a trovarlo…»

 

Quando arrivarono a Zurigo, la famiglia Edelmann invitò la famiglia Falchetto e, con loro, Joshua.

La cena fu lunga e finalmente, quando si arrivò al sigaro, Joshua e Ariel si appartarono nell’ufficio del Signor Edelmann.

«Lei sarebbe mio zio?» chiese Joshua.

«Lo spero», disse Ariel. «L’unica cosa che posso dirti è che mia sorella si chiamava Lea Levi, che si era sposata con David Coin di Venezia e avevano un bambino che si chiamava Joshua. Poi sono capitate cose terribili, hanno voluto fuggire e si sono rifugiati in Svizzera. Poi, si perdono le loro tracce a Stresa…»

«Allora non c’è dubbio», disse Joshua.

«Un’ultima cosa», disse Ariel mentre apriva il collo della camicia e ne estraeva un ciondolo a forma di stella di Davide. «Un gioiello simile, l’hai mai visto?»

«Sì», disse Joshua. «Anch’io ho la stessa». Gliela fece vede: le due stelle portavano nel loro centro lo stesso diamante.

«Allora davvero non c’è dubbio», disse Ariel. «Questa è una vecchia tradizione nella nostra famiglia. Probabilmente, da quando abbiamo cominciato a lavorare i diamanti. E noi siamo diamantari da sempre.»

«Anche mia figlia un giorno la porterà», disse Joshua sorridendo.

«E tua madre?» chiese Ariel. «Cos’è capitato a tua madre?»

«Non l’ho mai saputo esattamente. Ero molto piccolo. Ricordo che eravamo vicino a un grande lago, poi una sera siamo partiti con una macchina. Dovevamo nasconderci e io non potevo parlare. Abbiamo viaggiato tutta la notte e mi sono addormentato… Poi siamo rimasti in un fienile. Era una vecchia casa di sasso senza finestre e c’era solo fieno. Alla sera, siamo partiti a piedi per un sentiero. Eravamo forse dieci persone; abbiamo camminato nel buio… La mamma era molto stanca. Io ero così piccolo; stavo in piedi difficilmente e avevo una grande paura. Correvo il più velocemente possibile. Poi, un uomo ha gridato qualcosa e tutti si sono messi a correre. Io ho corso, ho seguito e quando ci siamo fermati, eravamo in un prato. Sotto di noi, c’erano dei paesini di montagna. C’era una grandissima montagna davanti a noi, dall’altra parte della valle. Non una punta come il Cervino; era piuttosto una lunghissima parete di roccia… Io ero lì da solo, con gente che non conoscevo. Chiedevo della mamma, chiamavo la mamma, ma non l’abbiamo mai più vista. Abbiamo aspettato, un uomo è tornato indietro per vedere dov’erano rimasti gli altri. Poi mi hanno detto che la mamma non sarebbe più venuta e mi hanno portato con loro, non so dove. Mi hanno portato qui dalle persone che mi hanno adottato. Non so niente di più. Ero piccolo. A volte mi chiedo quanto mi ricordo davvero, quanto mi è stato raccontato…»

«Saresti capace di riconoscere quella montagna e quella valle?»

«Sì, quella montagna, sì! La ricordo come se fosse ora davanti a me. Potrei anche disegnarla.»

«Non hai mai fatto ricerche?»

«No, mi sono abituato all’idea da piccolo. Ho la mia famiglia adottiva. Loro mi hanno sempre trattato come loro figlio e, se cercassi i miei genitori, mi sembrerebbe scorretto nei loro confronti… Mi hanno dato tutto e gliene sono riconoscente. Lavoro nella loro impresa e un giorno sarà mia».

«Sei sposato e hai una figlia, giusto?»

«Sì, mia moglie Esther è maestra di musica. È una brava pianista. Mia figlia Eva ha ventiquattro anni; lavora per una società internazionale e viaggia molto. Eva è spesso in Israele. Quando era più giovane, passava tutte le sue vacanze in un kibbùtz e credo che là abbia un paio di spasimanti… Spero che avrai piacere di incontrarle».

«Certo, sarei molto felice di conoscerle. La nostra famiglia è decimata; i superstiti devono stare vicini gli uni agli altri».

Poi si guardarono e rimasero in silenzio. Ariel prese le mani di Joshua tra le sue, le portò alle sue labbra e pianse. Dopo tutti quegli anni, ecco sua sorella, la sua piccola, fragile sorellina tramutata in un giovanotto solido e deciso. La vita era proprio un mistero.

«Domenica abbiamo una festa», disse finalmente Joshua per uscire dall’imbarazzo. «Spero che verrai con Nora».

«Certo», disse Ariel.

Poi continuarono a parlare di Nora, della famiglia a New York, degli affari e della Blue Star.

 

1987, continua.

 

Quella domenica, i saloni del Centro Culturale accanto alla sinagoga erano affollati. Gli uomini portavano il completo scuro, le donne vestiti eleganti e Nora, per l’occasione, vestì un modellino di Lanvin di seta bianca con disegni in dégradé nero e grigi e una sciarpa inserita in una spalla penzolava dietro la schiena. Il tutto era messo in risalto da una parure di perle, discreta ma bella. Nora non portava più i capelli lunghi; non erano cortissimi, ballavano attorno al suo viso e sopra le spalle. Sembrava ringiovanita.

Quando entrarono, Joshua venne verso di loro e li accompagnò al buffet, dove già diverse persone stavano chiacchierando con in mano un bicchiere di champagne.

Poi arrivarono Esther ed Eva e seguirono le presentazioni. Esther guardò Ariel con gli occhi traboccanti di ammirazione: «Ma è veramente lei? Ho assistito a tanti suoi concerti. Non sa quanto sono felice di conoscerla di persona!»

«Ti prego, Esther. Sono tuo zio, dammi del tu.»

Tutti si servirono e continuarono a passeggiare chiacchierando e scherzando. I biscotti cosparsi di semi di sesamo erano deliziosi e qualcuno aveva portato un enorme vassoio stracolmo di dolci al miele, con datteri, pasta di mandorle e creme di pistacchio che si abbinavano magnificamente con lo champagne.

«Signor Levi!» disse un signore che Ariel aveva incontrato diverse volte negli uffici della Blue Star. «Sempre in giro!»

«Ormai», rispose Ariel ridendo. «È un privilegio, ma anche un grande spreco di energia…»

«È da tanto che è stato in Belgio? Come va la barca dei folli?»

«Ha detto bene!» disse Ariel. «Lei si ricorda come il Belgio fosse un paese unito, serio, pulito. Anzi, fin troppo tradizionalista. Ebbene, adesso è il caos totale, con quelle storie tra Fiamminghi e Walloni. Addirittura, le istituzioni sono state scisse in walloni e fiamminghe. L’Orchestra Nazionale, per esempio: ora ce ne sono due e quando m’invitano, una volta devo suonare “in francese” e l’altra volta devo suonare “in fiammingo”… Tra l’altro, se si va a Bruxelles, di Belgi non se ne incontrano più. Con le istituzioni internazionali, s’incontra gente di tutti i colori e di tutte le razze e si sentono tutte le lingue salvo la nostra… Babele non era nulla a confronto. L’ultima volta che sono stato a Bruxelles, non era più il mio paese.»

«Non è solo a Bruxelles. In Gran Bretagna è lo stesso; hanno l’immigrazione dal loro Commonwealth…»

«La Francia è colonizzata dai suoi ex-colonizzati.»

«L’islamizzazione dell’Europa», disse Ariel pensieroso. «Chi l’avrebbe mai pensato?»

«Hanno letto il Libretto Rosso di Mao Tse-tung… “Il soldato deve essere nel popolo come il pesce nel mare”. Ebbene, il Terzo Mondo sta mandando la sua avanguardia, come preconizzava Machiavelli. E una mattina ci sveglieremo con l’appello del muezzin.»

«Ma non crede che da buoni Ebrei siamo diventati paranoici?»

«Dicevano così prima della guerra. Poi ha visto che non era paranoia… Però, oggi, Israele c’è.»

 

Mentre Ariel e il Signor Zimmermann continuavano la loro fantascienza politica, un signore si diresse verso il centro della sala, batté le mani, chiese il silenzio e disse: «Amici! Prima di tutto, grazie per essere venuti numerosi alla nostra festa. Oggi, siamo onorati dalla presenza di due persone importanti che hanno dedicato la loro vita alla nascita e alla crescita della nostra Terra Promessa: abbiamo tra noi il grande violoncellista Ariel Levi e il famoso Colonnello dell’aviazione militare israeliana, Wilbur John Erel. Desidero esprimere a nome di tutti la nostra gratitudine e la grande gioia di poter, insieme a queste due figure eroiche, bere alla Vita: L’chajim

Poi andò verso un signore molto alto, anziano, coi capelli completamente grigi e il viso abbronzatissimo, che spiccava perché invece del completo nero indossava una divisa militare chiara.

«Thank You», disse il Colonnello mentre alzava il suo bicchiere per brindare.

«Oh! Dio!» pensò Nora, che fu sul punto di svenire. «È lui! L’uomo dal cappotto… È lui!»

Nora chiuse gli occhi. Non ebbe nemmeno bisogno di guardare; quella maniera di dire “thank you”, l’avrebbe riconosciuta tra mille altre. Risuonava incisa nella sua memoria, come in un long-playing. I brividi scorrevano lungo la sua colonna vertebrale e le stringevano la nuca, come una mano ghiacciata.

Insensibilmente, Nora si avvicinò. Poi, nel suo inglese dal forte accento americano, gli chiese:

«Come mai in Svizzera, Colonnello?»

«Mia cara», rispose con evidente disinvoltura. «Noi militari israeliani serviamo la patria fino alla morte. Perciò, anche se siamo in pensione, rimaniamo comunque sulla breccia… C’è sempre una piccolezza da fare… Ci tiene giovani.»

Davvero era rimasto un bell’uomo, anche se adesso doveva avere settantacinque anni. Gli occhi neri avevano acquistato più fascino nel viso segnato dalla vita: occhiaie, rughe, tempie grigie e quell’abbronzatura intensa che ricordava il colore della terracotta.

«Non sarà la prima volta che è in Svizzera?», chiese Nora.

«No, anzi. Ci vengo ogni tanto.»

«A vedere quanti amici ha, suppongo che ci viene da lungo tempo…»

«Ah», disse il Colonnello alzando la mano in un segno di piacevole ricordo. «Ero ben giovane quando ci sono passato per la prima volta… Lei, cara, probabilmente non era ancora nata.»

Poi, con un sorriso tenero e lo sguardo eloquente, aggiunse: «La prima volta erano tempi brutti. Anzi, estremi… Durante la guerra, parecchie volte ho sfiorato il peggio. Però, qualche volta… Addirittura, se oggi sono qua, lo devo a una ragazza che mi ha salvato la vita. È un po’ complicato e non desidero svelare i miei segreti… Basti dire che mi sono trovato in condizioni disperate. Ero ricercato e inseguito da tutte le parti. Ebbene, quella ragazzina mi ha nascosto, mi ha ridato coraggio e la forza di continuare a lottare… Questa ragazzina mi ha veramente salvato la vita. Ragazzina, si fa per dire… Sarà invecchiata anche lei. Se vive ancora, avrà forse tra i cinquanta e i sessant’anni…»

«Non l’ha mai rivista?»

«Dopo la guerra, ho continuato la lotta di ogni giorno in Israele; non c’è stato tempo da sprecare, ma non l’ho dimenticata…»

«Senz’altro nemmeno lei l’avrà dimenticato.»

«Chi lo sa…»

«Raramente le donne dimenticano uomini affascinanti come lei. E chissà, forse in un qualche modo, anche lei avrà salvato la vita di questa ragazza…»

«Chi lo sa? Ogni tanto si vorrebbe sapere e ogni tanto mi dico che forse è meglio lasciare dormire il passato.»

«In Israele avrà la sua famiglia.»

«My dear, sono un uomo vecchio… Le cose vissute sono molte. Avevo incontrato una donna in gamba: era Maggiore nelle truppe di trasmissione. Ci siamo sposati, abbiamo avuto dei figli, poi quando tutto sembrava evolvere verso tempi più tranquilli, lei è stata uccisa sul confine con la Siria… Un’incursione dell’OLP. I miei figli sono dei veri sabra[36]. E, dopo la morte della loro madre, hanno intrapreso la carriera militare anche loro».

«Sì», disse Nora molto pensierosa. «Il Golan rimane un grosso problema…»

«Lei s’interessa del nostro paese?» chiese il Colonnello sorpreso.

«Marginalmente…»

Era troppo. Nora non riuscì ad andare avanti; le girava la testa e le ondate di brividi adesso partivano dal suo plesso solare e la invadevano tutta, fino alla punta delle dita. Quell’uomo era straordinario…

«Ma allora», pensò Nora all’improvviso. «Mio figlio è mezzo ebreo anche lui…»

«Servizi segreti a colloquio?» chiese Eva scherzando mentre raggiungeva Nora e il Colonnello. «Oppure ci degnerete della vostra attenzione?»

«Ogni Israeliano è un agente segreto», disse il Colonnello sorridendo a Nora come per spiegare la battuta di Eva. «Altrimenti, come faremmo a resistere alla pressione costante che ci circonda?»

«Appunto, con la musica», disse Eva. «La musique adoucit les moeurs[37] e mia mamma è già al pianoforte. Lo Zio Ariel ha accettato di suonarci qualcosa, anche se qua non ha che un misero violoncello in prestito».

Seguì un brillante Fünf Stücke im Volkston, op. 102 di Robert Schumann.

Mentre esplodevano le ovazioni, Ariel si alzò, prese la mano di Esther, si chinò sopra e ci depositò un bacio. Poi, rivolgendosi ai presenti, disse commosso: «Io non ho figli. Oggi, ho ritrovato non solo dei nipoti, ma anche la più seducente pianista con cui abbia mai avuto la gioia di suonare…»

Gli applausi raddoppiarono.

«Adesso, specialmente per i nostri illustri ospiti», disse Eva mentre si avvicinava al pianoforte con un cenno complice a sua madre. Esther suonò qualche accordo introduttivo, poi con una voce brillante, Eva intonò: «A vir har im tsa lul ka ya in ve re ach o ra nim ni sa be ru ach ha ar ba im im kol pa a mo nim[38]…»

La commovente canzone era nata in Israele dopo la guerra del 1967 ed esprimeva l’aspirazione del popolo ebreo a ritornare a Gerusalemme; nell’ultima strofa, il canto raccontava la realizzazione del sogno.

Tutti ripresero in coro: «Yerushalayim shel zahav[39]…» E dopo gli applausi, Eva disse con un sorriso birichino: «Vede, Colonnello? Non è inutile mandare le ragazze svizzere nei kibbùtz…»

«Non ne dubito, affatto…»

Eva era raggiante e spiccava tra le altre donne a causa dei suoi lunghi capelli biondi e del vestito stravagante firmato Zandra Rhodes, che aveva portato da Londra: sandali dorati col tacco, una gonna fucsia scuro seminata da paillettes dorate. Sopra, un corpetto attillato, una casacca di crepe di seta trasparente color fucsia chiaro e rosa, abbondantemente ricamata d’oro e annodata alla vita da una larga cintura di satino dello stesso fucsia della gonna. Rossetto rosa intonato con la casacca e orecchini d’oro con enormi pendenti. Era straordinariamente vistosa e magnifica.

Rivolgendosi a Joshua, il Colonnello disse: «Tua figlia è splendida. A questa età sono belle e non sanno quanto sono provocanti… Se avessi qualche anno di meno… Più divento vecchio, più mi piacciono le donne e meno piaccio loro… Sarà un castigo di Dio per il vecchio peccatore che sono.»

Il pomeriggio e buona parte della serata trascorse con canti, musica e gioiose chiacchierate. Una festa, una bella festa…

 

Nora si era appartata, poi era andata sulla terrazza e si era seduta su una panchina tra i cespugli di caprifoglio e clematide.

Ora le diventava chiaro. Non tutto, ma molto. Quell’uomo… Sì, quell’uomo, lui e solo lui. Se fosse stato presente, lei sarebbe stata capace di accettare un figlio; non sarebbe fuggita, non avrebbe voluto diventare un’altra. Senza di lui, lei non era mai diventata una persona completa. L’assenza di quell’uomo l’aveva derubata della sua femminilità. Con lui, avrebbe fatto l’amore, altri figli; con lui, la sua vita sarebbe stata completa… Sì, l’amore era unico. L’uomo era unico: quello e nessun altro.

La tenerezza di Ariel non sarebbe mai riuscita a colmare il bisogno disperato di quell’altra metà del suo essere profondo. Quel “guerriero solitario” se n’era andato da un conflitto all’altro, da una sofferenza all’altra, trascinato da utopiche chimere. Anche lei, aveva vagato in terre lontane, come una barca senza vela né ancora; come un cane smarrito senza collare. Quanto avrebbe potuto essere diversa la loro vita. Che strano destino, davvero… E quanto poco era bastato per sconvolgere l’esistenza di persone che non avevano fatto che incrociarsi, invece d’incontrarsi.

Si chiese anche come mai non si fossero incontrati prima, durante le tournée in Israele. Nora sentì che Ariel poneva la stessa domanda… alla quale il Colonnello rispose: “ Carissimo, preferisco il silenzio del deserto alla musica e le tendine militari alle sale da concerto…”

Anche ad Ariel era mancata metà della propria personalità. La guerra, la morte dei suoi genitori, la Shoah, il vagare per l’Europa, gli USA e Israele, senza trovare terra ferma.

Avevano depredato Ariel di gran parte della sua vita: quella felice e tranquilla. Anche lui era zoppo, anche lui era amputato.

Era evidente: loro due si erano aggrappati l’una all’altro; si erano tenuti a galla a vicenda. Erano legati profondamente, ma quella tenerezza non era l’amore di una vera coppia, ma solo un salvagente.

E quel popolo ebraico, con le sue tradizioni strane, le sue malinconie quasi morbose, le sue esaltazioni quasi eccessive… Anch’esso era squilibrato a causa di secoli di esilio, persecuzioni, di depredazione della sua vera personalità di popolo libero.

Nora si sentì impotente e triste, perché capì quanto significa il diritto alla pace, alla gioia, alla felicità: il diritto, semplicemente, di vivere una vita normale.

 

«Starete ancora a Zurigo un paio di giorni?» chiese Eva, che si era avvicinata.

«Mi dispiace», disse Nora. «Domani, abbiamo un appuntamento importante a Locarno, ma ci vedremo spesso. Io non sono più impegnata ogni giorno in ufficio e anche Ariel lavora meno. Adesso abbiamo più tempo per noi e per la nostra famiglia ritrovata…»

«Anche mio padre sarà contento di rivedervi».

«Il Colonnello», chiese Nora. «Lo conosce bene?»

«Sì e no. Sa, questi militari sono tutti un po’ particolari. Soprattutto quelli delle forze aeree. Sono spavaldi, perché è veramente un mestiere pericoloso. O muoiono giovani, o diventano come lui.»

«Che cosa starà facendo in Svizzera?»

«È segreto militare, ma tutti sanno che Israele ha bisogno di apparecchiature di precisione per il proprio armamento. Se ho capito bene, questa volta si tratta di ottica… Lui è esperto di balistica, per cui sarà qua per trattare gli acquisti.»

«E lei come fa a saperlo e soprattutto a raccontarlo a persone che conosce appena?»

«Bisogna sempre rispondere abbastanza da soddisfare la curiosità, senza mai diventare indiscreti.»

«Brava», disse Nora. «Ha frequentato una buona scuola.»

«Abbastanza…» disse Eva sorridendo.

 

Alle ore 10:00 in punto della mattina seguente, Nora bussò alla porta dello studio dell’avvocato Buonati, che venne ad aprire di persona.

«Signora Bietri, finalmente c’incontriamo di persona.» Poi, tendendo la mano ad Ariel, aggiunse: «il Signor Levi, presumo?»

«Ariel Levi. Sì, avvocato.»

L’avvocato li condusse nel salottino in stile Louis XV. Davanti alla finestra, una colonna di marmo bianco supportava una replica del Pensatore di Rodin; in un angolo, su un guéridon troneggiava un imponente vaso in cristallo di Val Saint Lambert con un mazzo di rose color salmone. I muri erano decorati da vecchie stampe che raffiguravano la città di Locarno, il Lungolago di Muralto e un paio di disegni fatti da Turner durante il suo viaggio nelle Alpi.

Mentre si accomodavano sulle poltroncine, l’avvocato aprì il mobiletto che conteneva bicchierini e caraffe dello stesso cristallo.

«Un bicchierino di Porto?»

«Sì, per favore…»

«Nora ed io, le siamo molto riconoscenti per tutto quello che ha fatto e continua a fare per noi», disse Ariel.

«È davvero la prima volta che viene a Locarno?» chiese l’avvocato.

«Sì, è la prima volta. È una cittadina squisita e, fortunatamente, Nora ha scelto il Grand Hotel, dove stiamo veramente bene. Le aiuole del Lungolago di Muralto contrastano decisamente coi marciapiedi osceni che siamo costretti a calpestare a New York…»

«Grazie per le fotografie», interruppe Nora. «Quelle di Don Alberto quando Donato era piccolo, poi le foto di classe quando era in collegio e quelle bellissime del matrimonio, scattate dal fotografo Garbani. E stata un’ottima idea di mandarci il giornale. E poi adesso, anche le foto con Luca… Sembra un bambino bellissimo: tutto suo padre e le posso confermare che Donato è il ritratto fedele di suo padre… Buon sangue non mente…».

«Cosa farete?» chiese l’avvocato Buonati. «Questa volta, si farà conoscere?»

«No», disse Nora. «Andremo a Vergeletto, proveremo a vedere mio figlio e la sua famiglia, ma non voglio rompere il loro equilibrio e la loro tranquillità. Troppi anni sono passati; non si deve sconvolgere il presente per un passato che oggi non ha più significato… Ariel mi ha portata in Belgio, ad Anversa, nel campo di concentramento di Breendonk dove sono morti i suoi genitori. Credo sia giusto che anche lui conosca i lati oscuri del mio passato, ma niente di più…»

«Insomma», disse l’avvocato Buonati. «Anche se non siete sposati, siete una di quelle rare coppie veramente unite…»

«Sì», disse Ariel. «Ma per noi è più che un semplice rapporto di coppia; ci siamo salvati dalla disperazione a vicenda. Tra noi è stata una questione di vita o di morte e più ancora: nella nostra vita, abbiamo avuto un ideale comune…»

«Ancora un dettaglio», disse Nora. «Quando morirò, Donato sarà il mio erede, ma non desidero che sia informato su tutto quanto: la Blue Star, la mia attività, il mio posto nella famiglia Levi… Anzi, Ariel è incaricato di vendere le mie partecipazioni alla Blue Star e il resto verrà realizzato in modo che Donato riceva un capitale in franchi svizzeri, ma senza spiegazioni inutili… Sì, sempre sul suo conto alla Banca dello Stato.»

«Non lascerà proprio niente di personale a suo figlio?»

«Non lo so… Ognuno di noi ha commesso degli errori e compiuto delle scelte. Ho agito come pensavo di dover fare. Si poteva far meglio… O piuttosto: non sono stata capace di fare meglio.»

«Signora, non è mai troppo tardi. Davvero è sicura che non vuole parlare con suo figlio?»

«Avvocato, lei cosa farebbe?»

«Malgrado tutto, io vorrei una volta nella mia vita poter abbracciare mio figlio…»

«Anch’io, ma lui?»

«Lasciamo queste domande in sospeso. Prossimamente, dovrò vederlo per altre cose e farò domande discrete…»

«Lei per me non è solo un legale, ma anche un consigliere, un vero amico… Non saprei come ringraziarla.»

«La fiducia che la vostra famiglia mi dà è già un ringraziamento: in questo mondo d’inganni e di tradimenti, cosa c’è di più prezioso della fiducia?»

 

Alla ricezione del Grand Hotel, la Signora Pascale affidò Nora e Ariel al Signor Olli, un autista discreto, una persona squisita.

Nel pomeriggio, salirono in Valle Onsernone.

«È una bellissima valle», disse Ariel mentre salivano.

«Sì, è molto bella, selvaggia, povera… Purtroppo, ciò si ripercuote sulla mentalità della gente… Quando sei povero, non hai niente: né musica, né poesia, né bellezza…»

«Cosa intendi?»

«Quando sei povero, vivi senza qualità. A casa nostra, le posate sono d’argento, i bicchieri di cristallo, i piatti di porcellana, la tovaglia ricamata. Tutto ciò dà ad ogni pasto la bellezza di una cerimonia. Quando sei povero, non hai nemmeno le posate e l’unica cosa bella è di non aver fame. Tutto lì. Non c’è meraviglia, spirito, luce. A casa nostra, la preghiera è la lode al Signore. Quando sei povero, c’è solo da mendicare. Si dice che la gente ha la mentalità stretta come la valle dove abita. Da quanto mi ricordo, purtroppo è vero… Ci sarà qualcuno diverso tra quelli che emigrano, imparano a vedere il mondo e allargano le loro vedute, ma il più delle volte le persone sono terribilmente ignoranti, meschine e anche cattive. L’ignoranza genera sempre cattiveria…»

«Nora, quando eri giovane, qua, non eri felice.»

«No, non ero felice. Qui ho vissuto gli anni peggiori della mia vita. L’affetto, la gentilezza, li ho incontrati per la prima volta nella famiglia dei tuoi zii. Nella Blue Star, ho incontrato gente che si sentiva responsabile degli altri, non solo della famiglia o della ditta, ma responsabile del benessere, della felicità delle altre persone. Qui era la lotta per la sopravvivenza allo stato crudo. Però, quando ci sei dentro, non conosci altro. È solo quando fai la conoscenza di altri ambienti che puoi valutare le differenze. Nella vostra famiglia, ognuno si preoccupa per l’altro e questo io non potrò mai dimenticarlo. Non potrò mai ringraziare abbastanza la vostra famiglia per avermi accolta e accettata…»

«Per noi è un dovere religioso accogliere lo straniero… Ma è vero, la mia famiglia è particolare. Mio padre era eccezionale e mio zio è una persona meravigliosa. Loro hanno sofferto molto e quindi possono capire meglio le sofferenze degli altri».

«Sì», disse Nora. «È vero: i tuoi zii non mi hanno accolta per dovere; l’hanno fatto per gentilezza. Anche Sara e Jona… Loro non hanno sofferto, eppure sono generosi… Hanno un cuore. Ti ricordi l’accoglienza nei kibbùtz? Erano generosi… Qui, la generosità non l’ho mai conosciuta. E ho paura che mio figlio sia diventato come loro… È per questo che ero così felice che lui sposasse una persona esterna, una bernese nata e cresciuta in città. Almeno, così ha un’apertura sul mondo… Ho tanta paura d’incontrarlo. Ho paura che sia diventato una persona cupa come gli altri.»

 

Si fermarono a bere il caffè all’Osteria della Capra Bianca dove Gianna Nannini stava cantando “Poi se ti diverti, non la metti da parte un po' di felicità, anche tu, io vorrei sognarti, ma ho perduto il sonno e la fantasia, anche tu… Questo amore è … »

C’erano tante persone che parlavano, giocavano a carte, fumavano, bevevano…

«Scusi, Signora», disse Nora alla padrona. «Abbiamo letto sul giornale “La Voce Onsernonese” che ci sono stati dei ripopolamenti di stambecchi su queste montagne. Lei ne sa qualcosa?»

«Oh la la!» rispose Edy. «Non deve chiedere a me. Deve chiedere a quel signore lì. Sì, quello coi cappelli neri ricci. Quello è proprio il guardiacaccia…»

Nora fece due profondi respiri e pensò: «Stai calma, come quando devi annunciare una catastrofe al consiglio di amministrazione. Se ce la fai con quegli squali, ce la fai anche con tuo figlio… Io sono completamente calma…»

Respirò un’altra volta e rispose a Edy: «Non potrebbe invitare questo signore alla nostra tavola?»

«Come no?» disse Edy con la sua solita esuberanza, poi gridò: «Donato! Vieni qua! Guarda che ci sono qui dei signori che vogliono comperare degli stambecchi…»

«Cos’è ‘sta storia?» chiese Donato alzandosi e ridendo in modo incredulo.

«Qui, questi signori…»

Ariel si era alzato e aveva disposto una sedia, invitando Donato a sedersi.

«Beh», disse Nora. «Comperare è forse un po’ esagerato. Ogni tanto leggo “La Voce Onsernonese” e ho seguito la storia degli stambecchi. Mi sembrava una cosa curiosa e volevo solo sapere come va avanti…»

«Dall’accento, non siete di qua», disse Donato.

«No», disse Nora. «Siamo emigrati in America, ma ogni tanto torniamo in Ticino per le vacanze… Sa, nei tempi, molti ticinesi emigravano in America…»

«Sì», disse Donato. «Lo so fin troppo bene. Ma non tutti tornano qua per le vacanze; ce ne sono anche che se ne vanno e se ne fregano di quelli che restano in paese…»

«Come?», intervenne Ariel. «Lei crede veramente che si possa dimenticare il paese dove si è nati? Non ci credo affatto…»

«Beh», rispose Donato bruscamente. «Se permette, io ne sono convinto. Cosa volete sapere degli stambecchi?»

Prudentemente, Nora si avviò verso un interrogatorio in regola a proposito degli stambecchi, spingendo Donato fin quando egli disse: «Io qua non ho niente da mostrarvi ma, se v’interessa tanto, venite a casa mia; vi farò vedere le cartine e le foto…» Poi gridò verso un bambino che stava giocando a calcetto con altri ragazzini: «Luca, corri a casa e dì alla mamma che abbiamo degli ospiti. Presto, che arriviamo!»

Luca cacciò fuori due occhi enormi e neri come il carbone e disse in dialetto: «Non vorrai mica portare a casa quei due spaventapasseri? La mamma si prende un colpo…»

«Zitto, monello», disse Donato. «E fila!»

«Tale nonno, tale padre, tale figlio», pensò Nora con un’intensa gioia.

Mentre attraversavano il villaggio, Nora tentò di ricordare le case e la gente, ma tutto sembrava cambiato. «Addirittura la casa paterna», pensò. «Non c’è più niente. La casa nuova è bella, ma la vecchia casa e la vecchia stalla avevano un significato.»

Con la scusa degli stambecchi, Nora e Ariel passarono diverse ore con Donato e la sua famiglia. Sigried preparò il caffè e fece assaggiare il miele che producevano le sue api. Donato parlò della sua professione. Nora capì quanto suo figlio vivesse intensamente il suo rapporto con la natura e gli animali e capì che era un uomo felice.

Diverse volte fu sull’orlo di dirgli la verità, ma la paura di interrompere e rovinare quella bella conversazione glielo impedì.

Luca raccontò le sue cosette, Ariel gli fece molte domande. Nora poté immaginare com’era stato suo figlio quando era bambino. Non aveva conosciuto quel bambino e ora capiva che avrebbe avuto bisogno di conoscere il suo nipotino per compensare l’assenza di tutti quegli anni.  Decise di consacrare a Luca gli anni che le restavano da vivere. Sarebbero stati ancora tanti anni e sperava che potesse dare a suo nipotino tutto quanto a suo figlio era stato ingiustamente negato.

Era come se fossero crollate le sue difese. Come se, finalmente, si fosse lasciata travolgere dalla felicità di avere un figlio. Lo guardava con tenerezza, con amore, e poi si sentì fiera, orgogliosa che quell’uomo così maturo, così responsabile, ma anche allegro e aperto, fosse suo figlio.

«Quando verrai in vacanza, tornerai ancora a trovarmi?» chiese Luca ad Ariel mentre questo saliva in macchina.

«Se a te fa piacere», rispose Ariel. «Tornerò a trovarti, a me farebbe piacere… A una condizione… Ti ricordi quello che tua mamma ha detto del tuo libretto scolastico? Se quello diventa buono, verrò a vederlo e magari un giorno ti porterò con me in America…»

«Dice sul serio?» chiese Luca seriamente. «Io, in America, ci voglio andare anch’io!»

«Luca», disse Donato. «Non infastidire i signori…»

«Quello non ha fastidio; quello mi vuol bene!» sparò Luca con un’impertinenza proporzionata alla sua età. «E anch’io gli voglio bene. Vuoi ben vedere il mio libretto…»

 

Mentre aspettavano l’aereo all’aeroporto di Agno, Nora chiamò l’avvocato Buonati.

«Sì, ho visto mio figlio e credo che lei abbia proprio ragione: sarebbe giusto chiarire la situazione e organizzare un vero incontro. È diventato un uomo affascinante, ha preso tutto da suo padre. Ne sono orgogliosa. Voglio poterglielo dire. Voglio poter compensare tutti questi anni…»

Nora raccontò com’era andata e l’avvocato promise di preparare il terreno.

 

 

1988

 

Era primavera. Il sole riscaldava deliziosamente. Quel venerdì sera, una variopinta combriccola di allegri compari era seduta sulla terrazza dell’Osteria della Capra Bianca. Da lontano, si sentì arrivare il rombo di un motore e, più il rumore si avvicinava, più suscitava attenzione. Poi, si guardarono e Martin disse: «Questa è una 500…»

«A mio parere», disse Enrico. «È una Suzuki Big 750… Direi, bianco e blu… Con purtroppo una qualche macchietta di ruggine…»

«Siete dei brocchi», disse Renato. «Questa è una Harley 1340…»

E mentre gli altri rispondevano stupidamente «Euuuu!», arrivò una moto straordinaria, una Hesketh V 1000 nera, che posteggiò proprio davanti a loro. Il conducente era vestito integralmente di cuoio nero e portava un casco integrale con la visiera scura. Mise i piedi a terra, tirò giù il cavalletto e ci lasciò lentamente riposare sopra i duecentocinquanta chili della moto. Spense le luci, fermò il motore, tolse la chiave, si raddrizzò, lanciò la gamba destra sopra il portabagagli e le borse laterali, fece un paio di passi mentre si toglieva il casco e, di colpo, ne cadde fuori un’impressionante chioma di lunghissimi cappelli biondi. La ragazza si girò verso gli uomini seduti ai tavolini, che avevano smesso di chiacchierare e stavano tutti con la bocca spalancata, e disse: «Hello!» Poi salì di corsa e si sentirono schiamazzi di gioia in tutte le lingue.

«Madonna!» disse Renato. «Avete visto quello che ho visto io?»

Tutti fecero di sì con la testa, ma nessuno riuscì a riprendere fiato…

«Edy», gridò qualcuno. «Porta un altro giro…»

Edy arrivò col vassoio.

«Birra?»

«Tu» balbettò Enrico. «Chi è quella là?»

«“Quella là” è una mia amica che viene da Zurigo… No, scordatelo; quello non è pane per i tuoi denti… Lei è molto peggio di me.»

«Scommettiamo?»

«Scommetto quello che vuoi. Anzi, scommettiamo che vi fa fuori tutti, uno dopo l’altro…»

E ripartì un nuovo «Euuuuu…»

Edy tornò poco dopo col vassoio pieno di birre seguita dalla ragazza bionda.

«Ecco», disse Edy. «Questa è la mia amica. Si chiama Eva. È qua per una vacanza.»

«Sì», disse Eva mentre tirava giù la cerniera del suo giubbotto. «Devo andare un po’ in montagna…» Poi si tolse il giubbotto e tutti videro una maglietta sulla quale era stampato “No Problem”… Era corta, stretta e quasi trasparente e, a stento, conteneva un seno provocante…

«Fidati di me», disse Renato. «In montagna, sono io il campione…»

Si alzarono urla di contestazione e ognuno dei presenti si vantò delle proprie prodezze…

«Ok», disse Eva. «Uno alla volta. Iscrivetevi presso il mio segretariato…» Tutti rimasero di stucco.

Quella sera, quando i clienti furono andati via, Edy ed Eva si sedettero alla tavola rotonda con un ultimo bicchiere di Barbera.

«Non saprei», disse Edy. «Hai ben visto: qui sono tutti così… simpatici ma “briganti”…»

«E quel guardiacaccia?»

«Donato? È forse l’unico, diciamo, “temperato”. Vediamo… Almeno lui dovrebbe conoscere la zona.»

«Sposato?»

«Sì, sposato. Ha un bambino e sua moglie è incinta.»

Quel sabato, Eva andò a spasso per il paese, poi si fermò davanti alla casa di Donato, suonò e, quando Sigried venne ad aprire, parlò in “schwiezerdütch”[40]. Sigried la fece entrare e parlarono a lungo. Quando si congedò, si salutarono cordialmente e Sigried disse ancora: «Appena Donato torna, gliene parlo… A domani. Tschüss[41]…»

 

Quando la domenica mattina Eva scese nella sala dell’Osteria per la colazione, trovò diversi uomini che portavano il fucile militare a tracolla.

«Cosa succede?» chiese Eva scherzando. «Siamo sul piede di guerra?»

Uno dei presenti, rinvigorito dal terzo caffè, si fece avanti: «Lei non lo sa, signorina, ma noi svizzeri siamo militi per tutta la vita!»

«Ah, sì?» fece Eva fingendo di essere sorpresa. «E come mai?»

Poi seguirono complicate spiegazioni sul servizio militare svizzero e i tiri obbligatori.

«Vuol vedere il nostro stand di tiro?»

«Ma sì», disse Eva. «Tanto sono in vacanza… E per cominciare, non chiamatemi signorina. Chiamatemi Eva…»

Gli spavaldi tiratori condussero Eva fino al loro nuovo stand di tiro e dimostrarono la loro destrezza. Perfino quelli che andavano a sparare solo perché erano obbligati, fecero uno sforzo per non fare brutte figure davanti ad una donna.

«Vuol provare, signorina?» chiese il segretario della società, che stava controllando i libretti di tiro.

«Un colpo lo faccio anch’io», disse Eva, che estrasse dalla sua tasca una scatoletta metallica di pastiglie Blackcurrant, original english formula[42], la aprì, ne estrasse un gommino, si mise a masticarlo e si sdraiò sulla pancia nella tipica posizione di tiro, con una gamba dritta e l’altra piegata nell’angolazione perfetta.

Le diedero un moschetto e spiegarono come bisognava far coincidere il mirino e il bersaglio. Eva girò il braccio nella cintura del fucile, mirò, premette il grilletto e alla sua destra, il piccolo schermo elettronico marcò un nove, a sinistra, in alto.

«Bene!» disse qualcuno.

«Che fortuna!» disse un altro.

Eva girò i tacchetti della regolazione e sparò un secondo colpo e la lucina rossa dello schermo marcò un otto, di nuovo a sinistra e in alto.

«Non è così facile come pensi, bella pupa…» disse qualcuno.

Eva girò ancora qualche tacchetto della regolazione, premette il grilletto e lo schermo si mise a lampeggiare: tutte le lucine rosse della circonferenza lampeggiavano insieme, il che significava che aveva colpito in pieno centro e fatto una mouche, cioè un centro perfetto…

Rimasero interdetti.

«Che culo», disse qualcuno.

Eva sparò un’altra volta e ancora una volta, mouche. Un dieci perfetto. Fece altre cinque mouche e un nove e allora aveva finito le sue dieci cartucce e si rialzò aprendo la culatta.

«Si vede proprio che sono fuori allenamento», disse mentre restituiva il fucile al suo proprietario.

«Lei ha già sparato col fucile?»

«Mah sì, qualche volta. Anch’io ho un padre…» disse Eva sbadatamente. E più nessuno fece commenti. Si guardarono meravigliati, incapaci di capire le regole di quel nuovo gioco.

 

Quella sera, Eva tornò da Donato.

«Sto facendo uno studio sul cinghiale», disse Eva. «Ho saputo che qui in zona ce ne sono molti, soprattutto nelle Centovalli. Sono venuti dall’Italia?»

«Sì», disse Donato. «Loro ormai non conoscono i confini e seguono la loro strada una volta dall’Italia verso la Svizzera, una volta dalla Svizzera verso l’Italia. Nelle Centovalli, è un continuo andare e venire.»

«Ecco», disse Eva. «Sono proprio quelle strade che vorrei vedere.»

«Sono posti brutti. Non so se lei è attrezzata…»

«Sì», disse Eva. «Un paio di scarponi li ho… Lei potrebbe almeno farmi vedere i posti una prima volta. Dopo, per il resto dello studio mi arrangio io…»

«Ne è sicura?»

«Credo di sì…»

Eva prese nella tasca della sua giacca un foglio di carta che portava un disegno e lo tese a Donato.

«Che cosa pensa di questo disegno?» chiese Eva.

Donato guardò con attenzione.

«È una montagna… Mah, al mio parere, questo dovrebbe essere il Gridone…»

«Il Gridone visto da dove?»

«Potrebbe essere… dalla Costa, o da Lionza…»

«Guardiamo la cartina», suggerì Eva.

Donato prese la cartina topografica in scala 1:25000 e spiegò quanto lui ne poteva dedurre.

«Allora», disse Eva. «È proprio questa zona che vorrei vedere: tutto il confine dall’Alpe Ruscada fino al valico della Ribellasca…»

«È proprio la zona più impervia», disse Donato. «Non ci passa più nessuno. I sentieri sono cancellati, poi qualche anno fa c’è stato un’alluvione terribile che ha spazzato via tutto, sentieri compresi…»

«Strade di contrabbandieri?»

«Sì, ce n’erano, forse qualcuna è rimasta, ma oggi il contrabbando si fa in un’altra maniera… Non ci passa più nessuno su quei sentieri…»

«Andate a fare un giro lo stesso», intervenne Sigried. «Non vorrai lasciare quella ragazza da sola in quei posti così brutti! E tu, di cinghiali te ne intendi…»

«A ciascuno il suo mestiere», disse Donato. «Se vuole proprio, mercoledì mattina possiamo fare un giro. Ci troviamo alle 03.00 davanti all’Osteria»

«D’accordo, alle 03.00 …»

Chiacchierarono ancora un po’, poi Eva ringraziò e ritornò all’Osteria.

 

Quel mercoledì mattina, alle 04.00, posteggiarono la macchina sul piazzale della Costa. L’alba cominciava appena a spuntare e partirono su per un sentierino stretto che saliva lentamente verso ovest e poi scendeva in un riale. Le pareti rocciose erano scoscese; il sentiero a tratti si vedeva, ma il più delle volte scompariva sotto lo spesso manto di foglie di faggio secche. Donato conosceva i posti perché, come guardia di confine e come guardiacaccia, era passato là di giorno come di notte, con bello e brutto tempo e in tutte le stagioni. Progrediva lentamente, sembrava perso in quel terreno frastagliato di valli e burroni, poi improvvisamente cambiava direzione e ritrovava un altro pezzo del vecchio sentiero.

Verso mezzogiorno, si fermarono sul fondo di una valle molto profonda; il sole implacabile batteva sul granito bianco. Alla loro destra, le pareti si alzavano lisce come lastre di vetro. Donato scelse un posticino all’ombra, si sedette su un sasso, aprì lo zaino, ne estrasse la borraccia e, mentre incominciava il gesto per tenderla verso Eva, esplose un colpo terribile che rimbombò nella stretta delle pareti.

Donato fece un salto di spavento e, quando si raccapezzò, vide davanti a sé Eva con la pistola ancora fumante in mano.

«Ma cosa fai!» gridò Donato fuori di sé. «Sei impazzita? Vuoi ammazzarmi? Ma sei matta?» E non osò nemmeno muoversi, perché sapeva che nel caricatore della Beretta c’erano altri sette colpi.

«Scusami», disse Eva indicando con la canna della pistola nella direzione dei piedi di Donato. «È un automatismo… Nel deserto, i serpenti sono mortali. Tre minuti e sei morto.»

Donato guardò esterrefatto e vide ai suoi piedi un’enorme vipera nera che non aveva più la testa ma continuava ad attorcigliarsi, fin quando i nervi non cessarono di agitarla. Donato ebbe i brividi, poi si mise a tremare e non riuscì nemmeno più a parlare.

Eva infilò la pistola nella custodia che portava appesa alla vita sotto la camicia, prese la borraccia, bevette tranquillamente e poi si sedette, tese la borraccia a Donato, estrasse dalla sua tasca la scatoletta e si mise a masticare pensierosamente una gommina di Blackcurrant. Infine, prese la cartina e cominciò a studiarla con attenzione, senza nemmeno notare la perplessità di Donato.

«Eva», disse finalmente Donato. «Io ho fatto la guardia di confine per dieci anni. Adesso faccio il guardiacaccia da altri dieci anni… Certe cose le vedo. Non tutte le ragazze girano con una Beretta 22 in tasca. Lei non è onesta… Non dice tutto. Anzi, lei mi nasconde le sue vere ragioni. I cinghiali sono una scusa. Io sono un pubblico ufficiale e come tale posso denunciarla e farla arrestare. Allora, per favore, non mi costringa a fare delle cose spiacevoli per tutti e due; mi dica esattamente che cosa sta facendo su questo confine, armata di pistola…»

L’espressione di Eva era diventata stranamente dura e impenetrabile.

«Non credo che lei voglia denunciarmi, perché dovrei rivelare certi aspetti dei miei studi sulla provenienza dei cinghiali che sono bruscamente spuntati in Ticino come funghi dopo un plenilunio caldo e piovoso…»

«Come sa, sono venuti dall’Italia…»

«In elicottero?»

Donato ebbe un movimento di sorpresa mista a rabbia.

«Eva. Tu chi sei, cosa vuoi? Cosa stai qui a fare?»

«Un giorno, forse, te lo dirò… Se stai nel tuo, io starò nel mio, ma se mi rompi le palle, hai visto che non sbaglio il colpo…»

«È una minaccia?»

«Sì, è una minaccia. Io di te me ne frego; quello che cerco non sono affari tuoi. Non riguarda nessuno. Ti do la mia parola che si tratta solo e unicamente di una mia questione privata. Va bene?»

«Parola d’onore?»

«Parola d’onore».

 

Camminarono tutto il giorno, rastrellando tutta la valle che saliva dalla Ribellasca fino all’alpe Ruscada. Donato seguiva come poteva ciò che rimaneva dei sentieri. Eva ogni tanto si fermava, studiava attentamente la cartina geografica, guardava l’ambiente e registrava nella sua mente ogni particolare che più tardi le avrebbe permesso di ritornarvi da sola.

Quando tornarono a Vergeletto, erano le dieci di sera. Avevano camminato e sudato tutto il giorno ed Eva non mostrava nessun segno di stanchezza.

«Accetti una birra?» chiese Eva.

«No, grazie», disse Donato. «Mia moglie sarà in pensiero. Un’altra volta, magari…»

«D’accordo», disse Eva. «Un’altra volta. Ricordati: non è successo niente. Anzi, non ricordi nemmeno che siamo andati in montagna insieme…»

Donato spense il motore e guardò Eva.

«Perché non vuoi confidarti con me? Come già detto: io sono un pubblico ufficiale, sono tenuto al segreto professionale. Non vorrei che ti si cacciassi nei guai…»

«Grazie», disse Eva prendendo una gommina di Blackcurrant. «Devo solo controllare un paio di dettagli… Quando ritorno, ne parleremo…»

«Quando ritorni? Vai via?»

«Le mie vacanze sono finite.»

Difatti, la mattina seguente la moto era sparita.

«Dovresti darmi l’indirizzo della tua amica», disse Donato a Edy, pensando di essere furbo. «Ho promesso di mandarle delle cartine…»

«Quella», disse Edy ridendo. «Non ha un indirizzo fisso. È giornalista freelance, sempre in giro…».

 

Eva era partita presto e, per tornare a Zurigo, decise di valicare il passo del San Gottardo invece di attraversare la galleria. Arrivata in cima, si fermò, camminò verso un praticello ben esposto al sole, si sedette sull’erba con le gambe incrociate, posò le mani sulle ginocchia, chiuse gli occhi, fece un paio di profondi respiri poi cominciò a recitare il mantra induista con il quale era solita rilassarsi.

Ben presto sentì la calma, il suo polso rallentò, e più diventava rilassata, più la luce si espandeva nel suo corpo e nella sua mente. Ora vedeva chiaramente in sé stessa: era tutta luce e pace e, quando ebbe raggiunto un grado sufficiente di introspezione, pensò: «Quali sono gli elementi conosciuti? Quali sono gli elementi mancanti? Qual è la prossima mossa?»

Lasciò vagare la mente alla ricerca dei pensieri che si susseguivano e contemplò ogni immagine che sorgeva dal suo subconscio. Poi si sdraiò e si addormentò. Quando si svegliò, tutto era chiaro. I prossimi passi erano evidenti. Eva inforcò la grossa Hesketh e riprese la strada verso Zurigo.

 

1989

 

Quando, due mesi più tardi, Eva tornò da Tel Aviv, andò all’Istituto Culturale e chiese di poter consultare quello che loro chiamavano già il “computer”.

Eva scelse il file «Immigrazione», poi, al suo interno, il file «Ticino». Poi cliccò sull’anno 1943.

Apparvero dei nomi. Pazientemente, restrinse la ricerca con sempre più precisione. Cercava persone ebree, italiane, provenienti dal Veneto, che erano entrate in Ticino dal Piemonte, sperando di trovare tra loro compagni di fuga dei suoi nonni.

Uno dopo l’altro, aprì i file ed eliminò dall’elenco i profili che non potevano corrispondere agli elementi che possedeva. Il quarto giorno che Eva lavorava a questa inchiesta, le rimanevano undici nomi. Poi, aprì il file che conteneva la rubrica telefonica del Ticino e cercò i nomi. Uno si trovava a Locarno, tre erano a Lugano, due a Chiasso e degli altri cinque non trovò traccia.

Eva prese il telefono, accese il registratore e chiamò pazientemente ogni numero.

Due non risposero, ma era normale: in pieno giorno, la gente era probabilmente uscita e lei avrebbe richiamato alla sera. Una signora anziana non sembrò nemmeno capire di che si trattasse. Eva si scusò dicendo che aveva sbagliato numero. Alla quarta chiamata, rispose un uomo che non sembrò voler ingaggiare la conversazione e disse che era in ufficio e non aveva tempo per chiacchiere inutili. Eva ringraziò, depositò la cornetta e riascoltò la registrazione. Effettivamente quest’ultimo uomo aveva un accento strano e non rispondeva con naturalezza. Eva tentò diverse volte di richiamare, ma al posto della voce maschile rispondeva o la segretaria o la segreteria telefonica.

Eva ricercò il nome nell’elenco per categorie e trovò: Caliman Mosè, import-export, Chiasso. Chiuso questo file, ritornò all’elenco del telefono e trovò difatti un Caliman Mosè, import-export…

«Adesso», si chiese Eva. «Come faccio a saperne di più?» E come ogni volta che si trovava in imbarazzo, prese una gommina di Blackcurrant che masticò con un evidente sforzo di concentrazione.

«Già!» Poi digitò il numero telefonico di un suo vecchio complice di bisboccia.

«Salì Buebeli[43]», disse Eva nel suo migliore schwiezerdütch.

«Salì Bueseli[44]», rispose una voce maschile con evidente entusiasmo. «È un po’ che non ti sento! Dov’eri sparita? Mi sveglio ogni notte sudando freddo e gridando il tuo nome…»

«L’ho sentito», disse Eva. «È pura trasmissione di pensiero! E tu, come te la passi? Li porti ancora questi famosi boxer gialli coi fiorellini rosa?»

«Ehi, pupa, se vuoi vedere le rose che spuntano sotto i boxer, fatti trovare al 69 della Sexstrasse. Per il resto, ci penso io…»

«Sei sempre stato capace di sfruttare le mie debolezze… A proposito, hai ancora quei tuoi agganci nella selva oscura dove le diritte vie sono tutte smarrite?»

«Oh! Yes, Madame, pour vous plaire. Dipende da cosa sei disposta a pagare…»

«Come al solito; metà all’ordinazione, l’altra metà alla consegna della merce e uno sconto perché i preservativi li fornisco io…»

«Ok. What is your problem

«Avrei bisogno di fare la conoscenza di un tizio specializzato in import-export…»

«No problem…»

Così, dopo un’altra notte di fuoco, emerse dal buio di una misteriosa banca dati un certo Mosè Caliman, nato il 3 settembre 1918 a Chioggia. Padre: commercio coloniali. Madre: casalinga. Seguivano gli studi: un diploma di segretariato, uno di contabilità e uno di lingue. Poi gli anni della guerra con la menzione: 1943, trasferitosi in Ticino, Confederazione Elvetica. Attualmente: import-export a Chiasso. Alla fine, era precisato il tipo della sua automobile, a quali giornali era abbonato, chi era il suo medico di famiglia e lo psicanalista che frequentava, con quale compagnia aerea viaggiava, le destinazioni più frequentate e ancora un altro paio di cosette di questo genere.

Tornata nella sua base operativa, Eva riascoltò la registrazione della breve conversazione che aveva avuta col famoso Caliman e finì per concludere: «Mah, per il solo fatto di questa reticenza inutile, questo ha qualcosa da nascondere… Import-export sarebbe anche possibile… Anzi, sarebbe anche possibile qualche traffico illegale o qualche operazione al limite della legalità, o qualche contabilità truccata… Oppure è il nostro uomo, che sinceramente non desidera riparlare di tutto quanto… Vediamo…»

 

Eva scese a Chiasso col treno. Faceva molto caldo e l’inquinamento dell’aria era decisamente peggiore che a Zurigo, per cui ebbe subito difficoltà a respirare, le bruciarono gli occhi e questo la mise di malumore.

«Ma chissà perché la gente viene qui in vacanza… Fa proprio schifo.»

Poi cercò l’indirizzo e trovò solo una piccola targa molto discreta che annunciava «Caliman & Co import-export» in un vicolo laterale del Corso San Gottardo. L’immobile era alto e grigio, sporco dallo smog. Alle finestre, tutte le tapparelle erano abbassate. Le lamelle, tra le quali nidificavano rondoni, erano coperte da uno spesso strato di polvere e di guano. Eva suonò il campanello e una voce chiese al citofono: «Sì?»

«Diamond Board Corporation Yellow Submarine Co. and Co.» disse Eva a voce forte e veloce contando sull’effetto sorpresa.

«Ha un appuntamento?»

«Col Signor Caliman, a nome della Diamond Trade Enterprise Starfighter Associated», disse ancora più velocemente.

«Mah», disse la voce pensierosamente nel citofono. «Qui non figura, però… Salga pure: terzo piano».

«Fin qua siamo arrivati», pensò Eva entrando nell’ufficio. Prima che l’impiegata avesse il tempo di parlare, si diresse verso la porta che portava la targhetta «Direzione - vietato entrare», dicendo distrattamente: «Il Signor Caliman m’aspetta. Grazie, Signorina, credo di trovare la strada da sola…»

La segretaria rimase perplessa. Eva entrò senza bussare e chiuse la porta dietro di sé.

Dietro alla scrivania, era seduto un uomo grasso, sulla settantina, con un’estesa calvizie, grossi occhiali di tartaruga, occhi da miope, camicia bianca col collo sbottonato, polsini e gemelli, cravatta snodata a righe oblique bordeaux e blu marina, giacca in Prince de Galles grigia ton sur ton. E stava sudando… Eva concluse: «Avrà i pantaloni blu notte e le scarpe nere con le stringhe, pelle finissima perché ha gli occhi di pernice sul ditino e porta anche i calzini neri di fil d’Ecosse…»

Su uno scaffale, notò al primo colpo d’occhio dei grossi libri e, appesa al muro, una veduta aerea di Gerusalemme.

«Signorina, come fa a essere nel mio ufficio? L’entrata è assolutamente vietata.»

«Signor Caliman, ho ingannato la sua segretaria», disse Eva sorridendo, mentre già si sedeva sulla sedia davanti alla scrivania. «Perché, a giudicare dal modo scortese in cui mi ha risposto al telefono, non mi avrebbe ricevuta.»

«Signorina, o lei esce immediatamente, o la faccio cacciare via.»

«Non credo che lo farà», disse Eva che distrattamente aveva aperto la sua giacca in modo che si vedesse spiccare sulla sua maglietta blu scuro, appesa a una lunga catena d’oro, una stella di Davide grande formato. «Un uomo che tiene nel suo ufficio questo tipo di libri e un tallit[45] piegato accuratamente depositato sullo stesso scaffale, non manda via coloro che chiedono il suo aiuto. Inoltre, in questa mappetta possiedo sufficienti argomenti per convincerla ad ascoltarmi…»

L’uomo si raddrizzò e guardò Eva con sorpresa. Aggiustò i suoi occhiali e disse: «Minacce?»

«No, non minacce. Suppliche… Suppliche con elementi convincenti…»

«A quale proposito?»

«Signor Caliman, lei è nato il 3 settembre del 1918 a Chioggia…» Ed Eva recitò il curriculum che avevano potuto compilare e costatò con grande soddisfazione che il suo interlocutore la guardava con evidente sorpresa.

«Dove ha scoperto queste cose?»

«Non ha importanza quello che so. Ha importanza quello che non so, ma che lei sa. Signor Caliman, che cosa è successo nel 1943, sul confine tra l’Italia e la Svizzera?»

«Signorina, lei entra nel mio ufficio senza il mio consenso e m’interroga in modo sfacciato sulla mia vita privata. Converrà che sta oltrepassando ogni limite della decenza…»

«Convengo con lei», disse Eva. «Ma se lei non fosse così burbero, le avrei fatto la domanda in modo più grazioso. Per esempio: la prego, Mosè, mi dica che cosa è successo nella valle della Ribellasca quella notte. Lei era lì e con lei c’erano anche i miei nonni, ma loro non sono mai arrivati in Svizzera».

Poi, mormorò: «Non voglio nient’altro. Voglio solo sapere dov’è finita mia nonna…»

Mosè Caliman si era alzato; si aprì la porta e gridò: «Sonia, per favore, porti il caffè per due». Poi camminò verso la finestra e guardò fuori tra le lamelle delle tapparelle socchiuse. Eva vide che portava davvero i pantaloni blu scuri e le scarpe Balli per piedi sensibili.

«Sarà anche diabetico», pensò Eva.

Mosè appoggiò la mano sinistra sul vetro della finestra all’altezza della sua fronte, poi appoggiò la fronte sulla mano e stette lì in silenzio. Eva non osò più parlare.

Sonia entrò portando un vassoio con una caffettiera italiana, due tazzine di porcellana bianca coi bordi dorati, i cremini, le bustine di zucchero e la scatola di zucchero artificiale.

«Ecco», pensò Eva. «La saccarina dei diabetici…»

«È passato tanto tempo», disse finalmente Mosè. «Per tutti questi anni ho cercato di dimenticare… Perché lei mi chiede di riaprire queste ferite? Lei è giovane, perché non pensa al futuro?»

«Non si può costruire il futuro sul nulla. Non si può perdere la memoria. Solo conoscendo il nostro passato e tramandando la nostra memoria, noi Ebrei potremo costruire il nostro futuro, per ognuno di noi individualmente, ma anche per il nostro popolo, per Israele e per la pace…»

«Voi giovani siete così impetuosi…»

«Mosè, anche voi, quando avete creato l’Irgun, eravate impetuosi…»

«No, signorina, no, si sbaglia. Io non sono mai stato impetuoso; io sono vigliacco, sono fuggito, mi sono salvato la pelle nascondendomi in Svizzera… Gli altri hanno combattuto… Io no.»

«Non vuol chiamarmi Eva?»

«Eva? Eva… Non ricordò i suoi nonni. Cosa vuole sapere dei suoi nonni?»

Eva raccontò tutto quello che sapeva dell’esodo. Dimenticarono il caffè, che diventò freddo. Mosè si era seduto crollando sotto l’enorme massa della sua obesità e della sua memoria. Aveva messo la mano destra nella tasca della giacca in Prince de Galles; l’altro gomito l’aveva appoggiato sulla scrivania e con la mano sinistra sosteneva la sua testa grottesca e pietosa. Aveva depositato gli occhiali e i suoi occhi miopi sparirono come risucchiati nel fondo delle loro orbite. Poi, lentamente, ricordò. Penosamente si mise a parlare e, progressivamente, tutti i dettagli che per decenni aveva represso nel fondo del suo rifiuto salirono verso la superficie come le bollicine nello champagne. E come quelle bollicine esplodono al momento in cui raggiungono l’aria, ogni parola che riuscì a proferire si sublimò nell’aria portando con sé, pezzettino per pezzettino, quel terribile peso che aveva fatto di lui un uomo malato e disperato.

Eva ascoltava, incideva nella sua mente e sul piccolo registratore che nascondeva nel taschino della giacca ogni parola, ogni accento, ogni sospiro di quell’uomo che adesso non gli faceva più pietà, ma le ispirava una profonda compassione. C’era voluto questo terribile confronto perché lei, così spavalda, comprendesse la radice della sofferenza.

«Credo di non avere altro da aggiungere», disse Mosè.

«Grazie», rispose Eva. Poi, con un sorriso affettuoso, aggiunse: «Per questo incarto, stia tranquillo… Non c’è dentro niente. Era solo un bluff.»

«Voi giovani», disse Mosè. «Siete così arroganti, così sicuri di voi stessi…»

«No», rispose Eva. «Non siamo arroganti. Per millenni siamo stati oppressi; per millenni siamo stati umiliati e questo noi non lo vogliamo più. Non è arroganza. È fede nella vita.»

«Dio ti benedica, figlia mia», disse Mosè.

Eva prese tra le sue mani lunghe, affilate e fresche la mano che Mosè gli tendeva. Era grassa, umida e calda. L’anello spariva sotto i bordi edematici; i peli neri stavano radi tra i pori dilatati, dai quali usciva un sudore acido. Eva prese la mano tra le sue, si chinò e la baciò sinceramente, intensamente, poi si diresse verso la porta e prima di richiuderla, si girò ancora una volta per guardare quest’uomo tragico. Gli sorrise.

«Shalom…»

«Masel Tov…», mormorò Mosè con gratitudine perché, in tutti quegli anni, era stata la prima volta che aveva potuto aprire il suo cuore, ricordare, parlare, piangere senza ritegno né vergogna. Per la prima volta, qualcuno lo aveva ascoltato con amore e comprensione. Per la prima volta, aveva potuto “condividere”. Quella ragazza giovane e sconosciuta, con la sua impetuosità, aveva portato un vento fresco carico di voglia di vivere, come una primavera. Mosè pensò che, se avesse incontrato Eva quarant’anni prima, sarebbe stato un uomo felice.

 

1989, continua.

 

Era passata l’estate, poi il periodo di caccia durante il quale Donato era poco presente in casa. Un giorno che tornava prima del solito, Sigried gli disse: «Ha telefonato l’avvocato Buonati. Ha chiesto di andare giù per una cosa importante. Ho detto che, domani pomeriggio, sei libero. Se non va bene, devi richiamarlo…»

«No, no, va bene», disse Donato. «Devo anche passare dal Berta, l’armaiolo.»

Sigried arrivava alla fine della sua gravidanza, diventava sempre più abbondante e si muoveva difficilmente, dunque Donato scese a Locarno da solo.

Quando entrò nello studio dell’avvocato, ebbe la sorpresa di trovarlo in conversazione.

«Il Signor Ariel Levi», disse l’avvocato. «Credo vi conosciate già…»

«Ah», disse Donato scherzando. «Non vorrete ancora comperare degli stambecchi!»

Ma Ariel non aveva voglia di scherzare. Pallido e molto dimagrito, era terribilmente invecchiato.

«Sedetevi», disse l’avvocato. «Vi lascio. Avete delle cose da raccontarvi…»

Donato si sedette e aspettò curioso.

«Ecco», disse Ariel col suo accento americano. «Sono successe diverse cose… È imbarazzante… Dunque, si ricorda la nostra visita?»

«Certo», disse Donato. «Come no! Ma la Signora, oggi, non c’è?»

«Ecco, no. Purtroppo, non c’è e non ci sarà mai più… Stava andando da New York a Saint Luis Obispo, per i suoi affari, con uno dei piccoli jet della nostra società. Hanno incontrato un violento ciclone. C’è stato un incidente… Non ci sono stati superstiti…»

«Mi dispiace», disse Donato.

«Anche a me. Nora ed io vivevamo insieme da quarant’anni… Tutte le battaglie, le abbiamo fatte insieme.»

«Si chiamava come mia madre…»

«È per questo che sono qui oggi… Nora era sua madre.»

Donato sprofondò nella poltrona, diventò bianco e le sue mani strinsero il cuoio dei braccioli al punto da lasciarvi il segno.

«Come fa a dire che era mia madre…»

Ariel lentamente cominciò a spiegare di come su quella nave, nel lontano 1947, avesse incontrato Nora e di come lei avesse curato il suo cane e poi tutto il resto; lentamente, molto lentamente, perché ogni ricordo era un pezzo prezioso della loro vita vissuta con quell’intensità estrema.

Mentre Ariel continuava a parlare sottovoce, inseguendo i suoi ricordi in un monologo destinato a sé stesso, per Donato, una dopo l’altra, sorgevano le immagini del passato. Dopo trent’anni, iniziò a capire chi aveva versato i fondi necessari al restauro della chiesa, il suo soggiorno in collegio, i versamenti sul libretto alla Banca dello Stato, l’incarico dell’avvocato Buonati, i diamanti, quella meravigliosa decorazione floreale nella chiesa per il suo matrimonio, la stanza privata per Sigried quando aveva partorito all’Ospedale La Carità e, addirittura, l’enorme mazzo di rose rosse quando era nato Luca.

Le cose erano sempre successe come se fossero state normali. Donato non si era mai interrogato sui particolari e, in quel momento, tutte quelle strane piccolezze assumevano un aspetto nuovo. Dietro a tutte quelle circostanze e particolari manifestazioni, c’era la stessa persona, lo stesso sguardo, lo stesso amore. Perché era rimasta nell’ombra? Perché non era venuta di persona al matrimonio? Dio, come sarebbe stato felice e fiero se fosse salito all’altare al braccio di sua madre… invece di sentirsi solo come un povero disperato, orfano, dimenticato da tutti… Perché quella madre lo aveva amato da lontano, sempre nascosta, eppure sempre presente? Perché aveva mandato soldi e fiori e chissà quante altre cose, ma non aveva mai dato quella più importante: la sua presenza, la semplice possibilità di conoscerla, di vederla, di poter parlare, discutere, magari litigare… Perché non gli aveva mai dato la possibilità di abbracciarla? Perché non aveva mai desiderato abbracciare suo figlio, o il suo nipotino?

Ora per Donato apparve l’evidenza più terribile: lui stesso, perché non aveva mai cercato d’incontrarla? Lui si era accontentato di quanto capitava, senza aver mai pensato un attimo più in là… Sarebbe stato così facile. Sarebbe stato sufficiente dire a Don Alberto, all’avvocato Buonati o al Superiore del Collegio: «Vorrei incontrare mia madre… Voi sapete come rintracciarla?» Lui avrebbe potuto semplicemente mandare un biglietto: «Mamma, voglio incontrarti». Non aveva fatto nulla... durante tutti quegli anni…

E adesso, nel momento in cui diventava così facile, così semplice, così evidente, era troppo tardi… era finito tutto…

A quel punto, Donato credette di impazzire… Irrimediabilmente, era tutto finito. Non l’avrebbe mai più rivista. In un paese lontano, quanto rimaneva della sua salma era stato sepolto per sempre. Inaccessibile… E lui avrebbe potuto cambiare tutto con un bigliettino. Con un banale cenno. Per tutti, ogni cosa era stata normale. La presenza di Nora era scontata. Ora che se n’era andata, tutti s’imbattevano con la sua irrimediabile assenza…

Donato scoppiò in lacrime disperato, colpevolizzato, totalmente smarrito.

«Perché non ha parlato quando siete stati a casa mia?»

«Nora ha avuto paura di sconvolgere il piccolo mondo felice e armonioso che vi siete costruito. Voleva sapere se voi desideravate incontrarla. Aveva paura che l’avreste rifiutata… L’avvocato doveva organizzare questo incontro per la prossima primavera. Nora stava andando a Saint Luis Obispo per sistemare i suoi affari, che desiderava affidare a voi due: suo figlio e il suo nipotino…»

Poi parlarono della Blue Star.

«Io non sono un uomo d’ufficio», disse Donato. «Quegli affari devono rimanere dove sono. Voi dovrete continuare a gestirli fin quando mio figlio sarà in grado di occuparsene. Io non posso…»

«Sì», disse Ariel. «Il piccolo Luca… Nora aveva intenzione di chiedere di mandarlo in una scuola seria. Parlava del collegio Papio di Ascona…»

«Non è mai venuta a trovarmi… In quarant’anni è venuta una volta sola… Come ha potuto farlo? Ed io, perché non l’ho mai cercata?»

«Nora non l’ha mai dimenticata. Attraverso l’avvocato ha sempre tenuto l’evolversi della situazione sotto stretta sorveglianza… Sapeva tutto di lei; riceveva le fotografie… Nora aveva dedicato la sua vita ad alti ideali che non può ancora capire, ma un giorno, anche lei capirà… Addirittura, io ho chiesto diverse volte a sua madre di diventare mia moglie, ma i suoi ideali erano troppo alti. Non ha mai voluto lasciare che altri sentimenti si mettessero tra lei e lo scopo della nostra vita…»

«E mio padre?»

«Appunto è quello che intendevo… Sua madre ha rivisto suo padre una volta sola, non si è fatta riconoscere e non mi ha detto molto. L’unica cosa che posso dirle è che vi assomigliate moltissimo e che era un uomo eccezionale. Nora era felice di aver potuto costatare che lei ha ereditato il carattere di suo padre: fiero, indipendente e intelligente. Era felice che, con Sigried, formate una bella coppia, soprattutto al di sopra delle piccolezze e della meschinità. Era anche felice di vedere che Luca è il ritratto di suo nonno… Nora aveva tanta paura di ritornare a Vergeletto e di confrontarsi col passato, coi ricordi penosi. Credo che da bambina avesse sofferto molto. Non per niente aveva voluto partire…»

«Sigried è straniera e difatti adesso capisco che anch’io sono straniero. Per forza siamo diversi… Ma perché non si è fatta riconoscere?»

«Perché troppo tempo era passato e non bisogna tornare sul passato; sua madre voleva sempre andare avanti…»

«Chi era mio padre?»

«Suo padre era un alto ufficiale dell’aviazione militare israeliana. Di più, non so…»

Donato si alzò e fece qualche passo; con la mano destra si strinse la fronte, con la mano sinistra afferrò la scrivania, come se gli girasse la testa e stesse per crollare. Poi girandosi di colpo: «Ebreo… Anche lui…»

«Sì», disse Ariel. «Ebreo. Anzi, Ebreo e Israeliano…»

«E io», chiese Donato. «Io chi sono?»

«Questa è la domanda alla quale sua madre voleva rispondere il giorno in cui lei stessa ha ricevuto le risposte alle proprie domande. Vede, Donato, la vita non è così semplice come noi vorremo credere. Anche Luca possiede il sangue dei suoi nonni…»

«Adesso cosa devo fare?»

«Non deve fare niente. Deve solo andare avanti secondo la sua coscienza, ma si ricordi sempre che sua madre è stata per me più di una moglie… Voi non sarete mai più soli; avrete sempre una famiglia. Anche i suoi figli non saranno mai soli.»

«Avrei bisogno di un po’ di tempo per pensare…»

«Certo… Lei, per me, è come un figlio, non lo dimentichi. Io per lei ci sarò sempre.»

«Mia madre era davvero così straordinaria?»

«Sì, era una donna straordinaria. Veramente… Malgrado fosse nata in un ambiente povero e avesse avuto esperienze difficili, era costruttiva, positiva; voleva ed era capace di creare. Lei mi ha portato sulle ali della sua energia. Senza di lei, sarei stato un fallito. In ufficio, in viaggio, ovunque e sempre, con la sua calma e il suo buon senso, riusciva a far andare le cose per il verso giusto e dava fiducia alle persone che l’avvicinavano. Era una grande personalità. Quando abbiamo saputo dell’incidente… Le sue spoglie sono state portate a casa. Abbiamo chiesto del giovane prete che si occupa adesso della parrocchia, dove Nora si è rivolta quando è arrivata. Ormai, il vecchio parroco che aveva accolto Nora è morto anche lui. Lei non frequentava assiduamente la chiesa, ma non si è mai staccata completamente e ha sempre mantenuto un rapporto di simpatia e di gratitudine per coloro che l’hanno aiutata quando ne aveva avuto bisogno… Padre Fiorenzo ha celebrato il servizio funebre e noi tutti vi abbiamo assistito. Ebrei in una chiesa cattolica, mi creda, non è una cosa di tutti i giorni… In riconoscenza per quanto Nora ha fatto per Israele, anche noi abbiamo celebrato una funzione nella nostra sinagoga; una cosa molto semplice, ma eravamo presenti tutti. Abbiamo pregato per ringraziare Dio di averci dato quella persona meravigliosa…»

«Sono tante cose nuove per me», disse Donato, che faceva fatica a respirare. «Devo poterci pensare… Però, se mia madre è stata ribelle e mio padre è stato militare, non mi meraviglio più di essere combattivo anch’io…»

«Certo», disse Ariel. «Anch’io devo pensare molto: fin quando Nora c’era, sembrava tutto normale, scontato, dovuto… Ora, il vuoto che lascia dà la misura di quanto era importante nella nostra vita e soprattutto nella mia vita. Non siamo mai stati veramente coscienti dell’intensità della nostra relazione. È la prova per assurdo: è solo quando non c’è più che si capisce che cosa significava quando c’era. »

«Ed io?» chiese Donato. «Qual è la mia posizione nei confronti di questo mondo ebraico?»

«Se sua madre fosse stata ebrea, lei sarebbe stato ebreo “di nascita”. Invece sua madre non era ebrea; lo era suo padre. Allora niente, lei non è “ebreo di nascita”, però attraverso la vita di sua madre ha molti amici nel mondo ebraico. Se un giorno desidera avvicinarsi, diciamo, raggiungere il nostro modo di considerare il rapporto tra il Creatore e il Creato, sarà benvenuto. Ci sarà chi risponderà alle sue domande, ci sarà chi le darà l’istruzione e l’insegnamento. Ma questa è una decisione molto importante; è un cammino che necessita serietà, impegno e coerenza. In compenso, si accede a una visione del mondo e del senso della vita che può condurre alla serenità… Lei finora è stato un uomo giovane, d’azione, di spensieratezza, ma verrà un giorno in cui si chiederà che senso abbia questo soggiorno sulla terra. Anche per me è stato così: ero egocentrico, non vedevo che la mia musica e, lo confesso, anche il successo… Ora sono diventato vecchio e capisco che, anche se la musica è l’arte più bella, passa e se ne va… Il successo è effimero: vengono nuove generazioni che cancellano quelle vecchie… Nora aveva ritagliato le critiche della stampa e le aveva incollate in un album con tutte le fotografie. Quando guardo queste fotografie, rivedo quanto eravamo pieni di vita e di forza, come gemme che esplodono in primavera. Sul momento, una persona non ne è cosciente; è solo più tardi, quando è passato, che si capisce come sia stato bello e quanto sia stato fuggente: un attimo, ed è tutto passato… Noi stessi sulla terra non siamo niente. Non facciamo che passare, in un baleno. Ora comincio a chiedermi quale senso abbia la vita… Che cosa sto qui a fare? Nessun banchiere, nessuno scienziato, nessun artista può dare queste risposte, ma noi possiamo cercarle nei Testi Sacri che contengono l’Antica Saggezza… Donato, non si spaventi. Anch’io sono stato giovane. So che adesso lei è totalmente estraneo a queste preoccupazioni. Purtroppo, noi uomini abbiamo bisogno di sberle per aprire gli occhi, per distogliere il nostro sguardo da noi stessi… La morte di Nora è stata per me la sberla più inattesa. Ha richiamato la mia attenzione alla cosa più importante: qual è il senso della vita? Non trovo consolazione in altre donne, né nell’alcol. E questo è ancora più terribile: nemmeno più nella musica… Mi siedo nel silenzio… Sì, il silenzio. Quando ne ho la forza, leggo i Salmi e loro mi danno un po’ di consolazione… “Io grido a te Signore, dico: sei tu il mio rifugio, sei tu la mia sorte nella terra dei viventi. Ascolta la mia supplica: ho toccato il fondo dell’angoscia[46]”. Non lo dimentichi: quando il giorno sarà maturo, noi ci saremo per lei e per la sua famiglia…»

 

Donato rimase pensieroso e non seppe che cosa rispondere. Si alzò e andò verso Ariel, che si era alzato a sua volta. Si strinsero tra le braccia, a lungo, senza parlare, senza nemmeno sapere cosa dire né cosa fare. Da una parte, c’era l’uomo vecchio che aveva imparato tante cose e in ultimo la miseria della solitudine. Dall’altra, c’era l’uomo giovane, spaventato dall’abisso che si era bruscamente spalancato attorno a lui. Erano come i due estremi che si raggiungono, le due parallele che s’incrociano all’infinito.

Ariel intravedeva il tramonto della propria vita e poteva cominciare a fare un bilancio: dopo mezzo secolo d’effimere glorie, aveva imparato a chinare il capo e a dire umilmente: «Sia fatta la tua volontà…»

Donato, invece, sulla soglia della propria vita d’adulto, scopriva quanto finora tutto fosse stato futile. Quel giorno, per la prima volta, aveva guardato la vita in faccia seriamente. Il sipario della sua sbadataggine si era alzato di colpo e l’immensità del compito che si affacciava dall’altro lato lo spaventò.

«Ma voi vivevate insieme? Non eravate sposati, ma vivevate come marito e moglie?»

«Sì, come compagni, sarebbe più esatto. Buoni compagni. Ai tempi della nostra gioventù, vigevano tante idee preconcette, tanti tabù. Il sesso… Le proibizioni che fanno sembrare importanti le cose proibite. Poi ci si accorge che non sono così importanti, anzi sono un grande spreco di energia e spesso fonte d’infelicità. Nora ed io avevamo un rapporto semplice e le nostre priorità erano altre. Vivevamo insieme da buoni compagni… Ed è per questo che adesso mi sento completamente smarrito».

 

Ariel se ne andò, gobbo sotto la solitudine e le responsabilità. Dalla morte degli zii, era lui il capofamiglia. Adesso non c’era nemmeno più Nora sulla quale poter appoggiarsi. Era da solo.

Pioveva e la pioggia cadeva fino nella sua anima.

Si ricordò i versi del poeta: “la pluie, la bonne e douce pluie d’automne[47]

Sul volo del ritorno, quando la hostess della Crossair gli tese il bicchiere di champagne, egli alzò lo sguardo verso questa ragazza giovane, bella e sorridente. Gli tornarono in mente tanti ricordi, anche loro giovani, belli e sorridenti. I suoi occhi diventarono lucidi. Egli fece un grande sforzo per mandare tutto giù e mormorare un «grazie» appena udibile. La hostess lo guardò con sorpresa, poi sorrise gentilmente e, contrariamente a tutte le regole professionali imparate a scuola, gli depositò affettuosamente una mano sulla spalla prima di proseguire verso gli altri passeggeri.

«Ma guarda», pensò Ariel, «questa bambina così giovane che capisce così tante cose… Forse rimane davvero la Speranza…»

 

Donato tornò a casa. Non disse niente, non riuscì a parlare e, quando qualche giorno più tardi nacque la bambina, la chiamarono Eleonora.

 

1990

 

Eva aveva ascoltato il nastro con la storia del Signor Caliman fin quando ebbe registrato ogni dettaglio nella sua memoria. Aveva anche studiato le cartine geografiche. Una mattina di giugno, prese il treno per Locarno.

Dalla stazione, scese fino all’imbarcadero senza uno sguardo né per le pasticcerie né per le gioiellerie, nemmeno per le lussuose boutique di vestiti femminili dal gusto troppo tedesco. Salì a bordo del traghetto che si chiamava “Stambecco”, prese una gommina di Blackcurrant e si lasciò cullare dalla dolce navigazione sul Lago Maggiore.

Il cielo era limpido e il sole caldo, ma con la brezza fresca del lago era piacevole star seduta all’aperto sul ponte di prua. Aveva annodato i capelli, ma una ciocca ribelle ballava sopra il suo orecchio sinistro. I suoi occhiali da sole riflettevano come uno specchio e, con la coda dell’occhio, osservava la ciocca giocare nel vento.

Il battello serviva i diversi villaggi sull’altra riva e, durante la lunga traversata, Eva poté osservare le montagne. Di solito, si guarda il lago dalla terra ferma, invece, vista dal lago, la montagna presentava un aspetto inconsueto. Eva tentò d’immaginare la rete inestricabile di valli e sentieri e capì quanto fosse impossibile ritrovare, in quel groviglio, una persona scomparsa.

Il battello tornò verso la sponda destra, dove si trovavano Ascona e le isole meravigliosamente fiorite di Brissago, poi scese a piccole tappe per arrivare a Stresa a pomeriggio inoltrato.

Con le parole di Mosè Caliman nella sua mente, Eva passeggiò sul lungolago e decise che avrebbe pernottato là. Non aveva fretta: avrebbe compiuto il suo viaggio nel passato a passi lenti, immedesimandosi nelle persone che riprendevano vita. Vicino all’imbarcadero, si sedette sul bordo del molo coi piedi penzolanti sopra l’acqua e provò a immaginare lo stato d’animo di chi ha perso tutto, è braccato da nemici presenti ovunque, di chi scappa per salvare la propria pelle, arriva in un posto credendo di trovarci la salvezza e invece s’imbatte in un lago che sbarra tutto l’orizzonte.

Un cervo che sarebbe arrivato lì, alla fine della corsa per scappare dalla muta di cani, non avrebbe esitato; si sarebbe gettato nell’acqua e avrebbe nuotato fino all’altra riva o fino all’esaurimento e alla morte.

Una persona, cosa poteva fare? Un uomo, una donna e un piccolo bambino, che scelta avevano? Nessuno dei due adulti aveva la libertà di scelta, perché con loro c’era il bambino. Si sarebbero salvati tutti e tre o sarebbero morti insieme, ma non potevano separarsi. Tutto o niente; era la regola, terribile.

Eva rimase seduta a lungo. Sì, il lago, il freddo e la paura; si poteva capire benissimo: erano stati presi in una tenaglia tra questa infinita distesa d’acqua e la morte. Il mondo si era trasformato in una grande partita di caccia giocata tra cacciatore e preda inerme. I cacciatori si sbranavano tra di loro ma, quando piombavano su una preda, univano i loro sforzi e non lasciavano via di scampo. La logica della forza distruttrice del branco prevaleva. Pas de pitié pour les canards boiteux, cioè nessuna pietà per le anatre zoppe… Figuriamoci per le minoranze, per coloro che non erano dalla parte giusta del mitragliatore. Follia, follia, bestialità e degenerazione spaventosa.

Poi, la mente di Eva cominciò a sfogliare il libro delle immagini inimmaginabili… Lei non aveva vissuto queste immagini; le aveva “solo” viste nei libri e nei film, ma la loro terribile storia, ora, davanti a quelle acque così tranquille, i profumi inebrianti della primavera e i fiori quasi tropicali, esplodeva in tutta la sua ripugnanza.

Finalmente, entrò nell’Albergo delle Isole, riservò una stanza e, scesa nel ristorante, chiese mezzo litro di vino bianco e dei filetti di pesce persico. “Loro” avevano avuto freddo e fame e chissà dove avevano dormito. Forse nascosti in un camion.

Quell’albergo era lussuoso, con enormi lampadari di cristallo e tessuti inglesi a sfondo rosa pallido con ghirlande di fiori. Il bagno era di marmo rosa, con luce indiretta e dolcissima: la negazione dell’orrore. In quella camera da bomboniera, non potevano sussistere terribili ricordi. Non era successo niente. Era tutto bello, pulito, nuovo, in ordine… Non poteva succedere niente. Qui, nessuna coscienza era sporca; la felicità era scritta sui muri… La pace era merce da vendere e i clienti si comperavano felicità. Bastava pagare…

Eva si sdraiò in mezzo al letto rosa, spense la luce, respirò profondamente e iniziò la propria seduta di training autogeno pensando intensamente: «Sono perfettamente calma... Il mio corpo è pesante e caldo… Il mio respiro è lento… Il mio cuore batte tranquillamente…»

In pochi minuti, si era addormentata profondamente, come se avesse girato l’interruttore della rete elettrica: si era staccata, con la ferma intenzione di recuperare tutte le forze per affrontare le prove che l’aspettavano l’indomani.

 

I primi raggi del sole entrarono in camera quando Eva stava già sotto la doccia. Il lago rispecchiava la freschezza mattutina e le ultime nebbioline si rincorrevano per svanire nel nulla come folletti colti di sorpresa.

Eva si vestì e scese nella veranda, dove le tavole erano apparecchiate per la colazione. Sembrava di stare in una serra tropicale, con altissime vetrate e piante lussureggianti tutt’attorno. I tronchi esili dei Ficus benjamina dalla folta chioma s’intrecciavano in alto come volte gotiche. Le tavole si rincantucciavano nelle nicchie tra cespugli di Bougainvillea porpora. Diversi grappoli di orchidee illuminavano le pareti ombrose. In un angolo, un piedistallo di marmo bianco portava una vasca nella quale un sottile getto d’acqua cinguettava dalla bocca aperta di un grosso rospo smeraldino che si nascondeva tra gli enormi fiori di una Cattleya malva, terribilmente sensuale e provocante.

Eva bevette il bicchiere di succo d’arancia, poi sorseggiando il tè Earl Grey, sgranocchiò i toast ancora caldi. “Loro” avevano avuto freddo e fame ed Eva pensò alla fame, soprattutto dei bambini. Non avevano più soldi, non avevano più niente; i passatori avevano preso tutto. Eva scese alla reception e pagò con la carta di credito, senza nemmeno badare all’ammontare del conto, perché la sua mente era in un altro mondo.

 

Con la corriera, risalì lungo il lago in direzione di Cannobio. La strada correva tra i giardini e i parchi delle ville lussuose che troneggiavano in mezzo ai prati verdi. I gerani dei balconi erano già in piena fioritura. Le forsizie, le azalee e i rododendri erano già sfioriti, ma ora avevano assunto tutte le sfumature dal verde chiaro allo smeraldo più profondo. Le ortensie di ogni colore si alternavano ad aiuole di rose e massicci di oleandri tra i muri di cipressi e i boschi di canfore, cedri e palme. Lo strano miscuglio dei profumi del tiglio, della robinia e del castagno ogni tanto sapeva di miele e ogni tanto di candeggina.

Il lago diventava più stretto, poi si apriva di nuovo. Nei canneti, dove il fiume Toce si riversava nel lago, svolazzavano nuvole di uccellini tutti preoccupati dai loro riti nuziali, dalla costruzione dei loro nidi e dalla custodia delle loro covate. Già diverse anatre nuotavano seguite dalla loro famigliola di anatroccoli. L’effervescenza primaverile era al suo culmine e contrastava con la calma determinazione, per non dire freddezza, che guidava il viaggio di Eva.

Dopo le Isole Borromee e i loro lussuosi giardini all’inglese, apparvero le Isole di Cannero con le severe rovine dei castelli medievali. Nella storia del Signor Caliman, i fuggiaschi erano venuti fin qui, dove avevano trovato altre pattuglie, probabilmente i fascisti. Non avevano potuto passare ed erano ripartiti per la valle, che saliva con tanti tornanti…

Eva diede un’ultima occhiata al lago, poi s’incamminò verso l’imbocco della Valle Cannobina, che saliva un tornante dopo l’altro, tra pareti scoscese e boschi scuri. La vecchia strada era stretta e probabilmente, negli ultimi secoli non era molto cambiata. Eva salì a piedi. Forse non c’era nemmeno la corriera, ma d’altronde lei aveva tempo. Anzi, a piedi, poteva guardare meglio e pensare di più.

Centinaia di metri più in basso, nel fondo della valle, scorreva il torrente impetuoso. I ponti erano antichi e, ai fianchi delle montagne, erano aggrappati paeselli completamente isolati dal resto del mondo. Eva camminò a lungo. Passava qualche macchina e anche un gruppetto di ciclisti conciati come quelli del Tour de France. Il rombo di un motore diventò sempre più forte e finalmente la raggiunse.

«Hola! Biondina, dove vai?» gridò l’uomo, che sedeva su un piccolo trattore tipo Henry che tirava un carretto, sul quale era sdraiato un impressionante cane grigio a pelo lungo e disordinato.

«Vado a Malesco», rispose Eva.

«Allora non sei arrivata», disse l’uomo ridendo. «Salta su, che ti risparmi mezzoretta.»

Eva salì sul piccolo rimorchio e si sedette vicino al cane, che depositò la sua testa contro di lei e lei lo accarezzò. Era caldo e rassicurante.

Passarono davanti al monumento alla memoria dei partigiani. L’uomo salutò alzando il capello di paglia.

«Qui ne sono successe di tutti i colori…» disse a Eva. «A Fondotoce, hanno fucilato quarantatre ostaggi e a Finero hanno fatto fuori quindici partigiani. Senza contare quei trecento patrioti che sono partiti sulla montagna e che non si sono più rivisti… E tutti gli altri: imboscate, combattimenti, regolamenti di conti… Io ero piccolo, ma ricordo. Quelle cose non si dimenticano e non si perdonano nemmeno… Io le cose le so, ma è meglio stare zitti. Un giorno, i nodi vengono al pettine e allora… Non c’è bisogno di premura. E poi non sono l’unico che sa com’è andata…»

Era passato tanto tempo, eppure quell’uomo aspettava pazientemente l’ora della vendetta e della rivincita… Chissà quale vendetta e per quali misfatti rimasti impuniti…

«Qui vige la legge del silenzio», disse l’uomo. «Ma un giorno, la montagna parla. E allora…»

Sopraggiunse una jeep che suonò furiosamente: una vecchia Willis senza teloni. L’autista portava un cappello da cowboy e masticava uno dei sigari toscani che avevano tinto la sua barba grigia di un giallo quasi marrone, come l’ambra.

«Ma va!» esclamò il contadino fermando il trattorino in mezzo alla strada. Poi venne verso l’autista, chiedendo: «Vai a Santa Maria? Portami una punta del nove per il trapano, quella per il sasso… Già che ci sei, porta ‘sta ragazza fino a Malesco. A piedi, non arriva mai più…».

Così Eva si trovò seduta sulla jeep prima di poter fare una domanda. Era evidente che lì la gente sapeva molte cose…

«È qua in vacanza?» chiese quello della jeep.

«Sì e no», disse Eva, che teneva lo zaino tra le gambe perché, a vedere la velocità con la quale si facevano le curve, non si fidava di lasciarlo sul sedile posteriore. «Qualche giorno… Non ero mai venuta. C’è un albergo a Malesco?»

«Sì! Qui di alberghi ce ne sono dappertutto… Dopo la guerra, hanno ricostruito anche ciò che non era mai stato costruito prima…»

Si tolse il sigaro di bocca e sputò violentemente verso il bordo della strada, dove i pennacchi bianchi delle graminacee abbassarono la testa per evitare la patacca. Poi l’autista rimase silenzioso, fino a quando non arrivarono nel punto in cui la veduta sulla valle del Melezzo si apriva sotto di loro. L’uomo fermò la jeep e spense il motore.

«Vede, quella era una valle bellissima. La chiamavano la Valle dei Pittori. Ebbene, oggi, è diventata la Valle dei Costruttori… Costruiscono dappertutto: case, case, case… Condomini, appartamenti… Sono chiusi tutto l’anno. Qui vengono solo i vacanzieri per l’estate; milanesi… Vede lassù, sulla montagna? Hanno costruito addirittura i “Resideins”. Distruggono tutto… Ci sono gli ambientalisti, ma loro proteggono solo le zone umide, le pozzanghere per la rana rossa e il tritone alpino… Tra poco non ci sarà più che cemento e catrame. E allora, quando tutto sarà distrutto, i loro cari turisti andranno, dove ci sarà ancora qualcosa da distruggere… È il futuro che avanza.»

«A lei non piace il futuro?» si azzardò Eva.

«No, neanche un po’. Non questo futuro, perché così non c’è affatto futuro.»

«E il passato?» chiese Eva sperando di poter indirizzare la conversazione verso gli argomenti che la interessavano.

«È ben a causa del passato che oggi c’è il presente», mugugnò l’uomo mentre scuotendo la testa, riavviava il motore per significare che il discorso era chiuso.

Si fermarono davanti alla chiesa, Eva scese, l’uomo accennò un mezzo saluto militare, poi ripartì senza voltarsi lasciando Eva piantata in mezzo alla piazza col suo zaino depositato per terra e l’atteggiamento evidente di qualcuno che si chiedeva: «E adesso, cosa facciamo?»

«Adesso», pensò Eva. «Deposito questo sacco in un albergo e mi faccio una perlustrazione a piedi.»

Quindi entrò nell’Albergo delle Tre Stelle Alpine, chiese una camera, ci lasciò lo zaino e si allontanò per le viuzze del villaggio.

 

Malesco era un piccolo villaggio qualunque, con qualche enorme condominio chiuso e sproporzionato per le dimensioni locali. Sotto il paese, scorreva un fiume dagli argini dubbiosi, sbarrato da briglie disastrate come all’indomani d’un alluvione, col cemento sfondato e le bacchette di ferro puntate in aria alla maniera di una dentiera che ha perduto un dente su due.

Eva scese vicino all’acqua, si sedette su un grosso sasso rotondo, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e, col binocolo, cominciò a guardarsi intorno fin quando, all’improvviso, un furioso abbaiamento si scatenò ai suoi piedi.

«Rex! Vieni qua!» gridò un signore che agitava le braccia invano. Il cane che mostrava i denti e ringhiava era davvero brutto: nero, con la testa piccola, il corpo sproporzionato e grasso e gambette sottili come un burocrate dal corpo obeso e dagli arti degenerati. Gli mancavano solo gli occhiali.

Eva, prudentemente, non si mosse fin quando non arrivò il padrone.

«Non si spaventi, Signorina. Non è cattivo, è solo psicopatico: pensa che lei voglia rubargli la pallina…»

«Morde?»

«No! Fa solo fracasso…»

Difatti, sotto il sasso giaceva non una pallina, ma un grosso bastone. Il signore lo prese e lo scaraventò il più lontano possibile, fino all’altra riva del fiume. Il cane partì in tromba col suo ridicolo codino mozzato in aria, si gettò nell’acqua, attraversò la corrente come un siluro, afferrò un capo del bastone troppo lungo e proseguì in una corsa sfrenata trascinando il resto del bastone dietro di sé mentre il padrone gridava: «Dai, Rex! Dai, corri, corri…»

«Mi farà morire», sospirò poi rivolgendosi a Eva, che osservava in silenzio. «Questo ha un’energia… Due volte al giorno devo farlo correre, altrimenti mi disfa la casa…»

Poi riflettendo e quasi per sé stesso, aggiunse: «E d’altronde… Non fuma, non beve, non va a donne. Non fa che mangiare, dormire e rincorrere palline o, naturalmente, bastoni…»

«Allora, lei viene qua due volte ogni giorno?» chiese Eva.

«Tutto sommato direi di sì…»

«Conosce bene la regione?»

«Sì e no. Abito qua, ma sono straniero», rispose l’uomo col tipico accento lombardo.

«Parla bene l’Italiano per essere uno straniero…»

«Sono italiano, ma qui se non ci sei nato e cresciuto da venti generazioni, sei straniero…»

Eva provò a farsi raccontare quello che gli altri avevano sottinteso senza però esplicitare.

«Guardi», interruppe l’uomo. «Io mi chiamo Marco…»

«Ah, piacere. Io mi chiamo Eva…»

Si strinsero la mano e si sedettero vicino all’acqua che scorreva limpida e molto fredda tra i ciottoli rotondi e bianchi, mentre Rex veniva ad annusare quella figura nuova. Eva prese nel taschino la scatoletta metallica grigia e blu, la aprì e la porse a Marco. Presero tutti e due una pasticca di Blackcurrant e si misero a masticare pensierosamente.

«Non ero mai stata qua», riprese Eva. «Mi sono meravigliata di questi grandi condomini tutti chiusi… Qualcuno mi ha detto che sono delle case per le vacanze. A me sembra strano… Non posso immaginare chi vorrebbe venire qui per le vacanze. Il posto mi sembra così… squallido. Questo fiume martoriato, queste povere montagne degradate da funivie e costruzioni, a dir poco oscene…»

«E quello è solo quanto salta all’occhio a prima vista», disse Marco. «Il peggio è quello che non si vede… Discariche, fognature…» E iniziarono una vasta discussione sullo sfruttamento della natura.

«Ma qui, da dove vengono i capitali?» interruppe Eva.

«Qui, prima della guerra erano scavapatate»

«Durante la guerra», chiese ancora Eva. «Sono successe strane cose?»

«Come dappertutto in zona di confine», rispose Marco. «Traffici, bracconaggi, contrabbandi… E non solo di merci, anche di gente.»

«Come di gente?»

«Di preciso io non so, ma ogni tanto si sente qualcosa; qualche accenno, qualche sottinteso… Qui la gente non parla, ancora meno con gli stranieri… Omertà… Si figuri che quel tale ha ucciso un cane a bastonate e nessuno ha osato testimoniare! C’è anche una storia strana di un aereo caduto… C’è chi racconta che il carico non è mai stato ritrovato. Altre voci dicono che quando hanno trovato l’aereo, il pilota non era morto, ma dopo non era nemmeno più vivo… Girano storie strane…»

«E durante la guerra? C’erano passatori?»

«Passatori, partigiani, fascisti, tedeschi, e poi i “liberatori”. Una grande confusione; una grande anarchia nella quale i deboli, una volta di più, hanno pagato il prezzo più alto…»

«Quale prezzo?»

«Tutto: denaro, gioielli e qualche volte anche la vita…»

«C’erano Ebrei?»

«Sì, anche Ebrei. C’erano anche donne e bambini…»

«Donne e bambini?»

«Si racconta che qui imperversava una banda di passatori; derubavano la gente, li portavano di notte in un posto bruttissimo invece di condurli dall’altra parte del confine… Insomma, li buttavano giù, nel burrone… Si racconta, ma chi sa se è vero… Nessuno è mai tornato indietro per dire com’è andata.»

«Sì, sempre i deboli pagano. Oggi non è cambiato niente.»

«È così in tutto il mondo.»

«E qui? Dov’è quel posto?»

«Chi lo sa…» disse Marco pensieroso. «Quelli che sanno non parlano. I vecchi muoiono. Tra poco più nessuno ricorderà. In queste montagne, ogni cinque anni viene una grossa alluvione che spazza via tutto e non se ne parla più…»

«Senta», aggiunse Marco. «Non vuol venire a casa mia? Mia moglie cucina bene, ci facciamo una bella spaghettata, come diciamo noi, “un 5 di Barilla”…»

«Conoscevo il 5 di Chanel, ma il 5 di Barilla… Ammetto che m’ispira curiosità…»

 

La sera saliva dalle valli verso le cime. Stava diventando frescolino. Marco ed Eva se ne andarono col cane bagnato e l’acquolina in bocca, pensando agli spaghetti ai carciofi che Gina, la moglie di Marco, stava cucinando.

«Allora», disse Eva mentre arrotolava gli spaghetti attorno alla forchetta. «Lei s’interessa della storia degli Ebrei?»

«Ma no!» interruppe Gina scherzando. «Marco, gli Ebrei, gli odia! Se fosse per lui li metterebbe tutti al rogo…»

«Come mai?»

«Beh», disse Marco. «Non è facile da spiegare. È un sistema di autodifesa, un meccanismo usato da molte persone. Se io dico “odio gli Ebrei”, basta: chiuso. Invece, appena mi chiedo “Gli Ebrei… cosa ne penso?” si apre una breccia nelle mie difese. Se mi chiedo cosa ne penso sono costretto a guardarli, studiare la loro storia, andare a vedere i campi di concentramento, guardare i film e leggere i libri… È più comodo ignorare…»

«Anche se non guarda, comunque i drammi ci sono…»

 

Il discorso era davvero ampio, ma sempre ritornava allo stesso nesso: non solo il confronto tra la vittima e il carnefice, ma anche l’atteggiamento del testimone. Se il testimone fa silenzio, diventa complice. Se invece reagisce, viene coinvolto in un vortice.

«Il peggio», disse Eva. «È diventare complice a causa del proprio silenzio».

Quella sera, Eva tornò in albergo più decisa che mai ad andare fino in fondo alla sua storia. Anche se gli elementi certi erano davvero scarsi.

 

Alle cinque del mattino, fu svegliata dalle macchine dei frontalieri che passavano per andare a lavorare in Svizzera. Si alzò e, quando fu pronta, partì anche lei, seguendo il piano dedotto da quanto aveva potuto ricostituire, in direzione del confine elvetico. Passò Rè e Meis, poi salì verso Dissimo e Olgia.

Eva portava pantaloni, una camicia color kaki e degli scarponi da trekking. Sembrava in divisa militare, ma senza mostrine. Il suo zaino conteneva l’occorrente per sopravvivere una settimana, come aveva imparato nelle montagne del Sinai.

Poi, seguendo la cartina geografica e masticando le gomme di Blackcurrant, risalì verso le montagne con, nella mente, la voce lamentosa di Mosè Caliman e, accuratamente, ricordò parola per parola:

 

“Era un gruppo. L’ho raggiunto a Castiglione delle Stiviere. Volevano andare in Svizzera. Andavano verso Nord. Camminavamo di notte oppure ci spostavamo nascosti in un camion. Il gruppo si disfaceva e si ricomponeva. Ci separavamo per non farci notare. Ci nascondevamo nei boschi e nelle case abbandonati. Andavamo sempre verso nord perché lì si sapeva che c’era il confine, ma tutte le volte, prima del confine c’erano le bande armate. Allora scappavamo di nuovo verso sud per ritentare verso nord qualche chilometro più a ovest.

Ci avevano detto che a Stresa si poteva passare il confine. Abbiamo impiegato nove giorni per arrivarci. Siamo arrivati, ma lì non c’era Confine. C’era solo il lago, un lago grandissimo. Abbiamo chiesto in giro, discretamente. Poi abbiamo trovato degli uomini che volevano condurci. Ci hanno riso in faccia… quel Confine non era a Stresa, ma a Ponte Tresa. Noi cosa ne sapevamo… Adesso eravamo a Stresa e qui non c’era confine… Gli uomini volevano condurci. Non erano Ebrei. Erano passatori. Lo facevano solo per soldi. Volevano i nostri soldi e noi non avevamo più niente.

C’era un signore che continuava a dire: “No Lea, non l’orologio di tua mamma”, poi hanno dato l’orologio e anche la catenina del bambino… Hanno preso tutto quanto ci rimaneva. Hanno detto che ci facevano attraversare il lago. Siamo stati ad aspettare fino a tarda notte. Faceva freddo. I bambini si addormentavano, poi piangevano. Non sopportavo di sentirli piangere. Quando piangevano, attiravano l’attenzione. Ero terrorizzato che ci avrebbero traditi. Qualcuno li poteva sentire e venire a controllare chi fossimo e arrestarci. Io avevo sentito dire dove andavano i treni con gli Ebrei. Qualcuno è venuto e ha detto che non si partiva perché c’erano troppe pattuglie. Ci hanno detto che, il giorno dopo, ci avrebbero portati sulla strada lungo il lago. Un’altra notte di freddo e di paura.

Siamo partiti con un camion. Prima del confine, si sono fermati e ci hanno fatto scendere. Siamo tornati indietro. Poi siamo ripartiti col camion su una strada che saliva. C’erano molti tornanti. Durava tante ore. Quel giorno siamo rimasti nascosti in una casa bruciata. Ci hanno dato da mangiare solo pane. Alla sera, siamo ripartiti di nuovo verso il confine della Svizzera, ma anche lì c’erano “le brigate”. Non si capiva chi: si diceva brigate, poi pattuglie, fascisti, partigiani… Passavano anche aerei. Si davano la caccia tra di loro.

Noi, in mezzo a tutta quella confusione, cercavamo solo di raggiungere il confine. Ci siamo fermati, poi siamo andati a piedi, lungo una mulattiera che saliva. Abbiamo camminato per ore. Le donne erano stravolte. I bambini piangevano. Non si poteva fare rumore. Portavamo i bambini piccoli. Eravamo tutti stanchi. Siamo passati in un villaggio. Lo abbiamo attraversato. Poi siamo saliti verso la montagna, verso il bosco, su un sentiero largo che saliva per diverse ore. Poi, abbiamo cominciato a scendere. In mezzo al bosco, c’era un piccolo prato. Ci hanno fatto entrare in una vecchia casa di sasso senza finestre. C’erano delle patate e dell’acqua. Eravamo talmente stanchi che abbiamo dormito tutto il giorno: c’era del fieno.

Poi, uno di loro ci ha detto: “Questa notte, il sentiero è tutto piano, fino a un’alpe. Da lì, ci sono duecento metri fino al confine. Siete quasi arrivati. Poi, basta salire cento metri e siete sul sentiero che va nei paesi svizzeri”.

Siamo partiti verso sera. Il sentiero era davvero quasi piano, ma la pendenza della montagna era ripida. Il sentiero si vedeva poco perché era pieno di foglie. Si inciampava, si scivolava. E sempre la paura di cadere, perché saremmo rotolati lungo quel pendio così impervio…

Quando siamo arrivati all’alpe, ci hanno detto: “Ecco: da qui è dritto. Scendete dritti per duecento metri, poi c’è il riale che fa da confine, lo attraversate e siete in Svizzera. C’è poca acqua…”

“Non venite con noi?” ha chiesto qualcuno.

“Per far cosa? Scendete dritto; qua è tutta discesa… Non andremo mica fino in fondo per poi dover risalire…”

Ci hanno lasciati lì. Eravamo da soli. Non conoscevamo il posto. Non saremmo riusciti a tornare indietro. Avevamo paura. Non c’era più il sentiero; si doveva scendere nel bosco. Era tutto bosco e rocce e faceva buio. Abbiamo cominciato a scendere, poi c’erano pareti di roccia, poi abbiamo girovagato, sempre più in giù. Si cadeva, non si vedeva più niente, ma si sapeva che c’era il confine e si sentiva scorrere l’acqua del riale, un piccolo riale. Poi, dopo era tutto roccia… Poi quegli uomini hanno gridato: “Correte, correte, arrivano le guardie!”

Hanno anche gridato “Arrivano i fascisti!”

Abbiamo sentito sparare. Eravamo così vicini… Ci siamo messi a correre, ciascuno per conto suo, senza pensare agli altri, giù e giù. Ci siamo persi. Io sono caduto, sono scivolato, sono rotolato e, quando mi sono fermato, ero mezzo incosciente, vicino al riale. Ho preso l’acqua, ho bevuto, ho bevuto tanto. Ero sudato, avevo paura, avevo anche male dappertutto. Sentivo gridare, gridare dal dolore e qualcuno gridava: “Non lasciarmi qua!” Mi sono alzato e, e dall’altra parte del riale, ho cominciato a salire. Mi trascinavo sulle ginocchia, a quattro zampe. Volevo andare in su, solo in su. Sapevo dove andavano i treni; non volevo lasciarmi prendere. C’erano rocce, grandi pareti di roccia.

E si sentivano le grida terrorizzate.

Mi sono trascinato sotto le rocce. Non mi sono più fermato perché avevo paura. Le mie gambe tremavano. Sentivo sempre quella voce che gridava: “Non lasciarmi qua!” Non volevo più sentirla. Andavo il più velocemente possibile, poi sono caduto, forse sono svenuto. Quando mi sono ripreso, era già giorno. Ero da solo; non c’era più nessuno e non sono tornato indietro per vedere dov’erano andati gli altri… Stavo in piedi a malapena. Non avevo mangiato.

Non so quanto tempo ho impiegato per arrivare alla strada… Io ho avuto fortuna: mi hanno preso le guardie. Mi hanno portato via. In Ticino c’era quel politico, quel Canevascini, un socialista. Ci hanno accolti; il Ticino ci ha accolti. In altri cantoni, sono stati respinti… Io sapevo, dove andavano i treni… Quando la guerra è finita, sono rimasto perché non avevo più nessuno. Non avevo più nessun posto, dove andare… Non vedevo nessun posto, dove avrei potuto andare… Sono rimasto, ho fatto tutti i lavori, poi sono finito come mi vede: vecchio, malato, miserabile… Non sono tornato indietro per vedere cos’era successo agli altri… E sento ancora adesso quella voce che supplicava: “Non lasciarmi qua…” Di notte, mi sveglio perché quella voce mi chiama. In tutti i miei incubi, c’è quella voce che chiama. Ho paura della notte perché ho paura degli incubi. Ho paura di quella voce…

Non c’è più stata pace, non ci sarà mai più pace… Credo di non avere altro da aggiungere…”

 

Eva attraversò il villaggio. Il sentiero saliva su per prati ripidi e, finalmente, entrò nel bosco di faggi. La sera scendeva lentamente; era ora di cercare un rifugio per la notte.

Il sentiero proseguiva a zig-zag stretti. La pioggia aveva portato via la terra e non rimanevano che sassi scomodi sotto le foglie secche; gli scalini erano irregolari, si camminava male e lentamente. Arrivando in cima alla collina, il bosco si aprì. Nel vasto prato stavano alcune cascine. Eva ne cercò una che fosse aperta. Sembravano tutte chiuse con grossi catenacci.

Una stalla era aperta. Non aveva nemmeno la porta; c’era poco fieno. Le capre e le pecore erano entrate e avevano insudiciato tutto. Sul piano di sopra ci si poteva sdraiare. Il pavimento era fatto di tronchi giovani depositati l’uno vicino all’altro. Qualcuno era rotto e sui due pezzi che penzolavano c’erano un po’ di fieno e tanta sporcizia. Eva cercò il fieno meno sporco, lo stese dove il pavimento aveva resistito: avrebbe dormito lì. Lasciò il suo zaino, poi salì verso il punto più alto della collina. Si sedette e col binocolo si guardò intorno.

Era quella la zona che aveva osservato quando, con Donato, aveva perlustrato l’altra sponda della valle. Era qua che doveva cercare. La cartina marcava chiaramente tutti gli alpeggi e tutti i sentieri. L’indomani, sarebbe partita dall’angolo del prato per cercare il sentiero che saliva e che portava all’alpe. Per ora, Eva non desiderava altro che sdraiarsi e dormire.

Si sdraiò nel suo sacco a pelo. Il pavimento era duro, ma quel poco di fieno era quasi confortevole.

 

Ripensò a Donato. Prima di partire, gli aveva telefonato:

«Volevo farti le mie condoglianze per tua madre.»

«Tu sai tutto di me, vero?»

«Tutto forse no. Qualcosa, sì…»

«Come fai a saperlo?»

«Lo Zio Ariel…»

«Lo stesso Signor Ariel Levi che conosco io?»

«Sì.»

«È tuo Zio?»

«È lo zio di mio padre.»

«Viveva con mia madre…»

«Sì. In qualche modo, tu ed io siamo fratelli, o almeno cugini…»

«Sono successe troppe cose. Non riesco a capire il corso degli eventi. Vorrei parlare con te.»

«Sì, dobbiamo  parlare. È importante. Gli adulti di oggi siamo noi. Quello che loro hanno fatto non era per loro; l’hanno fatto per noi e noi lo faremo per i nostri figli… È importante parlare insieme e che tu capisca. Quando ritornerò…»

«Vai via?»

«Sì.»

«Tu sai tutto anche di mia madre?»

«Non tutto.»

«E tu, chi sei? Non vuoi dirmi chi sei?»

«Chi sono io non è importante, l’importante adesso è che tu possa capire chi sei tu. Se vuoi, ti aiuterò.»

«Sì, avrò bisogno di te. Ero così sicuro di me. Adesso non mi riconosco più. Mi sento estraneo a me stesso. Ho vissuto quarant’anni come orfano. Oggi ho una madre e un padre, ma non saranno mai qui per rispondere alle mie domande. Molte persone sanno tutto di mia madre e di mio padre ed io, che sono il loro figlio, sono l’unico a non sapere niente… Mi sembra d’impazzire. Sono sempre stato solo e oggi mi trovo una famiglia di cui non so niente… È come se avessi vissuto in un altro mondo. Qual è il mio mondo? Ho bisogno di certezze. Voglio conoscere la verità…»

 

La notte era fresca. I ghiri giocavano tra le travi del tetto. Gli animali della notte si svegliavano e cominciavano le loro perlustrazioni alla ricerca di cibo.

Prima dell’alba, Eva sentì un rumore strano che si ripeteva a cadenza regolare: sembrava il gorgheggiare di una bottiglia, seguito da un soffio potente. Senza far rumore, si alzò, si vestì, lasciò tutte le sue cose, uscì dalla stalla e cercò la provenienza di quel rumore che non conosceva.

Veniva dall’alto. Lei salì, poi raggiunse un avvallamento che era come un anfiteatro nel quale rimaneva una chiazza di neve: quattro grossi uccelli neri salivano e scendevano, si sfidavano, si rincorrevano, poi partivano ognuno per conto suo prima di ricominciare. Rovesciavano la testa all’indietro per cantare, poi ripartivano a testa bassa, le ali stese e la grande coda nera aperta come un ventaglio in un fremito minaccioso. Era la parata dei maschi[48]. Due gallinelle si tenevano in disparte. Eva si sedette a osservare la danza. Una volpe venne a vedere se poteva sorprendere qualcuno. Poi arrivarono i primi raggi del sole. Bruscamente, tutti volarono via e fu di nuovo il silenzio.

«Bello… È così che la vita continua…» pensò Eva mentre tornava alla stalla per far bollire due tazze di acqua sul suo fornellino a gas.

Prima si preparò una tazza di fiocchi di cereali, poi una tazza di tè. Faceva freddo. Eva aprì le cerniere del suo sacco a pelo e se lo mise intorno alle spalle a mo’ di scialle, poi riprese in mano la cartina per studiare il seguito del percorso.

 

Dopo la frugale colazione, Eva prese il suo zaino in spalla e si avviò. Lasciando il prato, si doveva salire sul fianco destro del monte, ma il sentiero si perdeva sotto le foglie di faggio. A tratti era totalmente cancellato.

Tornò indietro. Il sentiero che saliva sulla sinistra portava a un’alpe. Era un sentiero largo e comodo, anzi, una mulattiera. Dopo l’alpe, seguivano prati, rocce, pietraie, boschi radi. Doveva essere un posto di vipere. Una cascina era crollata. Eva salì in cima al prato, poi si sedette e col binocolo esaminò la valle che scendeva a est verso i muraglioni di roccia. Era evidente: la valle che cercava si trovava ai piedi di quelle pareti. Ne era separata dalla vasta distesa di foresta nella quale si poteva gironzolare per giorni, incappare nelle rocce, dover risalire e ricominciare.

C’era un altro sentiero marcato, quasi orizzontale, e di là sarebbe stata tutta discesa, proprio sullo spartiacque. Anche se il sentiero si perdeva, bastava rimanere sulla costa. Eva decise di tornare indietro verso sud seguendo questo sentiero. Un po’ si vedeva, un po’ s’indovinava. Quando arrivò alla bocchetta, capì che era sulla strada giusta.

Mentre si camminava nel bosco, non si vedeva niente. Non c’era modo di trovare punti di riferimento: si era immersi nella vegetazione. Arrivata sul monte, poté riorientarsi e ripartire verso est. Difatti, sullo spartiacque, trovò le tracce di un sentiero che scendeva dritto e, quando scomparve completamente, lei continuò a scendere nel bosco dritto davanti a sé e finalmente sboccò sul prato.

 

Eva si fermò all’alpe. Avrebbe bivaccato lì e, l’indomani, avrebbe deciso il da farsi o forse il giorno dopo… ma qui, c’era davvero una voce che la chiamava: la sentiva nella sua anima.

«Non lasciatemi da sola. Non lasciatemi qua».

Eva si sedette sul prato davanti alla cascina e si raccolse in profonda meditazione: voleva dare tutto lo spazio a quella voce perché potesse uscire dalla notte, dal suo subconscio e dall’orrore.

Eva recitò il suo mantra e ci aggiunse: «Nonna, sono venuta perché mi chiami. Guida i miei passi. Sto camminando verso di te. Ti ascolto, guidami verso di te…»

 

L’alba si alzava prestissimo perché la primavera si avvicinava al solstizio. Eva riaccese il fuoco nel focolare della cascina, scaldò l’acqua, bevette il tè Earl Grey molto forte, mangiò lentamente i fiocchi di cereali gonfiati dall’acqua bollente, poi richiuse tutto nel suo zaino e si orientò.

La foresta era rasserenante; sul fondo del prato, pascolavano due camosci: una femmina gravida e il suo piccolo nato l’anno prima. Gli uccelli cantavano come impazziti e il loro chiasso sfrenato dava corpo al silenzio.

Eva guardò sopra di sé le pareti vertiginose color melanzana che si slanciavano nel blu turchese che segue la porpora dei primi raggi del sole. Le valli erano ancora scure. Il contorno delle cime cominciava a luccicare. Le pareti sarebbero diventate gialle e poi bianche, splendenti, un granito magnifico e maestoso, pareti immense frastagliate di torri che svettavano nel cielo; placche e guglie, spigoli e profondi canali tuttora invasi dalle ombre e dagli spiriti.

Sopra di lei, si drizzava la fortezza che custodiva troppi segreti. Eva decise di scendere verso il buio, di scendere in sé stessa e nel passato lontano; di scendere nel ricordo e nell’abisso dove le anime si uniscono e non sono più che una sola. Là sapeva che avrebbe incontrato sua nonna. Nel fondo della sua anima, c’era quella di sua nonna.

Guardò il cielo, si orientò e cominciò a scendere senza pensare, senza guardare. Scendeva col passo leggero e sicuro sulla strada che nel suo intimo conosceva; quella strada che aveva imparato ad ascoltare durante le pattuglie notturne, le missioni nel deserto o le marce nelle montagne.

Certi lo chiamavano “istinto”. Eva la chiamava la “voce della vita”. Le bastava seguire la voce della vita che la guidava, perché la sua energia era in perfetta sintonia con le vibrazioni della terra, degli alberi, degli animali che tranquillamente seguivano i cicli delle stagioni.

Arrivò sopra le rocce e sapeva di dover voltare a sinistra. Lì avrebbe dovuto trovare un canale: lo sentiva all’aria fresca che scendeva lungo l’avvallamento. C’era un passaggio e vide che una cengia stretta permetteva di scendere fino all’acqua del torrente. Eva si mise in ginocchio, prese l’acqua tra le mani e si lavò il viso, poi bevve. L’acqua era buona, ghiacciata. Conosceva la sete del deserto. Invece qui, l’acqua scorreva semplicemente tra i sassi come un lusso arrogante e nessuno ci faceva caso; nessuno capiva il suo valore…

Il bosco era lussureggiante, l’odore delle foglie di faggio quasi marce era acre e il loro colore rosso, scuro come il granato. Quel posto era bellissimo ed era fatto per riposare in pace. Ad ogni buzza[49], i torrenti cascavano dalle pareti e si concentravano in quel piccolo riale, che allora diventava un torrente furioso che spazzava via tutto e rendeva alla roccia il suo biancore impietoso. C’erano state molte buzze e l’alluvione del ‘78: i corvi, le volpi e i cinghiali avevano cancellato tutto. Era quella la valle della Ribellasca. Eva se la ripeteva come una filastrocca: ribelle, bella, fuggiasca

Come aveva imparato durante marce estenuanti, notti fredde, accampamenti precari, sorveglianze rischiose e allenamenti spietati della vita militare, una volta di più Eva avviò il protocollo del training autogeno. Fece il vuoto, si lasciò penetrare dall’incanto e la sua anima si lasciò invadere dalle piante e dai muschi, dalle rocce e dal fiume tra quegli enormi sassi rotondi che da millenni seguivano la strada verso la pianura.

Se qua uomini e donne erano morti, non poteva essere che guardando verso l’alto, dal fondo di quel burrone, verso la luce che splendeva tra le cime.

A destra, a pochi passi, alla base della parete strapiombante, era crollata una vena di roccia più morbida e gialla, lasciando dietro sé un’apertura come una grotta.

 

Ora le era tutto evidente. Eva entrò nella grotta e si sedette. I suoi occhi si adattarono alla luce più dolce. Il vento aveva soffiato le foglie morte che si erano ammucchiate in un angolo. Non c’era da trovare nulla di materiale, bensì l’intima convinzione che, qui, le cose erano successe…

 

Era compiuto tutto: Eva aveva risposto alla chiamata e compiuto il suo dovere. Ora si sentiva in pace.

Si sarebbe ancora fermata a parlare con Donato: coi suoi dubbi, le sue inquietudini e i suoi molteplici “chi sono io?”.

Finalmente, Eva si sentì libera; libera di partire e riprendere il suo posto nei servizi segreti che, discretamente, continuavano a indagare sui crimini perpetrati contro il suo popolo, che ora si stava costruendo una vita nuova.

 

 

 

 

 

 

 

Epilogo

 

Molti anni sono passati.

Donato e Sigried vivono in un angolo sperduto del Montana, ai piedi di grandi montagne, nel ranch che Nora aveva comperato con l’intento di trascorrerci gli anni tranquilli della vecchiaia. Producono miele, principalmente di larice.

Per Eleonora e Luca, il tempo libero è poco, perché si preparano a entrare a Harvard, dove era stato riservato loro un posto. Eleonora è appassionata di cavalli, mentre Luca pratica l’arte della pesca alla mosca. E in mezzo scorre un fiume….

Da loro, Ariel ritrova il calore della famiglia e tutti si rallegrano quando Eva sbarca all’improvviso con regali fantasiosi ed avventure rocambolesche da raccontare.

 

  Solo dopo il loro trasferimento negli Stati Uniti, il Signor Ariel Levi mi diede il permesso di raccontare la storia della sua famiglia.

In Belgio, fino al dramma della guerra, i Levi erano stati i nostri vicini di casa.

 

FINE.

 

 

Finito di raccontare venti anni dopo, il 5 luglio 2020, a Loco, nel giorno della festa di Sant’Antonio.

 

 

Bibliografia

 

Israele

«La Bible» tradotta da André Chouraqui

«Bibbia ebraica» a cura di Rav Dario Disegni

«The Constant Feud» by E.G.Ban

«My life» autobiography by Golda Meir

«Rise and kill first» by Ronen Bergman

«Israele - I Luoghi e la Storia» Annie Sacerdoti, Edizioni White Star 1998 - ISBN 88-8095-317-6

«Breendonk, les débuts» P. Buch, R. Linthout, F. Selleslagh, Buch Edition - 1997; ISBN 2-930180-04-8

«Le Livre des Camps» Ludo van Eck, Ed. Kritak, 1979,

« L’Europe face à l’islam » Alain Wagner.

«Stallag XVII Kaisersteinbruch» Anne Lauwaert  https://www.moosburg.org/info/stalag/lauwaert.html

http://www.terredisrael.com/infos/la-synagogue-de-lugano-un-petit-monde-a-part-par-anne-lauwaert/

 

Congo

«Comment j’ai retrouvé Livingstone» par Henry Morton Stanley

«Stanley, the making of an African explorer» by Franck McLynn

«Autobiography» by Tippo Tip

«Mon Père m’a dit» par Elliott Roosevelt

«Chief of station Congo» by Larry Devlin

«Souvenirs d’enfance» Anne Lauwaert

https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/p/congo.html

 

Diamanti

«Rhodes» by  Antony Thomas

«The Courtney & Ballantyne novels» Wilbur Smith

Documentazione del Hoge Raad voor Diamant di Antwerpen

«Antwerp Facets» Hoge Raad voor Diamant, sept. 1999, nr. 32

 

Valle Onsernone

«La Voce Onsernonese»

 

Della stessa autrice:

«I Giorni della Vita Lenta» CDA - Torino 1994

«La Via del Drago» - CDA - Vivalda - Torino 1995

 2a edizione 2008

Iconografia vedi www.claudiobarbier.be

Premio Letterario Leggimontagna 1° rango, 2009

«Allarme in Valle Onsernone» - presso l’autrice 1995

«Les Oiseaux Noirs de Calcutta» -Ed. Tatamis - Paris - 2012

«Le Grimpeur Maudit» - Ed. Tatamis - Paris - 2012

«Des Raisins trop Verts…» - Mon Petit Editeur - Paris - 2014

Illustrazione di vari libri di Malca Levi

Numerosi articoli e racconti.

Vedi https://atelier-ca-della-fiola.blogspot.com/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quarta di pagina:

 

Il destino conduce Nora dalla Valle Onsernone a New York, dove incontra diamantari ebrei di Anversa e la musica che la condurrà attraverso capitali europee ed avvenimenti politici come la nascità dello stato di Israele per, finalmente, ritrovare la persona che è stata il perno della sua vita: suo figlio.

 


Anne Marie Georgette Lauwaert, detta Anna, è nata il 2 febbraio 1946 a Ninove, nelle Fiandre.

Scrittrice svizzera di origine belga, fiamminga ma di lingua madre francese, vive in Ticino dal 1980. Fisioterapista, ha studiato in Belgio e Svizzera, ha trascorso parte della sua infanzia in Congo, viaggiato in Sud Africa, Pakistan e India.

Oltre a scrivere, Anna dipinge, studia musica, filosofia e pratica il giardinaggio.

 

­

 

 



[1] Bacìo, versante della montagna all’ombra.

[2] Gabinetto.

[3] Alambicco.

[4] Linguaggio popolare per “comunione solenne”.

[5] Sbruffone.

[6] il salmo 121

[7] “Se vuoi la pace, prepara la guerra.”

[8] “Perché era lui, perché ero io”.

[9]«Il giorno in cui la pioggia verrà, noi saremo, tu ed io, i più ricchi del mondo. Gli alberi piangenti di gioia offriranno tra le loro braccia i frutti più belli del mondo».

[10]«Balliamo perché nei granai si ripone il grano, è l'ultimo giorno della mietitura, balliamo senza più pensare allo sforzo che abbiamo fatto, balliamo.»

[11] «Se gli affari vanno male, è colpa degli Ebrei…»

[12] «Questi sporchi Ebrei… Non è vero, Signora?»

[13] «La stupidità umana dà un'idea dell'infinito.»

[14] Portafortuna, amuleto

[15] «Sì, sì! Un Top Wesselton… senza dubbio…»

[16] «È quello… River… Mmh… Sì, sì…»

[17] «Molto, molto piccole impurezze…»

[18] Inclusioni difficili da osservare ad occhio nudo.

[19] Incrinatura di sfaldatura.

[20] Lente che non deforma l’immagine e non scompone la luce

[21] Tipo di pinzetta.

[22] Torre di sorveglianza nelle prigioni e nei campi di concentramento.

[23] Centro di “accoglienza” cioè detenzione

[24] “Circuiti riverberanti” , cf. Lawrence Kubie; “e non racconto nemmeno tutto...”

[25] «Speriamo che duri…»

[26] «Quando il nostro cuore ha fatto una volta la sua vendemmia…»

[27]  Quinta sinfonia di Beethoven: la la la fa

[28] «Sì, quelli sono tipi in gamba…»

[29] Celebre canzone: “Gerusalemme d’Oro.”

[30] Piccoli escrementi.

[31] “Santo cielo! Il mio marito!”

[32] Fine lastra di granito usata come tegola sui tetti.

[33] “Quelli che ballano nudi.”

[34] Superpuma, Puma, Kamov, Lama e Alouette sono modelli di elicottero.

[35] «Né visto, né conosciuto».

[36] Letteralmente «fico d’India, cactus». In senso figurato, si dice di una persona ebrea nata in Israele dopo la costituzione dello Stato d’Israele.

[37] «La musica addolcisce i comportamenti».

[38] «Aria di monti limpida come vino e fragranza di pini portata nel vento del crepuscolo, con una voce di campane, e in un sonno di albero e di pietra, prigioniera del suo sogno, sta la città che siede solitaria, nel cuore della quale sta un muro...» (canto tradizionale israeliano).

[39] «Gerusalemme d'oro, di bronzo e di luce, forse che io non sono un violino per tutte le tue canzoni?»

[40] Dialetto della Svizzera tedesca.

[41] Deformazione in linguaggio familiare tedesca della parola francese «adieu».

[42] Pastiglie al ribes nero, da una ricetta originale inglese del 1850.

[43] «Ciao ragazzino».

[44] «Ciao gattina».

[45] Scialle usato durante la preghiera nei rituali ebraici.

[46] Salmo 141

[47] «La pioggia, la buona e dolce pioggia d’autunno…»

[48] Parata di fagiani di monte.

[49] Buzza = acquazzone

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